Era da almeno quattro o cinque anni che avevo in animo di scrivere questo articolo e finalmente, complice una notte insonne infarcita da strane visioni tinte di giallo, mi sono infine deciso.
Chi mi conosce sa che la mia più grande passione è il volo, ma la seconda in ordine di importanza è senz’altro la moto. Sin da adolescente ho maniacalmente seguito sia i campionati mondiali di Formula 1 (inizialmente affetto sino allo stadio terminale dalla “Febbre Villeneuve”) quanto le tre classi di quelli di motociclismo (125, 250 e 500), con una particolare predilezione per il funambolico Kevin Schwantz. Per intenderci, ero uno di quelli che si alzavano nel cuore della notte per assistere in diretta ai Gran Premi trasmessi in televisione dall’altro capo del mondo. Da qualche anno, complice la dittatura delle “televisioni a pagamento” e un generale appiattimento dei regolamenti tecnici e sportivi nonché dello spirito con cui vengono gestiti questi sport, ho smesso di seguirli con la stessa eccitazione di allora, tuttavia la passione che mi lega a Valentino Rossi è rimasta inalterata, anzi, è cresciuta sempre di più.
Ci tengo a precisare che non sono semplicemente uno fra la moltitudine dei tifosi che lo idolatrano da ormai parecchi anni: ricordo perfettamente il mio entusiasmo quando lo vidi conquistare il suo primo titolo (classe 125, nell’ormai lontano 1997) e di come anticipai a tutti i miei amici che Valentino era un autentico fenomeno che sarebbe diventato uno dei più grandi campioni di questo sport. Ne ero assolutamente certo, perché dominare con ben undici vittorie su quindici gare un campionato come quello, dove la differenza tra una vittoria e un semplice piazzamento molto spesso si misurava nell’ordine dei decimi di secondo, stava a indicare una classe e un talento assolutamente fuori dal comune. Se a questo aggiungiamo la sua leggerezza e la sua capacità di non prendersi mai troppo sul serio, caratteristiche nelle quali mi rispecchio totalmente, capite da soli la grande ammirazione e l’affetto che provo nei suoi confronti.
Al di là delle sue eccezionali imprese sportive, è il carattere che ha dimostrato in numerose vicende, spesso drammatiche, a sottolineare il grande spessore umano del personaggio. Ad esempio, la determinazione nel risollevarsi e tornare in sella dopo il grave incidente in prova del 2010 al Mugello (frattura scomposta ed esposta di tibia e perone della gamba destra), saltando appena quattro GP; ma soprattutto, la capacità di superare un trauma come quello del suo coinvolgimento nell’incidente che ci ha portato via Marco Simoncelli l’anno successivo, nel 2011.
Sopra ogni altra cosa, però, l’aspetto nel quale mi rispecchio totalmente è la sua grande fiducia in sé stesso, l’essere l’unico vero artefice e responsabile del proprio destino, il creatore della propria realtà, che non accetta di subire quella che altri vorrebbero imporgli e fargli accettare. Ricordo perfettamente il mio disgusto nel leggere alcuni articoli che già nel 2006 lo davano per “bollito” (era l’anno in cui convinsero Michael Schumacher a ritirarsi dalle competizioni di Formula 1 con la Ferrari, a proposito del quale scrissi questo articolo in cui in qualche misura avevo visto giusto, visto che qualche anno dopo egli rientrò nel Mondiale con la Mercedes, purtroppo senza molta fortuna: gli anni di lontananza e di inattività, a mio avviso, furono determinanti…) e la mia gioia per i suoi due titoli nel 2008 e 2009, la miglior risposta ai soliti pennivéndoli che da allora hanno continuato a darlo per finito in numerose altre occasioni, salvo essere regolarmente smentiti dai fatti. Ho rosicato amaro per le vicende che gli hanno letteralmente “rubato” un decimo titolo ampiamente alla sua portata nel 2015 (il famoso “biscotto” Marquez-Lorenzo) ma sono convinto che possa ancora arrivare, magari già quest’anno che, alla faccia dei soliti benpensanti e dei quarant’anni appena compiuti, si accinge a disputare il ventiquattresimo campionato mondiale della sua straordinaria carriera (ottimo il suggerimento di suo fratello Luca Marini, per il quale dovrebbe correre almeno fino a 46… come il suo storico numero di gara!).
A rischio di apparire esagerato se non addirittura irriverente, quando penso a Valentino Rossi mi sovviene “If” (“Se”), la bellissima poesia che Rudyard Kipling volle dedicare a suo figlio:
Se saprai mantenere la testa quando tutti intorno a te
la perdono, e te ne fanno colpa.
Se saprai avere fiducia in te stesso quando tutti ne dubitano,
tenendo però considerazione anche del loro dubbio.
Se saprai aspettare senza stancarti di aspettare,
O essendo calunniato, non rispondere con calunnia,
O essendo odiato, non dare spazio all'odio,
Senza tuttavia sembrare troppo buono, né parlare troppo saggio;
Se saprai sognare, senza fare del sogno il tuo padrone;
Se saprai pensare, senza fare del pensiero il tuo scopo,
Se saprai confrontarti con Trionfo e Rovina
E trattare allo stesso modo questi due impostori.
Se riuscirai a sopportare di sentire le verità che hai detto
Distorte dai furfanti per abbindolare gli sciocchi,
O a guardare le cose per le quali hai dato la vita, distrutte,
E piegarti a ricostruirle con i tuoi logori arnesi.
Se saprai fare un solo mucchio di tutte le tue fortune
E rischiarlo in un unico lancio a testa e croce,
E perdere, e ricominciare di nuovo dal principio
senza mai far parola della tua perdita.
Se saprai serrare il tuo cuore, tendini e nervi
nel servire il tuo scopo quando sono da tempo sfiniti,
E a tenere duro quando in te non c'è più nulla
Se non la Volontà che dice loro: "Tenete duro!"
Se saprai parlare alle folle senza perdere la tua virtù,
O passeggiare con i Re, rimanendo te stesso,
Se né i nemici né gli amici più cari potranno ferirti,
Se per te ogni persona conterà, ma nessuno troppo.
Se saprai riempire ogni inesorabile minuto
Dando valore ad ognuno dei sessanta secondi,
Tua sarà la Terra e tutto ciò che è in essa,
E — quel che più conta — sarai un Uomo, figlio mio!
In conclusione, dato che l’ho citato nel titolo e nell’articolo precedente cui facevo riferimento, spero che Valentino, da buon appassionato di cinema quale si dice che sia, abbia avuto modo di vedere Rollerball (quello originale, uscito nel lontano 1975), un film che ho molto amato ai tempi della sua uscita nelle sale cinematografiche, e che trovo quanto mai attuale: è ambientato nel 2018, in un mondo governato dalle corporazioni in cui le guerre non esistono più, l’informazione è accuratamente censurata e le tensioni sociali vengono incanalate e controllate tramite farmaci psicotropi, mezzi di comunicazione di massa e in particolare uno sport assai violento, il Rollerball.
Il protagonista della storia si chiama Jonathan E., è da anni ai vertici di questo sport e ne sta diventando il simbolo. Il sistema corporativo comincia ad innervosirsi per la sua crescente popolarità, e decide che lui debba ritirarsi. Jonathan rifiuta ogni proposta e sfiderà il potere costituito sino alle estreme conseguenze, in un’epica partita finale dalla quale emergerà vincitore. Proprio come Valentino… che, detto tra noi, un giorno mi piacerebbe poter incontrare per realizzare un’intervista tutt’altro che banale. Intanto però, gli faccio i miei più sentiti e sinceri auguri per una stagione densa delle soddisfazioni e dei grandi risultati che merita. Forza Vale!