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I PADRONI DELLE NOTIZIE di Paolo Cortesi

Ho conosciuto Giuseppe Altamore in occasione dell’ultimo congresso di Nexus, nel quale eravamo entrambi relatori. Apprezzai la sua pacatezza nell’esporre dati e fatti inquietanti, come il mercimonio di un bene vitale universale qual è l’acqua.

La stessa calma autorevole trovo in questo suo saggio “I padroni delle notizie” (Bruno Mondadori), appena uscito, in cui la materia è tutt’altro che lieve, ma Altamore riesce a trattare un tema scottante con toni misurati (cosa che, devo ammettere, a me costa fatica).
Eppure, come dicevo, il tema è duro e inquietante: le notizie sono ormai diventate una merce, e come tali sono manipolate. Il connubio tra notizie e pubblicità è così stretto che, talvolta, le due cose si confondono.
E’ ovvio, infatti, che i grandi committenti pubblicitari siano determinanti – stavo per scrivere ricattatori…- per un giornale. Se questo pubblicasse, ad esempio, articoli di inchiesta su difetti di un prodotto o sulla politica aziendale a danno dei lavoratori, l’industria coinvolta non porterebbe più neppure un centesimo di pubblicità. E oggi più che mai i giornali non vivono certo grazie alle copie vendute, ma alla pubblicità.
Questo è il vecchio male dei mass media: non sono veramente liberi, perché devono fare i conti con le realtà economiche che assicurano il denaro per la loro esistenza.
Poi c’è la finta informazione che in realtà è pubblicità. Il pezzo giornalistico che all’apparenza vuole fornire notizie su una certa malattia o su uno stile di vita più sano, in effetti non è che una lunga inserzione pubblicitaria occulta.
L’articolo, magari scritto con stile accattivante, che dà ai genitori suggerimenti su come abituare i bimbi alla sacrosanta abitudine di lavarsi i denti non è che la pubblicità ad una linea di dentifrici e spazzolini, di cui con apparente noncuranza si consiglia l’utilizzo.
Gli esempi di falsa informazione che Altamore presenta sono diversi e interessanti (peccato non siano tutti recentissimi); così come sono numerose le sentenze riportate dell’Antitrust che ha punito questi casi di pubblicità occulta.
I metodi che usano le ditte per attirare la benevola attenzione del giornalista sono diversi ma accomunati da un solo elemento: regali. Regali che vanno dal viaggio esotico tutto spesato – come quello organizzato a Santo Domingo da una casa farmaceutica per dare notizia di una nuova pillola anticoncezionale – al simpatico oggettino di valore.
Il regalo è un regalo, dunque non sporca la coscienza di chi non l’ha espressamente richiesto, ma come si dirà male di chi ti ha riservato tanta amorevole attenzione?
Un’altra strategia è se possibile ancora più grave e allarmante: le ditte preparano veri e propri articoli che passano, tout court, a giornalisti i quali, altrettanto tout court, li adottano e li pubblicano. Questo comportamento è addirittura immorale, perché il giornalista abdica alla sua funzione di verifica e di giudizio per annullarsi a puro passacarte. E i risultati sono la decadenza dell’informazione. Altamore ricorda il caso del cosiddetto virus dei polli, che scatenò la solita ondata isterica di terrore a causa di allarmismi indotti, di notizie scorrette, di agenzie stampa manipolate. Il risultato finale fu, oltre al solito decadimento della qualità dell’informazione e della responsabilità morale, l’aumento vertiginoso delle vendite di un medicinale non necessario e pare nemmeno efficace.
Davanti a questa desolante situazione in costante peggioramento, il ruolo della controinformazione si staglia sempre più chiaro e prezioso. Nella civiltà della notizia ingigantita, enfatizzata, manipolata o semplicemente del tutto falsa, l’informazione alternativa è un obbligo morale ed un impegno chiaro e forte per quella nuova classe di giornalisti che vogliono davvero fare ciò che è il loro compito: raccontare fatti, non diffondere propaganda. E opporre fatti alla propaganda di chi vorrebbe la nostra sottomissione culturale, morale, politica.
Certo, non può esistere un giornalismo neutro perché non esiste un modo neutro di vedere il mondo. Ma non deve più esistere un giornalismo che confonde informazione e marketing e che ritiene accettabile una forma, anche se soft, di prostituzione.



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