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UN’ALTRA OCCASIONE DI MORTE di Paolo Cortesi

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Ciò che accade può essere raccontato, perché le azioni hanno una loro svolgimento, e possono trasformarsi in parole: una partita di calcio è stata il pretesto per una notte di guerriglia urbana che ha portato alla morte di un ispettore di polizia. Pare che l’assassino sia un minorenne.
Ciò che è molto più difficile comporre in parole è il senso di tutto questo.
“Il calcio è morto”, è stato il commento più frequente. C’è chi ha sostenuto che la morte sia diventata una componente inevitabile del mondo del calcio, anzi dell’industria del calcio che, come ogni attività imprenditoriale capitalistica, reclama un prezzo da pagare in morti e disgrazie.
E non dimentichiamo l’intreccio che si è creato fra il mondo della tifoseria estrema ed un concetto deviato di (pseudo)politica. E non dimentichiamo striscioni di chiara ispirazione mafiosa che vennero esposti (immagino su richiesta di chi) in occasioni di partite di calcio.
E non dimentichiamo le gigantesche quantità di denaro che vorticano attorno ai calciatori.
Come potremmo spiegare ai nostri futuri discendenti che il gioco del pallone è diventato tutto questo? Come potremmo far loro comprendere che una attività ginnico ludica si è trasformata, nell’arco di quaranta anni, nel pilastro portante della società italiana?
Immaginate un visitatore temporale che, dal passato o dal remoto futuro, ci chieda: “perché ventidue persone che giocano a scagliare una palla nella rete dell’altra squadra sono diventate di vitale importanza per una nazione?”
Non è una domanda ingenua, non è una facile provocazione. È una autentica domanda, la richiesta di chiarezza e informazione. E noi potremmo cercare di esporre argomenti validi e documentati, potremmo magari tracciare la storia economica delle società calcistiche professionali, potremmo mostrare grafici che indicano l’evoluzione degli interessi economici che ruotano attorno al cosiddetto mondo del calcio. Certo, faremmo tutto questo ma non troveremmo comunque la risposta. Potremmo esporre al nostro sbalordito interlocutore la storia dei fatti, ma non potremmo comunque offrirgli una spiegazione, cioè un senso razionale a quanto è accaduto.
Come si può trovare un senso a ciò che ne è la negazione?
Fermiamoci allora alla ricerca di una fenomenologia di questo non-senso; e il parolone non intimorisca nessuno: fenomenologia, qui, vuol dire solo “cosa si vede”.
Dobbiamo riconoscere che da almeno sessant’anni la società occidentale (e quella italiana, essendo tra le più fragili e arretrate d’Europa, più di altre) ha imboccato la strada della “negazione dei codici condivisi”. Sembra cioè che una frenesia di rabbioso rifiuto fine a sé stesso abbia contaminato tutti gli aspetti della vita collettiva: dall’arte all’economia, dalla politica al privato. Nessun codice è buono di per sé: anzi, per secoli sono esistiti codici mostruosi; basti pensare allo schiavismo, al feudalesimo, alla teocrazia. Ma il codice – cioè un insieme di valori, regole e leggi chiaro, strutturato e comune – funziona, dà punti di riferimento sia a chi li vuole mantenere che a colui il quale vuole abbatterli. L’uomo è animale codificante; riesce a collocarsi nel tempo e nello spazio sociale solo tramite codici, sia che questi rappresentino per lui una tutela o un ostacolo. Pensate a tutta la filosofia romantica della prima metà dell’Ottocento, che riconosceva valore metafisico all’uomo solo in opposizione dialettica ai limiti imposti dalla natura o dai suoi simili.
L’uomo, per millenni, ha costruito il senso del suo vivere. Oggi l’uomo non sa, non vuole più farlo. La distruzione è la sola espressione della sua presenza terrena, una distruzione che riesce a intaccare il pianeta stesso, minacciato dall’attività predatoria e inquinante.
La distruzione riguarda anche la sfera personale, minima. Si distrugge e ci si lascia distruggere. Ci si lascia distruggere quotidianamente da una politica che è la degenerazione del più basso servilismo; ci si lascia distruggere da una classe politica che darebbe la nausea anche ai più turpi figuri del basso impero. Ci si lascia distruggere da una sottocultura dell’imbecillità, in cui l’ignoranza è una simpatica caratteristica e viene esibita senza vergogna, ma quasi con un pizzico di civetteria compiaciuta. Ci si lascia distruggere dalle menzogne, dai luoghi comuni, dalle banalità consacrate a rivelazioni somme; ci si lascia distruggere dalla miseria morale e dalla desolazione culturale.
Ma quest’orrore che ci viene iniettato sotto ogni forma, prima o poi, nelle persone più deboli, più malvagie, più corrotte esplode: il vandalismo, la furia cieca, la voglia bestiale di fare male, di spaccare tutto, cose e facce, auto e teste, vetrine e futuro… tutto.
Se l’unico codice oggi riconosciuto è la distruzione, è con questa che oggi parlano le persone. È spaccando tutto che questi morti viventi si sentono forti. Nessuno di loro, presi ad uno ad uno, saprebbe spiegare uno solo dei suoi gesti; eppure state certi che, quasi tutti, li rifarebbero, li rifaranno alla prima occasione.
Esiste una soluzione? Leggi e decreti potranno risolvere il male? Esiste una formula che possa far ritornare il calcio quello che era e che avrebbe dovuto continuare ad essere?
I provvedimenti d’urgenza possono solo arginare la tragedia e tentare che non ci sia un’altra vittima, una in più di quella cinquantina di morti che è costato, dal 1963, il calcio in Italia.
Ma questi provvedimenti sono solo palliativi. Il male è molto più profondo ed esteso e non saranno le leggi (imposte da una oligarchia che è l’ultima a tenerne conto) a dare un senso al nostro presente.
La nostra sola speranza non può trovarsi nel testo d’un decreto o d’un regolamento, quando una gran parte delle persone fatica a comprendere cosa c’è scritto e stenta a leggere correttamente due righe d’italiano. La nostra sola vera speranza è nell’unica forza evolutiva e redentrice che ha salvato l’uomo in simili periodi di crisi gravissima. Si chiama cultura.

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