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UNA CORSIA DI BUONA VOLONTÀ di Pablo Ayo

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La grande Tartaria

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Questo strano miscuglio di contraddizioni, piccoli egoismi, momenti di straordinaria generosità e la più completa disorganizzazione generale che é la vita nelle città, fa pensare a quanto potrebbe essere grande la nostra civiltà, se ognuno facesse quel poco che deve. Nel lavoro, nella vita politica, negli affetti, nella manutenzione di ciò che ci circonda, nei rapporti con gli altri e nel rispetto dei ruoli e delle istituzioni. E' ovvio che non é facile, in una società improntata all'usa-e-getta anche nel privato, consumistica persino nei sentimenti e nei rapporti umani, trovare il proprio equilibrio. In un mondo sempre più governato a piene mani dall'establishment dell'acquisto a tutti i costi, del "migliore, più nuovo, più veloce", tutto ciò che é vecchio diventa simbolo di obsoleto, inutile, fuori moda, poco cool. Dio, cosa diranno i vicini di casa se ci vedono con la macchina dell'anno scorso? O a una cena quando noteranno che abbiamo lo stesso vestito di ieri? E se il tuo cellulare non ha la videoconferenza o se il tuo Ipod non legge i podcast, se le notizie non le senti dal TGcom e non le commenti sul blog, e se non hai comprato l'ultimo lettore DVD con Blue-Ray e HD interno da 80 Giga, se bastano… Nel frattempo, i nonni d'Italia si fanno compagnia al bocciofilo, parlando tra loro di un paese che non c'é più, di una penisola fatta di Rischiatutto, di Susanna tutta Panna, di Caroselli e Biancosarti vigorosi, di gente onesta che si spaccava la schiena tutto il giorno nei campi o in fabbrica, sereni di sapere che al loro ritorno a casa i figli avrebbero gioito dei loro piccoli regali, come un fumetto di Diabolik o un gelato Algida, mentre la moglie sarebbe stata là, in casa, e non fuggita con qualcuno di Rovigo conosciuto in una Chat. Ovviamente, c'era più tempo per tutto, i nonni erano amati, le scarpe e i maglioni vecchi erano tenuti con affetto, e a volte persino se ormai talmente lisi da essere inutilizzabili, si era restii a gettarli, quasi che a forza di indossarli, avessero finito per assorbire, oltre a tanti ricordi, anche alcune delle nostre qualità.
In un mondo in cui é sempre festa senza motivo apparente, in cui il Martini di George Clooney ha preso il posto del Biancosarti del tenente Sheridan, e in cui non c'é più nessun territorio inesplorato da cercare, perché il mondo é a portata d'orecchio, anzi "Tutto intorno a te", in cui persino parlare l'italiano sembra una vergogna se non ci metti qualche storpiatura anglofona alla Dan Peterson, dove Canzonissima é stata carbonizzata in favore di MTV, viene da chiedersi se alla fine, a forze di dar fuoco alle cose vecchie, non sia stato dato alle fiamme, assieme ai motorini di Tor bella Monaca, anche il caro e vecchio buon senso. Parlare con i cellulari va bene, ma perché il 35% degli italiani lo fa in macchina, senza cavetto? Gli incidenti così aumentano del 45%, secondo un recente sondaggio. Perché ostinarsi – unico paese civilizzato al mondo – a non voler mettere le cinture, cos'è ci fa orrore vivere di più o più sicuri? E perché poi ostruire le corsie d'emergenza, o rallentare morbosamente davanti a un incidente per il gusto di poter dire, una volta giunti a casa, che abbiamo visto morti e feriti gravi? Perché nessuno si fa più il segno della croce davanti alle Chiese, mentre il 90% dei ragazzi d'oggi bestemmia in modo spontaneo e gratuito? Erano così brutte le cose di una volta, ed é così meglio il mondo in cui viviamo adesso?
Il mio non vuole essere un nostalgico amarcord, ma uno sprone, singolare, forse microscopico, a fare di più, a dare un buon esempio in un'oceano di cattiva volontà. Fosse non altro per distinguerci, iniziamo a far girare la ruota anche dall'altra parte: diamo la precedenza quando non andiamo di corsa, fermiamoci a far passare le persone sulle strisce, rivolgiamo un saluto ai vicini di casa e, se ci capita, aiutiamo chi ha bisogno di una mano. Non c'é niente di più triste di vedere una persona piangere per strada e sapere che, in una città di sei milioni di abitanti, é completamente sola. Come é possibile questo?
Se siamo soli, se la difficoltà di ognuno appartiene a lui soltanto, non esiste più fiducia, non c'è tessuto sociale, e chi ha le leve di potere può fare quel che vuole. Divide et impera. Ma se iniziamo a creare una catena di buona volontà, a guardarci negli occhi tra di noi, a riconoscerci e a capire che chi ci sta di fronte non é un nemico, non é quello che ci sta per soffiare il parcheggio o che forse ci ha rigato la macchina, ma é una persona che oggi ha bisogno di aiuto, e che domani potrebbe darne a noi.
Quello che rende una società migliore, non é la tecnologia, la medicina, gli ipermercati aperti 24 su 24 o la Tv satellitare. Siamo noi, é il volersi bene, lo starsi vicino, lo stimarsi, l'aiutarsi e, generalmente, passare la giornata a pensare cose positive di noi stessi e delle persone che ci circondano. La caccia alle streghe maccartista, che vede in chiunque non é uguale a noi (ma chi lo é?) un nemico, ci allontana da noi stessi, e ci rende diffidenti persino dei nostri familiari, o da ci vuole bene. Quello che rende una società perfetta é la fiducia, e la fiducia é un gettone che dobbiamo mettere noi per prima. Saremo delusi una volta, due, tre, ma alla fine verremo ripagati, perché questa é la natura dell'Universo. E se dobbiamo credere ai cinici e ai malfidati, allora la vita non sarebbe così bella come invece sappiamo che può essere. Dio, sosteneva Einstein, non gioca a dadi.
"Come arrivano lontano i raggi di quella piccola candela:
così splende una buona azione in un mondo malvagio".
– William Shakespeare

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