Dopo l’euforia di alcuni (pochi) e la rabbia di altri (molti), è il tempo di fare qualche considerazione sulla rielezione di Giorgio Napolitano al Quirinale. Premesso necessariamente che non si può parlare di colpo di stato (pena l’ostracismo), le vicende che hanno preceduto e che seguono l’evento clamoroso sono quantomeno rivelatorie. Vedere gli esponenti dei partiti politici di destra-sinistra applaudire un Re Giorgio dai toni fustigatori nei loro confronti, l’informazione berlusconiana esaltare la rielezione di un ex comunista al Quirinale e della piddìna Serracchiani in Friuli Venezia Giulia, o, al contrario, organi di informazione ostili al Cavaliere fare da cassa di risonanza alle ispirazioni restauratrici di quest’ultimo… fa quantomeno sorridere. In questa battaglia per il Colle, Beppe Grillo e il MoVimento 5 Stelle sono riusciti ad unire il diavolo e l’acqua santa in unico fronte compatto, a difesa del proprio status quo, mostrando così a tutti quanto il bipolarismo sia in realtà un gioco delle parti. Dopo il 20 aprile, la distinzione è netta, quasi metafisica: da un lato una classe dirigente ormai prossima al pensionamento, che letteralmente “non sa più che pesci pigliare” ed è costretta ad affidarsi al Venerabile Giorgio, da cui accetta volentieri di farsi dare ordini pur di sopravvivere qualche mese in più; dall’altro il “portavoce” Grillo, che da tempo ha dismesso i panni del comico per assumere quelli dello stratega militare.
Già, perché di strategia militare (e delle più raffinate) si tratta. Basti pensare alle parole usate da Grillo nell’ormai lontano (è proprio il caso di usare quest’aggettivo) 2009, quando lanciò dal suo blog l’idea di costituire un Movimento di Liberazione nazionale, che avrebbe assunto poi il nome che tutti conosciamo:
Quando i soldi finiranno, o meglio, quando saranno costretti a annunciare che i soldi sono finiti, allora inizierà il ballo. Nessuno può dire che tipo di ballo sarà. Secessionista, peronista, federalista, pre unitario, fascista. Una danza a cui dobbiamo partecipare, non assistere.
Con gli occhi di oggi, queste parole indicano quanta lungimiranza vi sia dietro il progetto politico del M5S. Mentre oggi riusciamo a stento a comprendere cosa ci succeda intorno, Grillo e Casaleggio sembravano sapere già da anni in quale situazione l’Italia si sarebbe trovata, con una precisione davvero notevole.
Lo scenario di un’Italia balcanizzata, infatti, è stato evocato anche di recente da Grillo, proprio durante la battaglia per il Colle, nell’ammonire Pierluigi Bersani e il suo partito dall’elezione di un presidente dell’inciucio:
Il pdmenoelle ha consultato (e sta consultando) solo Berlusconi per proporre D’Alema, Amato, Violante come ruotino di scorta o un presidente dell’inciucio dell’ultimo momento. Un loro settennato consegnerà l’Italia alla dissoluzione non solo economica, ma anche come Stato unitario. E’ bene saperlo in anticipo. Ognuno si prenda le sue responsabilità.
L’invito agli italiani a partecipare al ballo, anziché assistervi, può quindi essere letto come un invito a prendere in mano le istituzioni per tempo, prima che queste vengano distrutte insieme al paese stesso. Per fare questo serviva una struttura informativa e organizzativa alternativa all’informazione ufficiale e alla partitocrazia, che permettesse di incanalare la rabbia popolare crescente ed indirizzarla verso un progetto politico. Un progetto che, alla luce degli accadimenti attuali, mira forse a mettere l’Italia in salvo dal rischio di finire “come la Grecia”, dopo le politiche recessive (mi si perdoni l’eufemismo) del governo Monti, con i rischi che ciò avrebbe comportato per la tenuta non solo sociale, ma anche politica di un paese così frammentato.
In quest’ottica si può leggere la scelta di sostenere la candidatura di Stefano Rodotà alla più alta carica istituzionale. Per il suo curriculum e le sue idee, Rodotà era la candidatura più adatta, tra quelle indicate nelle “quirinarie”, per un settennato di transizione. Un settennato di pacificazione tra le parti sociali, tra Nord e Sud, tra i cittadini e le istituzioni. Queste, in particolare, avrebbero avuto un’ultima occasione di riscatto, per evitare la bancarotta morale (prima che finanziaria). Infatti, che ne sarà della Repubblica Parlamentare quando le proteste (mi si perdoni ancora l’eufemismo) contro le politiche di austerità (che non saranno superate, ma applicate anche alla politica) saranno proteste contro il “governo del Presidente”?
Al contrario, Rodotà ha sempre difeso l’assetto parlamentare della Repubblica (non è peccato pensare al Presidenzialismo, purché lo si proponga alla luce del sole), come previsto dalla Costituzione. Una fedeltà alla Carta Costituzionale che non poteva non riservare critiche all’introduzione del pareggio di bilancio, che “ha reso Keynes incostituzionale”, come scrisse in una lettera a Repubblica il 20 giugno 2012, in cui si esprimeva a favore di una maggiore democratizzazione dei processi decisionali anche in materia economica, attraverso il referendum propositivo e l’introduzione di forme di partecipazione pubblica al bilancio (proposte presenti anche nel programma elettorale del M5S).
Rodotà si è espresso criticamente anche nei confronti delle privatizzazioni, che invece hanno caratterizzato la politica dei governi di centrosinistra e saranno una questione “urgente” anche per il governo Letta. L’occasione era un seminario organizzato dal Pd presso la Casa dell’Arhitettura a Roma, il 7 febbraio scorso, parlando di fronte ad un uditorio che all’epoca considerava amico:
Deve essere la Corte dei Conti a ricordarci che serve uno sguardo critico sulle privatizzazioni del passato? Siamo ancora prigionieri delle semplificazioni che fanno guardare ai beni pubblici solo con lo sguardo disperato delle dismissioni.
E ancora, alludendo a chi abbiano giovato veramente le dismissioni pubbliche italiane, aggiunge che la politica deve ribellarsi alla dittatura di soggetti opachi e irresponsabili, elevati al rango di dominatori d’ogni politica.
Ma in quella stessa occasione, è sul concetto stesso di cittadinanza che Rodotà mostra tutto il suo “grillismo”, all’epoca (forse) insospettato:
I diritti sociali devono essere oggetto primario delle politiche pubbliche, che intorno a questi diritti fondamentali costruiscono una cittadinanza inclusiva e con essa le precondizioni stesse del processo democratico. Dobbiamo interrompere la spirale del ritorno alla cittadinanza censitaria con azioni concrete, che vanno dal reddito universale di cittadinanza, alla cancellazione dell’articolo 8 della legge dell’agosto 2011 dove è permessa la deroga alle garanzie previste dalla legge nella contrattazione, alla scuola e alla salute, dove il loro essere pubbliche ci parla di una qualità, non di una modalità di spesa. Se però la politica vuole tornare ad essere pienamente costituzionale, deve affrontare questioni come quella del pareggio di bilancio e del patto di stabilità, che hanno sfigurato la Costituzione e si pongono come ostacolo alle politiche pubbliche di rispetto dell’uguaglianza, della libertà, della dignità delle persone.
Difficile non chiedersi come abbia potuto, con queste idee, aver ricoperto il ruolo di presidente del Pds e godere di buona fama all’interno del Pd. Più facile, invece, capire come la sua elezione avrebbe potuto aprire le porte ad un governo di collaborazione tra il Movimento di Grillo e Casaleggio e la nuova generazione del Pd, che pur condividendo idealmente (ed ingenuamente) le scelte della classe dirigente del proprio partito, non ne può condividere la responsabilità. Un governo che avrebbe potuto aprire spiragli di “speranza” nell’opinione pubblica, attuando alcuni dei punti dell’Agenda Grillo, come la riduzione della pressione fiscale sulle imprese, il reddito di sussistenza, passando per un taglio (simbolico) alle spese della politica, magari spostando la lotta all’evasione fiscale sul campo delle rendite finanziarie, del gioco d’azzardo e della prostituzione. Certo, si sarebbe trattato di qualcosa di ancora lontano, in realtà, da ciò che serve veramente all’Italia: una maggioranza politica forte, non espressione della rabbia popolare, ma del comune desiderio di recuperare la sovranità, come cittadini e come nazione. Un governo che abbia una visione del futuro a lunga scadenza, con un programma mirato a ricostruire da capo questo Paese, per aprire non una nuova stagione, ma un Nuovo Rinascimento. Per ora non ci è data nemmeno la transizione, ma a rimetterci saranno soprattutto “loro“: avrebbero potuto chiedere scusa, farsi da parte, restituire il maltolto (in primis la sovranità popolare, vera refurtiva del saccheggio repubblicano) e, perdonati, godersi il Futuro. Invece…
Jacopo Castellini