Il declino della Silicon Valley nella produzione e assemblaggio dei computer e dell’hi-tech è arrestabile? L’idea di Trump di rilanciare il ruolo dominante degli USA in questo settore, è realisticamente fattibile? La risposta sembra essere negativa per entrambe le domande, secondo il famoso giornalista investigativo forense Yoichi Shimatsu, che ha articolato una sua riflessione, anche basata sulla sua esperienza diretta, in un recente intervento su Rense.

Silicon Valley (inglese per «Valle del silicio») è un soprannome dato alla Valle di Santa Clara, nella California settentrionale a sud-est di San Francisco.
I colossi tecnologici della Silicon Valley, abituati ad un ritmo di crescita (e profitti) che per un decennio è stato superiore a quello dell’intero PIL degli USA, hanno progressivamente perso miliardi di dollari. Il settore è entrato in una crisi sempre più profonda, aggravata dalla progressiva trasformazione degli USA da impero della produzione in impero dei consumi.
Il sistema start up che avrebbe dovuto creare una nuova economia fatta da una moltitudine di business sostenibili e innovativi invece ha creato pochi colossi con una pessima performance economica.
Varie sono le concause che hanno condotto a questa situazione, ma secondo Shimatsu i semi del fallimento affondano molto in profondità, erano presenti alla nascita.
I semi del fallimento affondano molto in profondità e non sono risolvibili
Fin dagli anni ’80 l’intero sistema trascurava problemi molto importanti quali dipendenti scontenti e sottopagati, disparità di trattamento dei lavoratori immigrati, sistemi produttivi altamente inquinanti, che contaminavano le falde acquifere, lamentele dei consumatori sulla propensione dei computer a bloccarsi con totale e irrecuperabile perdita dei dati. In alcuni casi tali eventi hanno determinato pesanti danni per gli utenti. Ma l’unica priorità rincorsa dai vari dirigenti, in quella fase, era esclusivamente “arrivare per primi”, superare i concorrenti. Dunque tali semi sono stati ignorati, se non insabbiati. Man mano che gli arresti del sistema procuravano danni, aumentavano le cause legali dei consumatori per i prodotti difettosi, spingendo gli investitori a stringere i cordoni delle borse e poi ad abbandonare la Silicon Valley.
A questo punto iniziarono i fallimenti: Hewlett-Packard, IBM, Motorola, Burroughs, Commodore, Compaq, Control Data, DEC, Gateway, Gremlin, Univac, Zenith e molti altri meno noti, vittime, secondo Shimatsu, dell’ossessione americana per il profitto veloce in danno del cliente soddisfatto e fidelizzato.

“Gli ultimi sopravvissuti se ne sono andati in fretta, trasferendo gran parte della loro produzione in Cina – dichiara Shimatsu e aggiunge – Tra questi, Michael Dell e Bill Gates, che come banditi in fuga hanno iniziato a spostare la produzione. I perdenti ostinati che sprofondavano in debiti inconcepibili, hanno venduto brevetti, copyright e segreti commerciali a chiunque al mondo potesse pagare”.

Foto: Ricardo Stuckert Lula Oficial
Un trasferimento produttivo a Shenzhen, Xiamen e Pechino che secondo Shimatsu ha salvato l’industria informatica dall’autodistruzione e gli utenti di tutto il mondo dal subire prodotti sempre più scadenti.
Il trasferimento in Cina delel aziende della Silicon Valley non è stato un’acquisizione ostile ma un’evoluzione volontaria
“Quello straordinario trasferimento di progettazione e assemblaggio di computer leader nel mondo non è stato un’acquisizione ostile – precisa Shimatsu – ma un’evoluzione volontaria e anzi necessaria che ha trasformato computer «goffi» made in USA che si bloccavano regolarmente in laptop leggeri con un impressionante record di stabilità e una reputazione di essere esenti da arresti anomali. Quindi, Michael Dell e Bill Gates (e in seguito la leadership di Apple) hanno puntato sulla Cina come la piattaforma più stabile per produrre laptop affidabili a un prezzo accessibile, basata su costi di produzione bassi e affidabilità del prodotto.” L’ascesa della Cina nel settore, dunque, è da attribuire alla sua capacità di soddisfare ad un prezzo finale al dettaglio accessibile le richieste dei consumatori in termini di affidabilità e stile.
Se gli USA hanno inventato e introdotto i computer compatti per il pubblico, ma non sono stati in grado di garantire la loro stabilità operativa, nel timore di sacrificare il profitto immediato. La meticolosità degli ingegneri e degli ispettori cinesi, i loro controlli qualità maniacali, soprattutto sui chip, e la loro lungimiranza hanno consentito di colmare tali lacune.
Tentare di portare indietro l’orologio, richiamando in patria la produzione è operazione costosa (miliardi di dollari di fondi pubblici per incentivare il rientro produttivo) e destinata al fallimento, perché ci sono alcuni elementi che non possono essere creati ex novo, se assenti in una cultura che idolatra il guadagno rapido a qualsiasi costo, e sono proprio quelli ad aver garantito il successo cinese: il concetto di qualità totale, di non permettere a componenti scadenti di essere installati nei prodotti finiti al fine di garantire la soddisfazione del cliente, da cui deriva la rispettabilità aziendale e personale.
Si tratta di fattori culturali che non possono essere impiantati con finanziamenti pubblici e persuasioni politiche e che sono completamente assenti anche dal sistema educativo. I semi del fallimento iniziale sono ancora lì.
Bisogna accettare il cambiamento e guardare avanti, cercando di anticipare il futuro in ambiti dove lo spirito pionieristico americano può fare la differenza, aprire nuove strade all’innovazione.