Dopo il via libera ottenuto verso la metà del giugno 2013 dagli Stati membri dell’Unione Europea e dal Congresso statunitense, ilpresidente degli USA Barack Obama e le principali autorità europee hanno ufficialmente avviato i colloqui volti a favorire la creazione del Transatlantic Trade and Investment Partnership (TTIP) – o Trans Atlantic Free Trade Area (TAFTA) –, un’area di libero scambio tra Stati Uniti ed Europa che dovrebbe regolamentare il mercato tra le due sponde dell’Atlantico, con particolare riferimento a prodotti agricoli e industriali, appalti pubblici, investimenti, energia e materie prime, misure sanitarie, servizi, diritti di proprietà intellettuale, sviluppo sostenibile, composizione delle controversie, stimolo della concorrenza, facilitazione dell’interscambio e gestione delle imprese di proprietà statale.
Ancor prima dell’inizio delle trattative finalizzate a dar concretezza al progetto di “area di libero scambio transatlantica”, pressoché tutti i governi europei hanno immediatamente enfatizzato le ricadute benefiche che la costituzione di un mercato unico completamente liberalizzato prometterebbe di generare, soprattutto per quanto riguarda presunti incrementi del Prodotto Interno Lordo complessivo, la crescita (altrettanto presunta) del reddito pro capite e la creazione (ancor più presunta) di centinaia di migliaia di nuovi posti di lavoro. Queste conclusioni si basano ovviamente sulle tesi “friedmaniane”, secondo cui lavorando dal lato dell’offerta si alimenterebbe la concorrenza, determinando una corsa al ribasso sui costi che dovrebbe magicamente produrre un incremento del Prodotto Interno Lordo. Nonostante l’assoluta mancanza di prove a supporto di questa tesi che viene ossessivamente ripetuta da decenni, l’aspetto più deteriore della creazione del TTIP sarebbe tuttavia rappresentato dall’uniformazione dei regolamenti, che, visti e considerati i rapporti di forza tra Stati Uniti ed Europa, è possibile immaginare alla tutela di quali interessi andranno a conformarsi.
Prendendo in esame il settore agricolo, va infatti sottolineato che negli Stati Uniti è possibile coltivare e commercializzare Organismi Geneticamente Modificati (OGM), così come utilizzare ormoni per stimolare la produzione di latte bovino e per accelerare la crescita degli animali allevati a scopo alimentare. Il “libero scambio” da un lato determinerebbe l’immediata invasione del mercato europeo di questi prodotti (sulla cui sicurezza aleggiano non pochi dubbi), mentre dall’altro comporterebbe la cancellazione delle denominazioni di origine controllata, non riconosciute negli USA, autorizzando di fatto la commercializzazione di vini, formaggi, oli e di tutte le altre specialità tipiche prodotte in qualsiasi Paese membro del TTIP, infliggendo danni incalcolabili alle piccole e medie aziende locali operanti nel settore. In tal modo, l’area di libero scambio faciliterebbe la penetrazione del mercato europeo da parte dei colossi dell’agri-business, i quali (oltre alle enormi quantità di OGM) immetterebbero cibi trattati con agenti chimici e prodotti agricoli massicciamente sovvenzionati dallo Stato rendendo assai meno competitive le merci locali. Per quanto concerne invece il settore terziario, appare piuttosto significativo il fatto che durante i colloqui preliminari tenutisi nel giugno 2013, Commissione Europea e autorità statunitensi abbiano ventilato l’ipotesi di escludere dalle trattative unicamente i servizi per i quali non esiste offerta privata; acqua, sanità, istruzione e gestione delle strutture carcerarie rischierebbero quindi di subire una vasta, inaudita campagna di privatizzazione che provocherebbe l’eliminazione delle prerogative di cui le strutture statali hanno goduto finora, nonché lo smantellamento definitivo dei sistemi di welfare vigenti in varia forma all’interno di tutti i Paesi europei, da cui trarrebbero enormi guadagni le compagnie statunitensi, abituate ad operare in un sistema quasi completamente privatizzato. Negli Stati Uniti vi sono effettivamente imprese private di dimensioni e forza tali da poter colonizzare il mercato europeo in settori che all’interno del “vecchio continente” sono coperti dall’apparato pubblico, il quale verrebbe immediatamente scardinato dalla corsa al ribasso promossa dal TTIP. Le prospettive divengono invece particolarmente desolanti se si considerano le possibili ripercussioni sull’ambiente, dal momento che le regole in vigore all’interno degli Stati Uniti risultano assai molto meno vincolanti (negli USA non esiste alcuna “carbon tax”) rispetto a quelle europee, per via del primato riconosciuto alle aspettative di guadagno da parte delle aziende sulla difesa della salute pubblica e sulla tutela dell’ecosistema. Non è infatti un caso che diversi colossi petroliferi statunitensi abbiano denunciato presso il tribunale arbitrale del North Atlantic Free Trade Agreement (NAFTA) lo Stato canadese del Quebec, reo di aver votato una moratoria sull’estrazione dello shale gas a difesa della salute dei cittadini, adducendo motivazioni legate alla perdita di guadagno potenziale derivante da tale decisione.
La rimozione delle ultime barriere protettive tra Stati Uniti ed Unione Europea da un lato comporterebbe una consistente perdita economica per i Paesi del “vecchio continente, dal momento che le merci europee subiscono una tassazione media del 3,5%% per entrare negli USA, mentre i dazi medi sulle importazioni di merci prodotte negli Stati Uniti raggiungono il 5,2%. D’altro canto, agevolerebbe l’operato delle multinazionali (anche implementando misure di sicurezza volte a difendere il diritto alla proprietà intellettuale) che, dislocando la produzione nei Paesi del “terzo mondo”, possono permettersi di commercializzare le loro merci a prezzi più bassi rispetto a quelli dei prodotti fabbricati all’interno dei confini europei. La deriva deflazionistica che verrebbe automaticamente innescata dall’istituzione del TTIP costituirebbe una catastrofe in primo luogo per Paesi come l’Italia, in cui le piccole e medie imprese rappresentano la spina dorsale dell’economia nazionale.
Il TTIP presenterebbe quindi svariate analogie con la “area di libero scambio” sognata dai latifondisti cotonieri del sud degli Stati Uniti verso la metà del XIX Secolo. Questi grandi proprietari terrieri – i quali mantenevano un rapporto di stretta interdipendenza con la potenza centrale allora dominante, ovvero la Gran Bretagna, il cui sistema manifatturiero manteneva estremamente elevata la domanda internazionale di cotone – promuovevano linee politiche fondate sui presupposti propri alle teorie liberiste degli “economisti dell’impero” David Ricardo ed Adam Smith; l’area di libero scambio da essi pretesa avrebbe consolidato il rapporto di subalternità geopolitica che intercorreva tra gli Stati Uniti e la Gran Bretagna, relegando i primi al ruolo di fornitori di materie prime per conto dei sistemi industriali dei secondi. Non a caso il TTIP è stato paragonato a una sorta di “NATO economica”, poiché se l’Alleanza Atlantica è chiamata a circoscrivere drasticamente il raggio d’azione delle potenze europee, sottoponendolo alla volontà statunitense, l’area di libero scambio transcontinentale mirerebbe a “disciplinare” i rapporti economici con i Paesi che minacciano di intaccare la supremazia statunitense. Non rappresenterebbe infatti una novità che l’intensificarsi delle relazioni commerciali funga da volano per il consolidamento di strette relazioni politiche, sorrette da particolari intese riguardanti i comparti strategici di maggiore rilievo (come l’alta tecnologia). Il TTIP patrocinato da Washington appare pertanto uno strumento “imperialistico” finalizzato a legare indissolubilmente le due sponde dell’Atlantico in un rapporto geoeconomico ideato su misura delle necessità statunitensi. Rafforzando il potere dei mercati finanziari e delle imprese multinazionali sui poteri politici locali attraverso l’incoraggiamento di una concorrenza tra sistemi legislativi atta ad agevolare la pratica del dumping nettamente sfavorevole alle finanze pubbliche, alla conservazione delle condizioni di lavoro, alla tutela dei salari, della sanità pubblica e del benessere generale delle popolazioni , il mercato transatlantico è il risultato di decisioni politiche dettate dalle pressioni esercitate dalle lobby industriali e, soprattutto, finanziarie. Il TTIP si propone di estendere le logiche del “mercato aperto” a livello planetario, in modo da piegare le resistenze opposte dalle popolazioni autoctone di Paesi come l’Ecuador (in cui la Bechtel ha dettato legge per molti anni) assicurando alle grandi compagnie il diritto di depredare le risorse naturali e stringere ulteriormente le nazioni nella morsa del debito. Imponendo gli interessi delle multinazionali a livello mondiale, «Il mercato transatlantico – osserva l’acuto analista belga Michel Collon – contribuirà ad aggravare la povertà e le disuguaglianze tra Nord e Sud, deteriorando sempre più gli ecosistemi, la biodiversità, il clima. Una volta consolidatosi, esso moltiplicherà i rifugiati climatici, rincarerà il prezzo delle derrate di base e ipotecherà l’avvenire e il benessere delle generazioni future» (1).
Effettivamente, l’applicazione di un sistema simile non potrà che favorire, pur in funzione meramente tattica, i grandi esportatori come la Germania, i quali capitalizzeranno un aumento degli sbocchi di mercato per le loro merci, mentre gli Stati più deboli verranno definitivamente privati del controllo sulle loro funzioni vitali – già massicciamente ridotto dall’ingresso nell’Unione Europea.
Non è certo un segreto che la creazione del TTIP risponda ad un preciso disegno geopolitico, elaborato da Washington allo scopo di frenare il proprio costante arretramento attraverso il modello “trilateralista”, che prevede la riorganizzazione del pianeta in “aree di libero scambio” ruotanti attorno al fulcro statunitense. L’evidente crisi della globalizzazione liberista ha infatti spinto gli USA a cercare di potenziare i propri strumenti di influenza e dominio, rappresentati dalle leve militare ed economica. In conformità a questa strategia, gli Stati Uniti hanno accerchiato la Cina sia dal punto di vista militare dislocando navi che fungono da basi galleggianti per le forze speciali dal Golfo Persico al Mar Cinese Meridionale e impiantando proprie installazioni presso Singapore, Thailandia, Filippine ed Australia, sia sotto l’aspetto economico attraverso la creazione del Trans-Pacific Strategic Economic Partnership Agreement (TPP), una “area di libero scambio” che coinvolge numerosi Paesi indio-latini e asiatici escludendo i BRICS, con particolare attenzione al “Paese di mezzo”, la cui crescita economica e politica costituisce un fattore suscettibile di intaccare la supremazia statunitense.
Il Trans-Pacific Strategic Economic Partnership Agreement (TPP) è effettivamente un accordo di libero scambio che coinvolge numerosissimi Paesi affacciati su entrambe le sponde del Pacifico, tagliando fuori la Cina. Oltre agli Stati Uniti, l’elenco dei Paesi che partecipano alle trattative del TPP include infatti Australia, Brunei, Cile, Canada, Malesia, Messico, Nuova Zelanda, Perù, Singapore e Vietnam.
Il Giappone, dal canto suo, ha espresso l’intenzione di aderire al progetto. Sviluppato mentre il Pentagono si prodiga per insediare la propria forza militare nella la regione Asia-Pacifico al fine di porre sotto il controllo di Washington le vie attraverso cui la Cina si rifornisce di energia, il TPP rappresenta chiaramente il braccio economico della politica del “pivot asiatico” condotta da Washington, mirante a riunire alcuni dei più promettenti nazioni situate nell’area del Pacifico in un regime di corporate-governance giuridicamente vincolante, convincendo i loro governi ad aderire al progetto attraverso garanzie di protezione dall’“espansionismo cinese” e la promessa di libero accesso al mercato degli Stati Uniti. L’amministrazione Obama intende chiaramente inaugurare un accordo volto ad imporre “una misura unica” volta a sostituire tutte le norme internazionali che limitano la volontà statunitense di regolare gli investimenti stranieri e il saccheggio delle risorse naturali da parte delle multinazionali. Le grandi imprese e i colossi di Wall Street stanno esercitando forti pressioni affinché Governo e Congresso ignorino l’incostituzionalità del progetto, inseriscano misure che garantiscano la messa al bando di qualsiasi norma atta a regolare i movimenti di capitale e permettano alle corporation di citare in giudizio i governi nazionali, sottomettendo i Paesi firmatari alla giurisdizione di tribunali arbitrari di investitori. I tribunali internazionali disporrebbero quindi della facoltà di ordinare ai governi di pagare risarcimenti virtualmente illimitati alle grandi aziende, qualora la politica condotta da una qualsiasi delle nazioni membre del TPP andasse a limitare i futuri guadagni degli investitori.
«Recenti statistiche – osserva l’analista politico Nile Bowie – rivelano che la produzione economica combinata di Brasile, Cina e India supererà quella di Canada, Francia, Germania, Italia, Regno Unito e Stati Uniti entro il 2020. Più dell’80% della classe media del mondo vivrà a Sud entro il 2030, in un contesto completamente diverso da quello attuale. Gli Stati Uniti sono economicamente in difficoltà, e il TPP – sogno erotico di Wall Street e la risposta di Washington alla sua diminuzione performance economica – è stato progettato proprio per permettere agli USA di fare grande business con una maggiore partecipazione nella regione emergente del Pacifico attraverso l’imposizione di un modello economico di sfruttamento sui Paesi firmatari che esenti le multinazionali e investitori privati esenti da qualsiasi forma di responsabilità pubblica»(2).
È evidente che la strategia di Washington fondata sulle intimidazioni di natura militare e i tentativi di marginalizzazione economica dei Paesi non allineati attraverso la creazione di “aree di libero scambio” è destinata ad acuire le tensioni internazionali e suscitare nuovi pericoli di guerra. Si tratta di uno scenario che presenta diversi punti di contatto con quello di inizio ‘900, in cui il militarismo di matrice imperialista e l’espansione del liberismo economico che caratterizzò la prima, embrionale tendenza “globalizzante” si combinarono tra loro, innescando una micidiale sinergia negativa che condusse alla Prima Guerra Mondiale.
Articolo di Giacomo Gabellini
NOTE
1. Michel Collon, Ce que l’accord de libre-échange entre l’UE et les USA pourrait changer, http://www.michelcollon.info/Ce-que-l-accord-de-libre-echange.html?lang=fr.
2. Nile Bowie, The Trans-Pacific Partnership (TPP), An Oppressive US-Led Free Trade Agreement, A Corporate Power-Tool of the 1%, http://www.globalresearch.ca/the-trans-pacific-partnership-tpp-an-oppressive-us-led-free-trade-agreement-a-corporate-power-tool-of-the-1/5329497.
*Giacomo Gabellini è cartografo di “Eurasia. Rivista di studi geopolitici” e autore dei libri “La parabola. Geopolitica dell’unipolarismo statunitense” e “Shock. L’evoluzione del capitalismo globalizzato tra crisi, guerre e declino statunitense”, pubblicati da Anteo Edizioni. Ha tenuto lezioni inerenti le cosiddette “primavere arabe” presso l’Università di Teramo.
Fonte: eurasia-rivista.org