La psichiatria ha un “passato oscuro” in cui è stata una complice attiva del potere, un brutale strumento di repressione. Per secoli, la scienza della mente si è piegata a giustificare le più aberranti violazioni della libertà individuale, specialmente contro le donne.
Fino a ben oltre la metà del ‘900, le donne che osavano deviare dalle aspettative sociali, che mostravano spirito critico, ambizioni personali, una sessualità “scomoda” o anche una semplice fragilità, venivano etichettate come “isteriche”, “nevrasteniche” o affette da “comode” patologie inventate in modo da poter essere internate. Il manicomio diventava la loro prigione, un luogo dove la loro voce veniva soffocata, la loro identità frantumata e la loro “devianza” repressa con metodi spesso disumani. Un disciplinamento violento, volto a punire la devianza (neanche a rieducare), ripristinare l’ordine e proteggere la reputazione, o persino le fortune, di mariti e padri. L’internamento era il modo più pulito e legittimato per liberarsi di una moglie “ingombrante” a cui si voleva sottrarre ogni ricchezza, ad esempio, o per evitare di pagare costose doti per le figlie, senza dover tenere “zitelle” in casa. Ecco la comoda soluzione: un’istituzione dove la sua esistenza veniva cancellata. Come un monastero di clausura, ma meno costoso (ai monasteri si doveva comunque versare la dote).
Camille Claudel: Il genio sacrificato alla fame di potere
Uno degli esempi più agghiaccianti di questa prassi è la storia di Camille Claudel (1864-1943), scultrice dal talento smisurato, la cui arte rivaleggiava e spesso superava quella del suo mentore e amante, Auguste Rodin. Le sue opere sono un grido di potenza e innovazione, ma la sua vita fu un inferno di tormenti.

Dopo la fine burrascosa della sua relazione con Rodin, le crescenti difficoltà e un isolamento che rasentava l’emarginazione, Camille sviluppò comportamenti eccentrici e deliri di persecuzione. La sua famiglia, guidata dal fratello Paul Claudel (1868-1955), eminente diplomatico e scrittore, decise di disfarsene. Paul, uomo rigidamente cattolico e ossessionato dalla propria carriera e dalla reputazione familiare, non poteva tollerare la “vergogna” di una sorella zitella, artista ribelle, che aveva osato vivere liberamente e sfidare le convenzioni.
Nel 1913, Camille fu internata, prima in una clinica privata, poi, definitivamente, nell’ospedale psichiatrico di Montdevergues. Lì rimase segregata per trent’anni, fino alla sua morte. Nonostante i pareri di alcuni medici che ne attestavano il miglioramento e le sue suppliche disperate di essere liberata, Paul Claudel si oppose ferocemente a ogni sua richiesta di rilascio. Per lui, la reclusione di Camille non era una questione di salute, ma di eliminazione di un problema. Era il prezzo che Camille doveva pagare per la sua audacia, la sua arte e la sua indipendenza, un sacrificio sull’altare della rispettabilità e della carriera di suo fratello.
Zelda Fitzgerald: la “Follia” conveniente
Caso simile è quello di Zelda Sayre Fitzgerald (1900-1948), simbolo brillante ma maledetto dell’Età del Jazz e moglie dello scrittore F. Scott Fitzgerald. Zelda era un talento poliedrico: scrittrice, ballerina, pittrice, con un’intelligenza e uno spirito che potevano rivaleggiare con quelli del marito. Il loro matrimonio fu una spirale autodistruttiva di genio, alcolismo e competizione sfrenata.

Mentre F. Scott Fitzgerald ascendava al firmamento letterario, la salute mentale di Zelda crollò. Le fu diagnosticata la schizofrenia nei primi anni ’30, e trascorse gran parte della sua vita reclusa in istituti psichiatrici, sottoposta a elettroshock e altri trattamenti brutali. Sebbene avesse indubbiamente problemi psicologici, molti suggeriscono che la sua “follia” fu alimentata e, in un certo senso, conveniente per il marito.
F. Scott Fitzgerald usò apertamente le esperienze e persino i diari di Zelda per la sua scrittura, spesso rubandole idee o descrivendola in modo da renderla la “musa pazza” e la causa delle sue stesse difficoltà. Confianarla al ruolo di malata mentale gli permise di consolidare la propria immagine di genio tormentato, liberandolo dalla scomoda presenza di una donna con un talento e un’ambizione che eguagliavano i suoi. La diagnosi e l’internamento di Zelda furono un modo per soffocare le sue ambizioni artistiche e per porre fine a una “competizione” che Scott non poteva tollerare, assicurando che la narrativa del loro matrimonio fosse la sua e solo sua.
Della triste storia di Rosemary Kennedy ci siamo ampiamente occupati in un apposito articolo a lei dedicato.
Questi casi sono solo la punta dell’iceberg di una storia in cui la psichiatria è stata impiegata non per curare, ma per neutralizzare quelle donne che, per la loro natura o per circostanze, non si adattavano al ruolo predefinito, diventando ostacoli o imbarazzi da eliminare. Era un sistema brutale, mascherato da benevolenza scientifica, che mirava a mantenere l’ordine e il controllo, a beneficio di chi deteneva il potere.
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