Che dice «là ci sono quattro sacchi di soldi» (al casinò di Campione).
Che sollecita una tangente per certe macchine da gioco, «ho bisogno di riparare l’aereo» che parla di «sventagliate di mitra», che si fa arrivare in camera «un pacco» cioè una ragazza, linguaggio da gangster, ridicola imitazione di Al Capone, ma senza mezzi (intellettuali) per quella vita.
Ma c’è anche quel Salmoiraghi da sempre padrone di Campione e del suo casinò extraterritoriale nonché medico condotto del paesotto più ricco d’Italia, che nessuno riesce a schiodare da quella greppia di miliardi anche sporchi; c’è la popolazione di Campione interamente omertosa, coperta d’oro immeritato.
E c’è Salvo Sottile, il portavoce di Fini, il «concussore sessuale sistematico», che raccomanda starlettes e future veline.
C’è il vicedirettore della RAI, Giuseppe Sangiovanni, che gli tiene bordone: «Una grande gnocca, per il tipo di trasmissione fa anche comodo».
Parlano anche loro da gangster: «Un bel tipo di porcella. Porcella doc», dice Sottile.
Alla Farnesina, gli mandano una ragazza, una certa Stella: «Ci facciamo fare un bel pompino, va».
In attesa della prestazione (che avverrà, pare, alla Farnesina) il portavoce promette: «Ho parlato con il mio omologo di Buttiglione. Dopodomani al consiglio dei ministri gli do il nome della ragazzina».
A questo serve il consiglio dei ministri.
Il macrò, tale Lorenzo, assicura: «sarà riconoscente, gliel’ho spiegato».
E Sottile: «Sarà meglio per lei. Sennò l’ammazzo di botte».
E c’è Bruno Vespa, lo strapagato giornalista-principe di questa certa Italia.
Con Sottile, parla di una trasmissione con Fini ospite.
«Com’è strutturata la trasmissione?», chiede il portavoce.
E Vespa: «Dipende da voi. Gliela confezioniamo addosso».
E’ così che i giornalisti diventano grandi, famosi, miliardari.
Sottile rifiuta la proposta di mettere accanto a Fini, a Porta a Porta, Rulea Jebreal, la bella giornalista di La 7.
«Non capisco perché, quella è una scassacazzi».
E c’è, come tralasciarla?, anche la moglie di Gianfranco Fini, Daniela Di Sotto.
Che ha una società con il senatore Francesco Proietti Cosimi, già segretario di Fini, nel settore sanitario.
Alla greppia della Regione, dove c’era Francesco Storace.
Un brano del colloquio fra i due.
Di Sotto: «No, l’errore è stato fatto all’inizio, Checchì… lo vuoi sapere quale errore abbiamo fatto io e te? Eh?… quando io sono andata a (omissis: che verbo nasconderà questo ‘omissis?) con Storace».
Proietti: «Eh».
Di Sotto: «Bisognava fare un’altra società a cui intestare le convenzioni della risonanza e della Tac».
Proietti: «Non lo potevi fare, purtroppo».
Di Sotto: «Perché?».
Proietti: «E perché non c’hai una… lo dovevi intestare per forza ad una società che già esisteva. Questo è tutto…».
Di Sotto: «Eh, lo so, lo so, non è quello… mica sto dicendo questo. Io sto dicendo un’altra cosa: che mi rode il culo che la gente, praticamente, si trova che si chiama Fini o si chiami Di Sotto, è uguale, si trova tutto quello che vuole… senza muovere il culo. Capito?».
Altro excerptum dell’eloquio della signora Fini: «E’questo che io non voglio più permettere… ed è per questo che l’ho detto a Gianfranco… ho fatto vedere il foglio a Gianfranco, che ha fatto, dico: ‘io ho tirato fuori ‘sti soldi, gli ho tir… e a te non t’ho chiesto ‘a’ perché tu mi hai detto: ‘non mi mettete più in mezzo’, ok. Però tu sappi che se tiri fuori mille lire per tuo fratello, andiamo a litigare io e te, primo. Secondo, mi sono rotta il c… che la gente c’ha le cose quando pagano gli altri…».
E non ci sono solo loro.
Ci sono giudici che aggiustano sentenze.
C’è Fabio Sabbatani Schiuma, vicepresidente del consiglio comunale per AN poi finito sotto inchiesta proprio per quella storia.
Che chiama Salvatore Sottile e confessa.
E’ il 12 marzo 2005.
«Ho fatto un buon lavoro… Sono stato io Salvatore. Non si dice in giro perché mi stanno a cercare per ammazzarmi… sono io che ho prodotto tutta la documentazione alla Corte d’Appello. Non ho utilizzato la procedura esatta nella richiesta di queste schede anagrafiche… col computer, con un pirata. Ci siamo inseriti dentro e abbiamo preso tutto quanto. So’ tre giorni che sto a buttato qua alla Corte d’Appello… Solo che mo’ mi possono rompere il cazzo per violazione dei dati della privacy perché io non li ho comunicati a nessuno… ».
Insomma, fosse solo Vittorio Emanuele, il lombrosiano delinquenziale.
Si potrebbe invocare una degenerazione piemontese, come parerebbe suggerire il caso Lapo Elkann.
Ma qui sono tutti così.
Gangster di mezza tacca.
Feccia in erezione perpetua.
Politicanti eternamente alluzzati perchè ubriachi di potere, di soldi non guadagnati, di arroganze ed impunità.
Ignoranti.
Di una volgarità e bassezza totale, continuata e compiaciuta.
Un linguaggio e uno stile che credevamo di Vanna Marchi, della figlia con la faccia malvagia e del mago Do Nascimiento, è invece l’eloquio comune tra parlamentari, mogli di onorevoli e ministri, portaborse e loro macrò, funzionari dei monopoli che si fanno corrompere, giudici che aggiustano, giornalisti che prendono due o tre miliardi l’anno perché «confezionano su misura» le trasmissioni, e nani, e ballerine.
E' l’Italia che deruba noi contribuenti, che sgavazza e gode su un Paese che retrocede in economia e in civiltà.
Questi, bisogna buttarli giù.
Bisogna sbatterli fuori, sloggiarli dalle loro greppie.
Questa è la repubblica di Vanna Marchi, e il ritorno alla monarchia non sarebbe meglio.
Questi bisogna distruggerli politicamente, per non perdere il rispetto di noi stessi.
O forse siamo così anche noi?
Tutti noi?
(Tratto da www.effedieffe.com)
ANCORA SULLA REPUBBLICA DI VANNA MARCHI
di Maurizio Blondet
E’ il caso, anzi è necessario tornare sull’orrido caso che ha Vittorio Emanuele per fulcro e la repubblica di Vanna Marchi per contorno.
Anzitutto, per dare (parzialmente) ragione a un lettore che così mi scrive:
«Caro Blondet,
capisco la sua reazione a caldo.
Ma con un po’ più di tranquillità, saprebbe spiegare a noi (e anche a se stesso) come mai questi nani e queste ballerine si scoprono solo a destra?
Forse perché a sinistra sono tutti integerrimi?
E perché le intercettazioni si fanno solo negli ambienti non progressisti?
Non ha l’impressione che se intercettato senza discriminazioni, tutto il mondo politico
mostrerebbe questo miserabile spettacolo?
E non è anche più immorale utilizzare uno strumento ‘moralistico’ e teoricamente super partes
come la Giustizia, solo a metà?
Mani pulite è un sistema di potere ben più efficace dei soliti papponi, e direi anche molto più immorale.
Non s’accorge che dopo aver inghiottito tutti i suoi avversari si prepara a erigersi come dogma morale eterno per le masse (calciopoli è stato un salto di qualità in questo senso)?
Chi ha sbagliato paghi.
Ma paghino tutti quelli che hanno sbagliato».
Sì, ha qualche ragione, caro lettore.
Di questa orrenda Italia rivelata dalle intercettazioni del giudice di Potenza, la magistratura non è l’opposto; ne è parte integrante.
E’ la magistratura che intercetta sempre e solo per motivazioni politiche, nel preminente interesse della propria casta intoccabile, insindacabile e irresponsabile, e dei suoi alleati che le assicurano il mantenimento dei suoi privilegi.
Anche loro sono membri a pieno titolo della disonorata «repubblica Vanna Marchi».
Solo ieri la Cassazione – la Cassazione! – ha assolto quel tizio che diede del buffone a Berlusconi, con la motivazione che non si trattava di un’ingiuria ma di una critica legittima, anzi di alto valore civile.
La Cassazione ha voluto insultare anch’essa Berlusconi, è evidente: ha voluto abusare del suo potere, esprimere un odio viscerale, e c’è perfettamente riuscita.
Con ciò, ha dato un contributo decisivo alla comune inciviltà, alla corruzione collettiva.
Dopo una simile «sentenza», chi può più credere alle sentenze di Cassazione, anzi alla giustizia in genere?
I cittadini, del resto, lo sanno: finire nelle grinfie di un giudice da noi è una roulette russa, torti e ragioni non contano nulla, le vite umane diventano «pratiche» e «faldoni», e possono essere tritate da carcerazioni preventive e pene del tutto arbitrarie, o assoluzioni, libertà provvisorie e «premiali» ugualmente arbitrarie.
Non c’è esercizio di logica, né di buona fede, né si rispetta il significato delle parole; c’è solo l’esercizio di un potere illimitato, di cui i potenti magistrati non si fanno scrupolo di abusare.
Eh sì.
Nelle poche intercettazioni colte a sinistra (come nel caso Consorte e furbetti comunisti del quartierino, COOP rosse e Unipol) s’è visto che anche loro, i moralisti di sinistra, al telefonino fanno i loro affari e tramano i loro interessi dietro le quinte.
E sì, non si tratta di «casi»: è un sistema, dove l’uno corrisponde all’altro, e tutti insieme sono coalizzati per fare arretrare il costume e la vita comune nell’indecenza.
Perché questo è il punto.
I magistrati intercettano arbitrariamente, spendono centinaia di miliardi in intercettazioni e le diramano ai giornali (illegalmente e impunemente), rivelando particolari vergognosi della vita privata di gente che magari non è penalmente responsabile di nulla ed ha diritto alla sua sfera privata.
Ma quando si vorrebbe protestare per queste esagerate, diffamatorie, illegittime intercettazioni, le parole e lo «stile» degli intercettati fanno cascare le braccia.
Sono gangster.
E dei gangster, è inevitabile che siano intercettati.
Le due caste si corrispondono, sono l’una l’altro lato dell’altra.
La protesta di Mastella (l’incredibile ministro della «giustizia») contro le intercettazioni eccessive, dopo il caso Vittorio Emanuele e Sottile, è troppo chiaramente sospetta: proprio Mastella vorrei sentire intercettato, di cosa parla, quali affari trama al telefonino.
Per una volta sono d’accordo con Pannella: nello stato di degrado in cui i gangster hanno portato la cosiddetta «politica», le intercettazioni sono un servizio perfino utile.
Consentono al cittadino di uscire dal generico delle critiche al sistema, tipo «sono tutti ladri», consentono di vedere e ascoltare cosa fanno lorsignori, i gestori del nostro denaro e dei nostri destini comuni.
E a che punto ci siamo collettivamente ridotti.
Tutti noi, dico.
Perché noi tutti siamo così, o almeno una gran parte dell’Italia.
I furbetti ci piacciono, salvo fare dei moralismi quando vengono scoperti e svergognati.
Ai tifosi della Juventus piaceva che Moggi la facesse vincere comprando gli arbitri a suon di Maserati biposto fornite da Elkann.
Mastella piace a una fetta ogni giorno maggiore di elettorato, perché è furbetto e si vede, e distribuisce posti.
Andreotti, il furbettone secolare, è quasi un idolo per metà degli italiani; l’altra metà, che ha applaudito al suo processo, ne ha rabbia perché gli invidia la furbizia.
E’ esattamente la stessa cosa del caso Vanna Marchi.
Perché una truffatrice così volgare e bassa, diciamolo, in nessun altro Paese avrebbe potuto avere successo ed estorcere miliardi.
Mica era sofisticata Vanna Marchi, mica fingeva chissà quali poteri occulti, mica usava concetti tratti dalla gnosi o dal Tantra – anzi, se li avesse usati sarebbe stata meno efficace.
No, lei andava a colpo sicuro fidando sull’ignoranza estrema, vergognosa, indegna dell’Europa, dei suoi «clienti».
Le bastava dire: «vedo una negatività», e quelli giù spaventati a firmarle assegni da milioni.
E mica diceva, Vanna Marchi, che Do Nascimiento era un mago.
No, lo chiamava «il maestro di vita», e la figlia ammiccava: lo so io che ci vado a letto, di quale «vita» è maestro.
Del resto, Do Nascimiento aveva il fisique du role non di un Merlino o di un Gandalf, ma di un ballerino di salsa.
Eppure bastava che la Vanna alludesse minacciosa a quel che «il maestro di vita» poteva fare alle clienti renitenti, e queste pagavano.
A volte centinaia di milioni.
In quale altro Paese una truffa così rozza, elementare, poteva avere successo?
Forse nell’Africa equatoriale, fra i negri del Congo; ma quelli almeno non hanno i milioni.
Perché questo è un altro punto.
Troppi soldi, in Italia.
Troppi soldi in mano a gente di ignoranza estrema, primitiva, indegna del mondo moderno.
Troppi soldi non guadagnati.
I Salvo Sottile, i Mastella, i Vespa, sono solo il risultato, il rigurgito di questa ignoranza indecente, immotivata, eccessiva.
E anche i giudici ingiusti e ripugnanti alla logica e alla giustizia sono il prodotto dell’ignoranza collettiva, della collettiva mancanza di rigore intellettuale, prima ancora che morale.
Abbiamo un presidente della repubblica che si è fatto riprendere dagli organismi europei perché da eurodeputato, per i viaggi a Bruxelles, presentava biglietti sottocosto ma si faceva rimborsare il prezzo intero.
Quale altro Paese tollererebbe un simile furbetto ultra-ottantenne?
Noi sì.
Anzi la legge ci vieta di criticarlo, e i magistrati sono fin troppo pronti a difendere il caro padre della repubblica.
Mica è Berlusconi, a cui è legittimo e civile dare del buffone.
Facciamo uno sforzo per reprimere il vomito, per uscire dal moralismo.
Proviamo a chiederci come si è arrivati al punto che la politica è in mano a gangster e concussori sessuali.
Provo a dirlo: io, che AN sarebbe finita in una Mani Pulite, lo prevedevo.
E precisamente dal giorno del convegno di Fiuggi, del ripudio del fascismo.
Il perché è facile da dire: i partiti non hanno un’etica, avevano solo un’ideologia.
La rinuncia all’ideologia dovrebbe segnarne la fine, la chiusura per cessata funzione sociale.
Invece, essendo composti da mestieranti, essi sopravvivono – per pagare quei mestieranti, per dare loro un’occupazione che, nella vita privata, sono incapaci di trovare, almeno a quei livelli di stipendi cui sono abituati.
Ma così, i partiti senza più ideologia, senza più scopo e progetto, sopravvivono come comitati d’affari, accaparratori, malversatori.
Lo sapevo che AN sarebbe finita così, perché l’avevo già visto nel PSI di Craxi.
Il merito di Craxi fu storico: staccò il partito socialista dalla sua subalternità ai comunisti, dal marxismo d’accatto e di risulta coltivato da Nenni e dai suoi ascendenti.
Ma così facendo, de-ideologizzò il partito: che da quel momento non ebbe altro scopo che l’accaparramento, l’arricchimento e la corruzione.
E' così anche per il partito comunista, oggi DS.
Anche lui ha rinunciato all’ideologia, e tutti i suoi leader, mai una volta che gli capiti di citare Marx, o pronunciare il nome di Lenin.
Sappiamo meno delle loro malversazioni, solo perché sono meno intercettati.
Ovviamente, questi partiti senza ideologia hanno occupato lo Stato, e lo degradano, e fanno colare la loro corruzione – corruzione di morti viventi – nella cittadinanza.
Ci rendono peggiori, come noi li rendiamo ogni giorno peggiori votandoli.
Perché comanda chi «non deve» comandare, e il risultato è la demoralizzazione generale, nel senso etimologico, la cessazione di ogni sforzo morale, di miglioramento individuale e collettivo.
I partiti post-ideologici sono «illegittimi» nel modo più radicale.
Sotto i loro artigli, lo Stato è diventato uno spazio vuoto, pieno solo del denaro dei contribuenti; una res nullius esposta al saccheggio.
Per pensare a un rimedio, bisognerebbe essere capaci di ripensare radicalmente la democrazia.
E avere il coraggio di pensare a una democrazia senza partiti.
Naturalmente, sento già tutto un insorgere di obiezioni.
Democrazia senza partiti!
E’ una contraddizione in termini.
Oppure una surrettizia proposta totalitaria?
Invece no.
A proporre una democrazia libera dai partiti fu non già un dittatore, ma Simone Weil. Incaricata dal governo di De Gaulle in esilio, durante la guerra, di elaborare una forma di costituzione per la Francia futura, essa pensò in modo radicalmente nuovo.
A come garantire la libertà da ogni limite: e l’esistenza di partiti era, per lei, il limite più insidioso.
Il risultato del suoi pensieri è scritto nel suo libro migliore, «L’enracinement» (nell’edizione italiana, «La prima radice»).
Vi si legge: «Dovunque ci sono partiti politici, la democrazia è morta. Non resta altra soluzione pratica che la vita pubblica senza partiti».
Bisogna creare un'atmosfera culturale tale, dice Simone, che «un rappresentante del popolo non concepisca di abdicare alla propria dignità al punto da diventare membro disciplinato di un partito».
Simone Weil respinge l’obiezione che l’abolizione dei partiti avrebbe colpito la libertà d’associazione e d’opinione.
«La libertà d’associazione è, in genere, la libertà delle associazioni», contro quella degli esseri umani.
Infatti, «la libertà d’espressione è un bisogno dell’intelligenza, e l’intelligenza risiede solo nell’essere umano individualmente considerato. L’intelligenza non può essere esercitata collettivamente, quindi nessun gruppo può legittimamente aspirare alla libertà d’espressione».
Allo stesso modo, in nome della libertà di pensiero, Simone Weil si augurava il controllo della libertà d’opinione.
E la repressione, in casi determinati, della stessa libertà di stampa.
«Le pubblicazioni intese a influire sull’opinione, ossia sulla condotta di vita, sono azioni vere e proprie, e debbono essere sottoposte alle medesime restrizioni a cui sono sottoposte le azioni» illegali e immorali.
«La pubblicità dev’essere rigorosamente limitata per legge; le deve essere rigorosamente vietato di occuparsi di quanto concerne l’attività intellettuale».
«Allo stesso modo, può esistere una repressione contro la stampa e le trasmissioni radio, non solo se violino i principii della morale pubblicamente riconosciuta, ma per la bassezza del tono e del pensiero, per il cattivo gusto, per la volgarità, per l’atmosfera morale sornionamente corruttrice».
Certo, Simone Weil era ingenua.
Voleva una repubblica fondata non sui «diritti», ma sull’«obbligo».
«L’adempimento effettivo di un diritto non viene da chi lo possiede, bensì dagli altri uomini che si riconoscono, nei suoi confronti, obbligati a qualcosa».
«Obbligo» è non negare agli altri uomini quelli che Simone chiama «i bisogni dell'anima».
Bisogni che si devono distinguere dai «capricci, i desideri, le fantasie, i vizi».
Tra i bisogni dell’anima che ciascuno è obbligato a riconoscere agli altri (e incondizionatamente: «Chi, per semplificare i problemi, nega certi obblighi ha concluso nel suo intimo un patto col male») per Simone Weil non ci sono dunque i PACS, le nozze gay e la clonazione.
Quelli sono «capricci e fantasie».
Dei bisogni veri, indispensabili, Simone ha stilato una lista inaudita: che va dalla «proprietà privata» alla «gerarchia», dall’«onore» alla «punizione».
Sì, l’uomo ha bisogno di punizione.
«Il solo modo di testimoniare rispetto a chi si è posto fuori della legge», scrive Simone, «è reintegrarlo nella legge sottoponendolo alla punizione che essa prescrive. Il sistema penale deve destare nel delinquente il sentimento della giustizia mediante il dolore o, se occorre, persino la morte».
Come si vede, siamo agli antipodi della giustizia di manica elastica nostrana, della repubblica di Salvo Sottile e di Vanna Marchi.
Certo il progetto di Simone Weil, nella sua radicale ingenuità, parrà inattuabile.
Forse lo è.
Ma bisogna almeno ripensare così radicalmente, per non ridurci vittime passive della mastellocrazia, dei gangster, delle intercettazioni selettive.
E degli ignoranti estremi che li mettono al potere, e se ne fanno corrompere.
(Tratto da www.effedieffe.com)