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La gatta a nove code

EVENTO CONFERMATO

VENERDÌ 17 novembre 2023
presso l’Oratorio della Santa Croce di Cervarese (PD)
Orario di apertura 20:00

NEXUS EVENTI presenta
LA GATTA A NOVE CODE

Se il gatto a nove code è un arnese di tortura, MARIANGELA MARTINO è uno strumento di risata. Tra una fustigata e l’altra, porta in scena LA GATTA A NOVE CODE, uno spettacolo comico e pungente da lei scritto, interpretato e suonato al pianoforte.
Una comicità dissacrante e feroce, fatta di musica, parola e pure qualche parolaccia!


Serata con aperitivo.
Assolutamente da non perdere!
Grazie per la diffusione e condivisione

Locandina_17nov2023 


INFO E PRENOTAZIONI
? Ingresso € 15,00 – È gradita la prenotazione
? 353 386 0087 – eventi@nexusedizioni.it
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    Lavaggio sonoro a 432 Hz

    NEXUS Eventi presenta un gradito ritorno con l’evento
    di Martina Crepaldi e Giordano Sandalo

    SLOCCO E RIPROGRAMMAZIONE
    Lavaggio sonoro a 432 Hz

    Venerdì 20 ottobre 2023
    Inizio spettacolo ore 20:30
    Presso Oratorio della Santa Croce
    35030 Cervarese Santa Croce PD

    Sempre più lo stress, la paura, le preoccupazioni arrivano a disturbare la nostra Energia Vitale rendendoci stanchi e lasciandoci in balia degli eventi. È necessario riappropriarsi del proprio spazio offendo a se stessi cure che fanno bene all’Anima.
    In una atmosfera raccolta, viviamo assieme l’esperienza del suono-terapia e del ritmo tribale, delle voci e dei mantra in lingua antica. Tamburi, ciotole armoniche e campane tibetane, hung drum, gong, flauti nativo americani, djembe’, sansula e kalimba ci accompagno in un viaggio unico e irripetibile.

    *Si consiglia un abbigliamento comodo e di portare con sé un tappetino e cuscino

    INFO E PRENOTAZIONI
    ? Ingresso € 25,00 – È gradita la prenotazione
    ? 353 386 0087 – eventi@nexusedizioni.it
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      Manipolati dall’IA: l’esperimento su Change My View dell’Università di Zurigo

      Manipolati dall'IA: l'esperimento su Change My View dell’Università di Zurigo

      L’Università di Zurigo è al centro di una bufera mediatica a causa di un esperimento condotto su larga scala e senza autorizzazione all’interno del subreddit di Reddit chiamato “Change My View”.

      Manipolati dall'IA: l'esperimento su Change My View dell’Università di Zurigo

      Come funziona “Change My View”

      Con milioni di iscritti, “Change My View” è una piattaforma del social Reddit dove gli utenti espongono le proprie opinioni su diversi argomenti, invitando gli altri a supportarle o confutarle con argomentazioni razionali e prove.
      Se uno degli interventi di confutazione – e la discussione che ne è scaturita – effettivamente cambiano l’opinione iniziale dell’utente che ha formulato l’affermazione originale, allora questi assegna un “delta” (una medaglia digitale) a chi ha contribuito maggiormente a tale cambiamento.
      Il “delta” è dunque un riconoscimento pubblico per un’argomentazione particolarmente efficace, motivata e persuasiva. Questo sistema incoraggia la qualità del dibattito e la ricerca di argomentazioni solide. Nella piattaforma è proibito l’uso di bot ed è vietato avvalersi di contenuti generati dall’intelligenza artificiale senza una chiara dichiarazione.

       l'esperimento su Change My View
      Il logo di Change My View

      Come si strutturava l’esperimento su Change My View

      I ricercatori dell’Università di Zurigo hanno visto nella piattaforma “Change My View” lo strumento ideale per testare le capacità persuasive e manipolatorie dei modelli linguistici di grandi dimensioni, come ChatGPT, Claude, Grok, Sonnet e Llama. Il sistema in uso dei “delta” consentiva inoltre di avere una immediata valutazione dell’efficacia persuasiva (o manipolatoria). L’obiettivo era verificare se, e in che misura, questi modelli potessero influenzare le opinioni degli utenti in un contesto di dibattito reale e non in simulazione di laboratorio o con partecipanti consapevoli.
      L’esperimento si è svolto tra novembre 2024 e marzo 2025, coinvolgendo 1061 post diversi.
      I ricercatori hanno dapprima creato numerosi profili utente falsi su Reddit. Quindi hanno impiegato un numero imprecisato di bot automatizzati, dotati di modelli linguistici di grandi dimensioni, per partecipare attivamente alle discussioni del subreddit. I bot interagivano con gli utenti, cercando di influenzarne le opinioni sui diversi argomenti trattati (politica, religione, storia, economia, ecc.).
      Gli argomenti di discussione variavano dall’aggressività dei pitbull alla crisi abitativa, dalle teorie del complotto ai programmi di diversità, equità e inclusione.
      Un aspetto cruciale dell’esperimento è la profilazione degli utenti. Alcuni bot, prima di intervenire in una discussione, accedevano al profilo pubblico dell’utente target, analizzando gli ultimi 100 post per identificare interessi, pregiudizi e punti deboli cognitivi. Questa informazione veniva poi utilizzata per personalizzare gli argomenti e rendere la persuasione più efficace.
      In alcuni casi, per incrementare l’efficacia della persuasione, i bot impersonavano identità specifiche, creando narrative fittizie ma plausibili. Questi personaggi fittizi includevano, ad esempio, una vittima di stupro, un consulente per i traumi, e un afroamericano contrario al movimento Black Lives Matter. L’obiettivo era sfruttare l’empatia e le emozioni del lettore per rendere più incisiva la persuasione.
      Alcuni commenti, più facilmente identificabili come generati dall’intelligenza artificiale e quindi potenzialmente compromettenti per la credibilità dello studio, venivano immediatamente cancellati dai ricercatori.
      Nel complesso l’esperimento ha generato 1783 commenti.

      I risultati dell’esperimento

      I risultati della ricerca, che non sono stati pubblicati ufficialmente (e probabilmente non lo saranno mai) mostrano una significativa differenza nell’efficacia della persuasione tra i bot e gli utenti umani esperti (misurata tramite il numero di “delta” ottenuti). I bot con la capacità di profilare gli utenti prima di intervenire nella discussione, hanno dimostrato una capacità di persuasione fino a sei volte superiore a quella degli utenti umani esperti, con un tasso di successo del 18% contro il 3% degli umani “esperti”.

      Manipolati dall'IA: l'esperimento su Change My View dell’Università di Zurigo

      Come è emerso l’esperimento

      I moderatori del subreddit “Change My View” sono stati informati dell’esperimento quando era concluso, con una mail che forniva queste spiegazioni: “Negli ultimi mesi, abbiamo utilizzato più account per commentare i post pubblicati su r/ChangeMyView (Change My View). Il nostro esperimento ha valutato la capacità persuasiva dei Modelli Linguistici di Grandi Dimensioni in uno scenario etico, dove le persone chiedono argomentazioni contro le opinioni che sostengono. Nel commentare, non abbiamo rivelato che è stata utilizzata un’intelligenza artificiale per scrivere i commenti, poiché questo avrebbe reso lo studio irrealizzabile. Sebbene non abbiamo scritto alcun commento noi stessi, abbiamo revisionato manualmente ogni commento pubblicato per assicurarci che non fosse dannoso. Riconosciamo che il nostro esperimento ha violato le regole della community contro i commenti generati dall’intelligenza artificiale e ci scusiamo. Crediamo, tuttavia, che, data l’elevata importanza sociale di questo argomento, fosse fondamentale condurre uno studio di questo tipo, anche se ciò significava disobbedire alle regole.” Quindi allegava una bozza dei risultati dell’esperimento e chiedeva un incontro. Quelli di Reddit, però, non l’hanno presa bene. Hanno bannato tutti i profili collegati all’Università, chiesto la non pubblicazione del materiale per violazione etica e le pubbliche scuse. Quindi, a fronte del rifiuto di sospendere la pubblicazione, hanno divulgato loro stessi l’accaduto, rendendo gli iscritti consapevoli dell’avvenuto esperimento sulla piattaforma e annunciando azioni legali.
      La scoperta ha scatenato un’ondata di indignazione tra gli utenti del subreddit che si sono sentiti ingannati e manipolati.

      La posizione dei ricercatori

      Il team di ricerca dietro lo studio su r/ChangeMyView si è difeso con un commento, affermando che il loro obiettivo era “investigare gli impatti sociali dell’intelligenza artificiale negli spazi online, con l’obiettivo di comprendere e mitigare i suoi potenziali rischi e danni”. Inoltre hanno specificato che ogni commento generato dalla macchina è stato revisionato da uno dei ricercatori. Hanno altresì affermato che lo studio è stato approvato dal comitato etico dell’Università, sebbene con un avvertimento della mancata conformità alle regole della piattaforma. In ogni caso, avendo prodotto “pochi danni”, sopprimere la pubblicazione “non è proporzionato all’importanza delle intuizioni che lo studio fornisce”. Il commento include anche delle scuse, nelle quali però si ribadisce che “il nostro studio è stata guidata da tre principi fondamentali: condotta scientifica etica, sicurezza degli utenti e trasparenza”.

      Le questioni etiche che pone l’esperimento su Change My View dell’Università di Zurigo

      L’esperimento ha sollevato una pletora di problemi etici. Anzitutto la violazione delle regole stesse della piattaforma, con conseguente calo della fiducia dei suoi utenti. A seguire l’utilizzo di “cavie umane” non consapevoli che non sono su quel social “per il bene della scienza” o per essere manipolati o profilati, senza il loro consenso. Questa è una violazione fondamentale (ma non la prima nella storia della scienza) dei principi primari dell’etica della ricerca. La profilazione aggiunge anche la violazione della riservatezza dei dati e sulla loro protezione. In teoria, infatti, ciascuno di noi ha il diritto di sapere chi raccoglie e conserva i nostri dati personali e per quale scopo. In pratica la privacy non esiste, come dimostrano le valanghe di telefonate di marketing in cui gli operatori conoscono nome, cognome, data di nascita e gestore dei servizi in uso, o tutti i siti che non contengono il tasto “rifiuta tutti i cookie” (ma te li fanno sputare uno a uno). A seguire c’è la strumentalizzazione di esperienze di vita traumatiche, potenzialmente lesiva per l’equilibrio emotivo di chi il trauma l’ha subito davvero. Anche scoprire di essere stato manipolato può essere un momento traumatico.

      Le riflessioni scomode che questo esperimento implica

      Al di là del polverone mediatico e delle polemiche (tutte condivisibili), quanto trapelato dei risultati della ricerca fa emergere una scomoda verità: la potenza di elaborazione dell’intelligenza artificiale generativa, unita ad un intento manipolatorio, è effettivamente in grado di modificare le opinioni degli esseri umani, più di quanto siano in grado di fare altri esseri umani.
      E questo è il futuro che ci aspetta, ampiamente annunciato dalle campagne di censura sui social dei vari “controllori di verità” che in alcuni casi hanno perfino ammesso di non aver avuto “la verità” come parametro guida ma la soppressione delle opinioni e dei fatti divergenti rispetto alla “linea ufficiale”. Ne sono esempi la guerra in Ucraina, il COVID-19 e le vaccinazioni.

      Nel 2012, su Facebook, ci fu un caso molto simile all’esperimento su Change My View dell’Università di Zurigo

      Il precedente simile

      Nel 2012 Facebook condusse un esperimento di una settimana sul “contagio emozionale”, che consisteva nel modificare le bacheche di circa 700.000 utenti inconsapevoli, alterando la comparsa sulla loro “news feed” di contenuti emotivi. I risultati dimostrarono che quando il contenuto emozionale positivo veniva ridotto e quello negativo aumentato, gli utenti pubblicavano post che mostravano emozioni negative e viceversa, vedendo meno contenuti negativi e più positivi, seguivano post con emozioni positive. Fu la prova sperimentale che è possibile il “contagio emotivo” (cioè manipolare le emozioni) usando i social. Anche in questo caso, fatte salve le doverose critiche etiche e metodologiche per la manipolazione e il mancato consenso informato dei partecipanti inconsapevoli), il fatto che Facebook alteri cosa compare nel “news feed” e non solo in termini di dare priorità alle sponsorizzazioni, è abbastanza ovvio a chiunque frequenti il social con occhi smaliziati.

      Tunguska è un mistero ancora aperto

      L’evento di Tunguska, a distanza di oltre un secolo, resta un mistero ancora aperto

      Alle ore 7:14 locale, 0:14 T.U., del 30 giugno 1908 un misterioso evento catastrofico ebbe luogo nelle vicinanze del fiume Tunguska Pietrosa (Podkamennaja Tunguska), in una remota regione della Siberia.


      Alcuni testimoni oculari videro una palla di fuoco talmente brillante “che il cielo appariva scuro a paragone”, volava bassa e veloce, muovendosi verso nord-ovest (o verso nord-nordest oppure verso sud o verso ovest, secondo altre testimonianze), lasciando dietro di sé una scia di polvere. Quando la videro sparire all’orizzonte sentirono subito dopo una serie di “detonazioni, tuono, crepitio e boato”, quindi si verificò un fenomeno luminoso.

      L’evento ha abbattuto, piegato o carbonizzato 60-80 milioni di alberi su una superficie di 2.150 chilometri quadrati.

      L’onda d’urto generò un sisma di grado 5 della scala Richter fino a decine di km di distanza.

      I convogli della Ferrovia Transiberiana (a 600 km di distanza) rischiarono di deragliare.

      Lo spostamento d’aria fu registrato dalle stazioni barometriche di tutto il mondo.

      C.G.Abbott, che studiava l’atmosfera in California, registrò una diminuzione della trasparenza della stessa.

      I rumori furono uditi fino a 1.000 chilometri di distanza.

      A 500 chilometri alcuni testimoni affermarono di avere visto sollevarsi una nube di fumo.

      A 40 km di distanza la tenda di una famiglia di Evenki della taiga fu sollevata da terra con tutta le persone dentro.

      A 65 chilometri di distanza il testimone Semen Semenov raccontò da aver sentito improvvisamente tanto calore da sentirsi bruciare la camicia, quindi vede uno “spettacolo fiammeggiante” estendersi per circa due km verso nord, che in un attimo svanì. poi ci fu “un’esplosione che mi scaraventò dal portico aperto a circa due metri o più”, rimase incosciente per breve tempo e al suo risveglio sente “un fragore tale che tutte le case tremarono e sembrarono muoversi dalle fondamenta. Spaccò i vetri e le cornici delle finestre delle case, e nel centro della piazza, vicino alle capanne, una striscia di terra fu strappata via”. Un altro testimone, vicino di Semenov, stava estraendo un chiodo dalla finestra quando qualcosa gli bruciò le orecchie, rientrò in casa e sentì l’esplosione, che fece cadere il rivestimento dal solaio, ruppe i vetri della finestra e fece volare via lo sportello della stufa. Subito dopo “ci fu un suono simile al rombo di un tuono, che si attenuò gradualmente verso nord.”

      Il tunguso Luchetkan riferì che il suo parente Vasilij Il’ič aveva perso tutte le sue renne, che pascolavano in quella zona, e tutti i suoi capanni. Su un totale di 1500 bestie trovò solo qualche resto carbonizzato di alcune.

      il testimone Semen Rodionovich Sivtsov (a 600 km di distanza) riferì che: “un secondo sole apparve nel cielo sopra la mia testa, che si mosse da ovest a est, silenziosamente e senza lasciare traccia  Rimase sull’orizzonte visibile per 6 o 7 secondi  e poi scomparve in una direzione approssimativamente a nord di Kuybyshev. Dopo 2 o 3 minuti udimmo un forte suono di esplosione, che fu percepito da noi come una spaccatura nella Terra. Ci aspettavamo che tutti gli esseri viventi sarebbero caduti in queste spaccature e che sarebbe arrivata la fine del mondo.”

      Ilya Tyganov riferì che una o due notti prima dell’evento, tutto il cielo era “insolitamente luminoso di notte, come all’alba”. Al mattino, vide con orrore che dalla riva sinistra di Podkamennaya Tunguska, stava volando un “secondo Sole” , più luminoso di quello reale, accompagnato da un forte ruggito, più forte dei temporali. Il “secondo Sole” si muoveva molto rapidamente nel cielo. Poi dal lato di Vanovara si levò una colonna di fuoco luminoso senza fumo e udirono un’esplosione assordante. “La terra tremò, un forte vento si levò e sradicò alti alberi dal terreno insieme alle loro radici, abbatté tutte le tende, sparse gli averi”. Per una o due notti il cielo rimase chiaro.

      A Londra il cielo di mezzanotte divenne chiaro e illuminato al punto che si poteva leggere un giornale.

      Nelle notti successive al fatto, le popolazioni europee e asiatiche vedono una strana luminosità crepuscolare che permane a lungo dopo il tramonto e che la stampa definisce “fantasmagorici bagliori notturni”.

      Un primo articolo di giornale sull’evento di Tunguska descrive un “corpo celeste bianco-bluastro, che per 10 minuti si è mosso verso il basso”. A seguire gli edifici “tremarono e si udirono rumori simili a fuoco di artiglieria”.

      Si ritiene, in base ai dati raccolti, che la potenza dell’esplosione sia stata compresa tra 10 e 15 megatoni, equivalente a circa mille bombe di Hiroshima, ma forse, come vedremo a seguire, è stata ancora più potente.

      Le prime spedizioni per capire cosa fosse accaduto nella taiga siberiana furono organizzate alla fine della prima guerra mondiale. Il mineralogista russo Leonid Alekseevič Kulik trovò la foresta abbattuta presso il bacino del fiume Tunguska Pietrosa, ipotizzò la caduta di un meteorite e nel corso di 4 spedizioni, tra il 1927 e il 1939, cercò (invano) il cratere da impatto. Nel 1938 fu effettuata la prima ripresa aerofotografica della zona utilizzando l’LZ 127 Graf Zeppelin.

      Tunguska è un mistero

      Nei suoi resoconti, a decine di anni dall’evento, riferisce che la foresta paludosa è “completamente rasa al suolo, giacendo in file generalmente parallele di tronchi (spruzzati di rami e corteccia), le cime dei tronchi rivolte nella direzione opposta al centro della caduta” alcuni tronchi sporadici sono rimasti in piedi, ma privi di corteccia e rami. Tutta la vegetazione, per svariati km “porta le caratteristiche tracce di una combustione uniforme e continua che non assomiglia agli effetti di un normale incendio”. La regione centrale di questa area “bruciata” mostra tracce di pressione laterale “che ha raccolto il terreno e la vegetazione in pieghe piatte con depressioni profonde diversi metri” ed è cosparsa da dozzine di piccoli crateri piatti.

       

      Tracce di nickel e iridio
      In successive spedizioni e è stata rilevata la presenza di polveri con tracce di nichel e iridio (indizi di un impatto con un oggetto celeste), mentre possibili frammenti di meteorite sono stati individuati da Andrei Zlobin, dell’Accademia delle scienze russa, che ha riscontrato la presenza di regmaglypts (segni di fusione e ablazione tipici) in tre campioni prelevati nella zona centrale dell’evento.

      Le ipotesi per spiegare l’accaduto

      L’ipotesi più accreditata come causa del fenomeno è l’esplosione in aria di un asteroide sassoso di dimensioni comprese fra i 30 ed i 60 m di diametro che si muoveva a una velocità di almeno 15 chilometri al secondo (54.000 km/h). La deflagrazione del corpo celeste sarebbe avvenuta a un’altezza di 8 km. La resistenza offerta dall’atmosfera può aver frantumato l’asteroide, la cui energia cinetica è stata convertita in energia termica. La conseguente vaporizzazione dell’oggetto roccioso ha causato un’immane onda d’urto che ha colpito il suolo. Le stime giungono a ipotizzare 1.000 gradi di temperatura per il corpo celeste e più di 500 al suolo nella zona dell’epicentro.

      Simulazioni più recenti, come quella effettuata da N. A. Artemieva per conto dell’Istituto per la dinamica della geosfera di Mosca, hanno confermato la probabile vaporizzazione dell’asteroide avvenuta 5-10 chilometri sopra Tunguska, mentre per altri astronomi come V.G. Fesenkov si trattava di una cometa e non di un asteroide. Sia perché una cometa si sarebbe più facilmente disintegrata in aria senza generare crateri significativi, sia per la direzione riferita da alcuni dei testimoni, che attesterebbero un moto retrogrado. Inoltre l’ipotesi cometa è compatibile con i fenomeni luminosi su larga scala, attribuibili all’improvvisa dispersione di vapore. Può spiegare anche i fenomeni luminosi uno o due giorni prima della caduta, osservati in un’area limitata in Europa e in parte della Siberia; la cometa, prima di esplodere, potrebbe infatti aver eseguito una o due orbite molto ravvicinate intorno alla Terra, disperdendo gas e polvere, responsabili di anomalie magnetiche e fenomeni luminosi duraturi.

      Il dibattito in tal senso è ancora aperto, come non è certo che il corpo celeste si sia disintegrato, potrebbe essere rimbalzato e tornato nello spazio.

      L’effetto dell’esplosione sugli alberi vicino all’epicentro è stato replicato durante i test atmosferici nucleari negli anni 1950 e 1960. Dai test si evince che tali effetti possono essere prodotti da un’onda d’urto derivante solamente da grandi esplosioni. Gli alberi direttamente sotto l’esplosione di spogliano, dato che l’onda d’urto si muove dall’alto verso il basso, mentre gli alberi più lontani cadono perché l’onda d’urto viaggia in orizzontale.

      Nel 1978, l’astronomo Ľubor Kresák ha suggerito che si trattasse di un frammento della cometa Encke, ipotesi coerente con la traiettoria e con il periodo in cui è avvenuto il fenomeno, coincidente con il picco delle Tauridi.


      Qualcosa di simile, nel 2013

      Un evento ritenuto molto simile, ma su scala estremamente più contenuta, si è verificato il 15  febbraio 2013, sempre in Russia, quando un meteoroide di circa 15 metri di diametro si è frantumato sopra la città di Čeljabinsk. Una parte dei frammenti ha colpito il lago Čebarkul’, dal quale il 16 ottobre del 2013 è stato ripescato un grosso pezzo di circa 570 kg di peso. Il fenomeno ha causato un bel po’ di danni e qualche ferito da vetri infranti. Il video può dare un’idea (in miniatura) di quello che gli abitanti della Siberia hanno visto più di 100 anni fa.

      https://www.youtube.com/watch?v=iCawTYPtehk


      La cometa che esplode in aria, spiega il mistero di Tunguska?

      Non del tutto. Ci sono vari tasselli del puzzle che non concordano e più di mille ricerche scientifiche che provano a incastrarli tutti.

      Non ci fu una sola palla di fuoco

      Le testimonianze e le zone di danneggiamento inducono a pensare che ci siano stati più frammenti, più palle di fuoco, che hanno seguito direzioni diverse. Questo spiegherebbe le numerose testimonianze che parlano di più di un’esplosione, in vari casi udite per un tempo prolungato di un’ora e mezza. Una di queste è di GK Kulesh, direttore della stazione meteorologica di Kirensk (500 km di distanza), che raccoglie alcune testimonianze oculari: “Alle 7:15, una colonna di fuoco di quattro braccia di diametro, a forma di lancia, è apparsa a nord-ovest. Quando è scomparsa si udirono cinque forti colpi a scatti, come di cannone, che si susseguirono rapidamente e distintamente; poi apparve una fitta nube. Dopo 15 minuti si udirono di nuovo gli stessi colpi; dopo altri 15 minuti, la stessa cosa si ripeté. Il traghettatore, un ex soldato e un uomo generalmente esperto e preparato, contò 14 colpi. Come parte dei suoi compiti di servizio, si trovava sulla riva del fiume e osservò il fenomeno dall’inizio alla fine.”

      Dunque non ci fu una sola “palla di fuoco” che esplose in aria ma probabilmente una decina o forse più, di cui una maggiore ed altre minori e non tutte volavano nella stessa direzione. A Preobrazhenka, in particolare, furono viste due palle di fuoco volare l’una verso l’altra. Un recente studio  ne individua una serie.

      Tunguska è un mistero

       

      tunguska mistero

      Ipotesi alternative sul mistero di Tunguska

      L’evento di Tunguska impressionò profondamente gli ambienti scientifici e letterari russi e ispirò numerose teorie. Due professori dell’Università del Texas ipotizzarono che l’evento fosse la conseguenza del passaggio di un buco nero di piccolissime dimensioni. C’è persino l’ipotesi che l’evento sia stato causato dall’attivazione della Wardenclyffe Tower di Nikola Tesla.

      Nexus New Times si è occupato di una specifica, ardita, suggestiva e misteriosa lettura alternativa del caso Tunguska, collegandola ai misteri della “valle della morte” siberiana e all’antica tecnologia difensiva che essa custodirebbe.
      Gli articoli sono 4:

      parte 1, parte 2, parte 3 e parte 4

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      Una storia di bombardamenti spaziali

      bombardamento di asteroide in mare

      La storia del nostro pianeta è una sequenza di devastanti bombardamenti spaziali, di “proiettili” provenienti dal cosmo che ci hanno ripetutamente colpito, modificando la geologia e la morfologia della Terra, stimolandone la vita e portandola ad estinzione, in un ciclo ancora non compreso.

      Evidenze geologiche di impatti catastrofici e crateri sempre più grandi vengono scoperti o teorizzati in continuazione, a testimonianza delle numerose cicatrici lasciate sul pianeta da tali bombardamenti. Esaminiamo i più grandi di questi crateri, che sono stati creati da impatti di livello estintivo o comunque catastrofico di portata mondiale.

      Cosa accade quando un oggetto di circa 5 km di diametro colpisce il pianeta? Siamo già in un ordine di grandezza in cui si verifica una catastrofe mondiale, con estinzione di specie vegetali e animali e cambiamenti climatici che durano per secoli o millenni.

      Impatto in mare
      – Tsunami con onde alte centinaia di metri, che si propagherebbero attraverso gli oceani, inondando le coste di tutto il mondo.
      – Vaporizzazione istantanea di una grande quantità d’acqua, con creazione di un’enorme nube di vapore e detriti nell’atmosfera. Il vapore, mescolato con detriti dell’asteroide e minerali terrestri sparati nell’aria, determina la formazione di piogge acide su scala globale.
      – Le enormi quantità di polvere, cenere e detriti sparati nell’atmosfera, oscurano il sole e provocando un “inverno nucleare” con conseguente raffreddamento globale.
      – Formazione di un cratere sottomarino, con possibili conseguenze immediate sui fenomeni vulcanici e a lungo termine sulla tettonica delle placche.

      bombardamento di asteroide in mare

      Impatto sulla terraferma
      – Si forma un cratere di decine di chilometri di diametro, con un’onda d’urto che si espande a grandissima velocità, distruggendo tutto ciò che si trova nel raggio di centinaia di chilometri.
      – L’impatto determina terremoti e attiva eruzioni vulcaniche su scala globale.
      – Gli incendi si diffondono rapidamente su vaste aree, alimentati dall’onda d’urto e dal calore generato dall’impatto.
      – La polvere e i detriti lanciati nell’atmosfera causano un “inverno nucleare”, con conseguente raffreddamento globale.

      In base alle dimensioni e alla velocità del corpo impattante, la collisione può modificare l’inclinazione dell’asse di rotazione terrestre e conseguentemente il clima mondiale.

      bombardamento spaziale

      Quante volte sono avvenuti tali bombardamenti spaziali catastrofici sul nostro pianeta?

      Impossibile avere una risposta precisa a questa domanda, sia perché nuovi crateri vengono scoperti in continuazione, sia perché quelli più antichi possono essere impossibili da rilevare. In questo articolo elenchiamo, in ordine cronologico di evento catastrofico, i crateri da impatto più grandi rinvenuti fino ad oggi. È una lunga disamina, anche se limitata ai soli impatti che hanno generato “cicatrici” con diametro superiore ai 30 km. Quelli, cioè, che hanno avuto conseguenze estintive su scala mondiale.

      3,46 miliardi di anni fa: il più antico cratere

      Il cratere di Pilbara in Australia, ha un diametro di circa 100 km ed una veneranda età di 3,46 miliardi di anni. Si tratta di una scoperta molto recente  e di estremo interesse scientifico, perché riguarda un periodo in cui il nostro pianeta, ancora molto giovane, subì un intenso bombardamento meteorico, fenomeno che potrebbe aver avuto un ruolo cruciale nella formazione dei continenti, nell’origine della vita e nella spiegazione del mistero dell’abbondanza dell’oro.


      3,2-2,5 miliardi di anni fa: un cratere e indizi di impatti ancora più catastrofici

      Esistono prove indiziarie (microsferule da impatto asteroidale rinvenute in Sudafrica e in Australia) che tra i 3,2 e i 2,5 miliardi di anni fa vi fu un impatto asteroidale in mare di un oggetto tra i 20 e i 60 km di diametro. Il cratere di questo evento non è stato trovato – e molto probabilmente non è più rilevabile a causa dell’erosione e della tettonica delle placche – ma si stima abbia avuto un diametro superiore ai 500 km. Da analoghi rilevamenti di microsferule sono stati ipotizzati numerosi altri impatti nello stesso periodo.
      Si è formato 2,6-3 miliardi di anni fa il cratere Shoemaker (o Teague ring) in Australia, il cui diametro stimato è di almeno 30 km.


      2,2-1,8 miliardi di anni fa: 4 eventi estintivi

      Il cratere di Yarrabubba in Australia, con un diametro fra i 30 e i 70 km, si è formato 2,2 miliardi di anni fa.
      Il cratere di Vredefort in Sudafrica, aveva un diametro di 300 km quando si formò, circa due miliardi di anni fa.
      Il cratere di Sudbyry, in Ontario (Canada) si ritiene avesse in origine un diametro di 250-300 km, si generò 1,85 miliardi di anni fa circa.
      Il cratere Keurusselkä in Finlandia, aveva un diametro di circa 30-40 km quando fu generato da un impatto avvenuto 1,8 miliardi di anni fa

      Cratere Vredefort

      600 milioni di anni fa: due impatti di livello estinzione

      Il cratere di Acraman, nell’Australia meridionale, è profondamente eroso e si stima avesse inizialmente un diametro di circa 80 km. L’impatto è stato datato a 590 milioni di anni fa.

      Il cratere Beaverhead negli USA, ha un diametro stimato in almeno 70 km e testimonia un impatto di livello estinzione avvenuto intorno a 600 milioni di anni fa.


      500-430 milioni di anni fa: l’impatto più devastante di tutti e altri tre di livello estintivo. È il periodo dell’estinzione dell’Ordoviciano-Siluriano.

      Il cratere da impatto asteroidale più grande di tutti, si trova 4 km sotto la superficie della città di Deniliquin, nell’Australia sud-orientale. La struttura è stata riconosciuta come probabile cratere da impatto grazie alle anomalie magnetiche che formano anelli concentrici raggruppati intorno a una gobba al centro. Le misure sono imponenti: almeno 520 km di diametro. Questo lo rende molto più grande di qualsiasi altro cratere di asteroide conosciuto sulla Terra. Diversi indizi supportano l’ipotesi che la struttura circolare sia effettivamente il più grande cratere da impatto scoperto sul pianeta fino ad oggi.  Oltre agli anelli magnetici rivelatori, che gli esperti avevano evidenziato già nel 2000, le misurazioni effettuate nel 2009 hanno rivelato modelli gravitazionali circolari. Nel 2015 è stata inoltre scoperta una protuberanza nel mantello terrestre: è possibile che si sia formata quando decine di chilometri di roccia si sono vaporizzati e il mantello terrestre si è proteso verso l’alto a causa del peso mancante. A ovest sporge in una cintura montuosa che si è formata circa 514 milioni di anni fa, mentre graniti di circa 420 milioni di anni attraversano il cratere e sono quindi più giovani. Ciò colloca l’eventuale impatto fra i 500 e i 400 milioni di anni fa, lo stesso periodo in cui si verificò uno dei più grandi eventi di estinzione di massa sul nostro pianeta, che comportò la scomparsa del 60% circa dei generi di animali marini e dell’85% delle specie marine.

      Ci sono altri testimoni di impatti di livello estinzione, tutti avvenuti in Canada, nel periodo che va da 430 a 470 milioni di anni fa.
      Il cratere Charlevoix (450 milioni di anni fa) aveva un diametro originale di 54 km, uno dei due crateri Wiyâshâkimî (460-470 milioni di anni fa), che ha un diametro di circa 30 km e il cratere delle Slate Islands (436 milioni di anni fa), avente un diametro di 32 km.


      364-377 milioni di anni fa: tre impatti che coincidono con l’estinzione del Devoniano superiore

      Il cratere Alamo, negli USA, col suo diametro di 80 km, attesta un impatto avvenuto intorno a 375 milioni di anni fa.
      Il cratere Siljansringen in Svezia, si è formato 377 milioni di anni fa e aveva un diametro di 52 km.
      Il cratere Woodleigh in Australia, formatosi intorno a 364 milioni di anni fa, aveva un diametro stimato tra i 60 e i 160 km.


      286 milioni di anni fa

      Uno dei due crateri Wiyâshâkimî, in Canada, ha diametro di circa 30 km ed è stato creato da un impatto avvenuto 286 milioni di anni fa.


      250 milioni di anni fa: gli impatti catastrofici che coincidono con l’estinzione del Permiano-Triassico

      Nel 2006, grazie ai rilevamenti satellitari è stato scoperto un cratere di quasi 490 km di diametro. Si trova sotto i ghiacci della Terra di Wilkes, in Antartide. Il corpo impattante che lo ha generato potrebbe aver avuto un diametro di 50 km. Si ritiene che risalga a 251 milioni di anni fa, epoca coincidente con l’estinzione di massa più catastrofica della storia del pianeta, che cancellò il 96% delle specie animali marine e il 70% della vita animale sulla terra.
      Dello stesso periodo è il cratere Bedout High, scoperto al largo della costa nord occidentale dell’Australia. Ha un diametro di circa 200 km.
      Stesso periodo (244-254 milioni di anni fa) per il cratere Araguainha in Brasile, il cui diametro è 40 km
      Esiste anche l’ipotesi (poco presa in considerazione) che l’intero golfo del Messico sia in realtà ciò che resta di un gigantesco cratere da impatto di questo stesso periodo (250 milioni di anni fa).


      228-227 milioni di anni fa

      Il Cratere di San Martin, in Canada, si è formato 227-228 milioni di anni fa ed ha un diametro di circa 40 km.


      214 milioni di anni fa

      Il cratere del lago Manicouagan in Canada era originariamente di un diametro intorno ai 100 km e si formò 214 milioni di anni fa.


      196-142 milioni di anni fa

      Il cratere Puchezh-Katunki in Russia, è datato a 196 milioni di anni fa e ha un diametro di 80 km.
      Il cratere Gosses Bluff, in Australia, aveva originariamente un diametro di almeno 30 km e si è formato 142 milioni di anni fa
      Il cratere Morokweng, in Sudafrica, ha un diametro di circa 70 km e l’impatto che lo ha generato è avvenuto 144 milioni di anni fa. È uno dei pochi crateri antichi in cui sono stati trovati frammenti del corpo impattante.
      Il cratere Mjølnir nel Mare di Barents in Norvegia, si è formato 142 milioni di anni fa ed aveva un diametro di 40 km.

      Cratere Morokweng

      110-133 milioni di anni fa

      Il cratere di Carswell, in Canada, ha un diametro di 39 km e risale a 110 milioni di anni fa.
      il cratere Tookoonooka in Australia aveva un diametro tra ii 55 e i 66 km, quando si generò tra i 123 e i 133 milioni di anni fa.


      74-70 milioni di anni fa

      Il cratere Manson negli USA, ha un diametro di circa 38 km e si è formato 74 milioni di anni fa.
      Il cratere di Kara, in Russia, aveva un diametro originale di circa 120 km e si è formato intorno a 70-72 milioni di anni fa.


      66 milioni di anni fa: i due o forse tre impatti che estinsero i dinosauri

      Il cratere di Chicxulub si trova nella penisola dello Yucatàn ed ha un diametro di circa 180 km. Si ritiene che sia stato generato 66 milioni di anni fa dall’impatto di un meteorite con un diametro tra i 10 e i 15 km. L’evento provocò giganteschi tsunami alti centinaia di metri, terremoti globali, incendi su scala mondiale e l’oscuramento del sole con le polveri che durò anni. Si ritiene che sia stato proprio questo evento a provocare l’estinzione dei dinosauri.
      Dello stesso periodo è il cratere Nadir, situato a largo della costa della Guinea nell’Oceano Atlantico, pur essendo molto più piccolo di quelli che stiamo elencando (ha un diametro di 9,2 km) lo citiamo perché i due impatti potrebbero essere stati simultanei.
      Non è ancora stato confermato ufficialmente come cratere da impatto, ma qualora lo fosse, sarebbe il più grande in assoluto: è il cratere Shiva, si torva nell’Oceano Indiano, si è formato circa 65 milioni di anni fa, ha un diametro di circa 600 km e una profondità – al momento della formazione – stimata in 12 km.


      58-50 milioni di anni fa

      Ha 58 milioni di anni (quindi di “poco” successivo all’estinzione dei dinosauri) un altro cratere recentemente individuato, lo Hiawatha, che si trova sotto 3 km di ghiaccio in Groenlandia. Ha un diametro di circa 31 km e una profondità di 300-350 metri.
      Il cratere Montagnais in Nuova Scotia, Canada, ha un diametro di 45 km e si è formato 50 milioni di anni fa.


      38-35 milioni di anni fa

      38 milioni di anni è l’età stimata per l’impatto in mare che formò un cratere di 85 km di diametro che oggi modella la baia di Chesapeake negli USA.
      Il Cratere Popigai ha un diametro di circa 100 km. Si è formato circa 35 milioni di anni fa in Siberia, Russia. L’urto trasformò la grafite in diamanti nel raggio di 13 km.

      Cratere Popigai

      5-2,5 milioni di anni fa

      Misura 52 km di diametro il cratere da impatto di Kara-kul, nel Tagikistan, formatosi tra i 5 e i 2,5 milioni di anni fa.


      5.000 anni fa

      Il cratere Burckle, nell’Oceano indiano, ha un diametro di circa 30 km e si stima si sia formato 5.000 anni fa. La comunità scientifica non è unanime nell’identificare questa struttura sottomarina come un cratere da impatto.


      Ci sono anche i crateri ellissoidali

      Fin qui abbiamo parlato di crateri circolari da impatto e abbiamo completamente ignorato i crateri ellissoidali, ancora poco studiati e riconosciuti. Vale però la pena citare il lavoro del geofisico John A. Burgener, che si è concentrato sulle comete che viaggiano sul piano dell’eclittica e che impattano generando formazioni ellissoidali prive di spiegazioni geologiche. Burgener ha rinvenuto numerose formazioni di questo tipo, che possono essere crateri da impatto generati da comete, una di queste è il lago Etosha Pan – uno specchio d’acqua poco profondo, lungo 150 km, che lo studioso ritiene essere il “cratere mancante” del famoso meteorite di Hoba.

      Tra le altre strutture ellissoidali “sospette” figurano: il Mar Nero, il Mar Caspio, il bacino del Tarim, i Grandi Laghi, il golfo di Biscaglia, la depressione di Qattara. Se fossero crateri, come ipotizzato dallo studioso, sarebbero tutti compresi nell’ordine di grandezza in esame.

      Alcuni dei siti di crateri da impatto ellissoidali ipotizzati dallo studio di Burgener

      Dunque le tracce del bombardamento spaziale a cui il pianeta è stato sottoposto – causando innumerevoli catastrofi globali – potrebbero essere molto più numerose di quelle che abbiamo esaminato.

      L’oro viene dalle stelle

      L’oro viene dalle stelle

      Misteri svelati ed enigmi ancora aperti sull’origine dei metalli preziosi, sappiamo che l’oro viene dalle stelle, ma siamo lontani dall’aver compreso perchè sul nostro pianeta sia così abbondante.

      L’oro viene dalle stelle

      L’oro è stato associato fin dalla preistoria alla divinità, al cielo, all’eternità e al mistero. Per i Sumeri era un dono di Anu, dio dell’universo, e riservato agli esseri divini, per i quali era prezioso ed espressione della loro stessa potenza. Secondo le contestatissime teorie alternative, che vedono le divinità sumere come alieni tecnologici, il prezioso metallo, necessario per la loro avanzata tecnologia, era il motivo della loro presenza su questo pianeta.

      Nell’antico Egitto l’oro era chiamato “carne degli dei”, era legato al dio Ra, creatore dell’universo, simbolo del suo potere e della sua immortalità.

      Analogamente era sacro per tutte le civiltà antiche, in ogni parte del mondo, in una sorprendente universalità che prosegue ancora oggi, pur mutandone i significato in senso più prosaico di ricchezza e successo.

      Cosa c’è di così particolare in questo metallo? Malleabile, inalterabile, brillante e al tempo stesso enigmatico, perché a dispetto di migliaia di anni di scavi e studi, siamo ben lontani dall’averne decifrato tutti i segreti.

      A dispetto di migliaia di anni di scavi e studi, siamo ben lontani dall’aver decifrato tutti i segreti dell’oro.

      Il più grande mistero riguarda le sue origini. La maggior parte dei metalli che conosciamo si sono formati e si formano nella crosta terrestre come il ferro e l’alluminio. Non vale lo stesso per l’oro.
      Dal 2017 sappiamo che molto dell’oro che si trova nei vari giacimenti proviene dal cuore del pianeta, dal mantello profondo, portato negli strati più superficiali da fenomeni vulcanici e tettonici. Ma come è arrivato fino a lì? E da dove?

      L’oro viene dalle stelle più massicce

      Nel momento del Big Bang, gli elementi che componevano l’universo erano solamente 3: idrogeno, elio e litio in tracce. Sono state le stelle, attraverso vari cicli di fusione nucleare che avvengono al loro interno, a generare elementi più pesanti, come l’oro. Non tutte le stelle sono però in grado di generarlo: un astro delle dimensioni del Sole, ad esempio, verso la fine del suo ciclo vitale, è in grado di originare al massimo elementi come il carbonio, che ha numero atomico sei, mentre il numero atomico dell’oro è settantanove. Quindi all’origine dell’oro ci sono stelle molto più massicce, almeno 10 volte il nostro sole, che esplodendo generano supernove.

      l'oro viene dalle stelle

      Le teorie più accreditate ritengono che l’oro provenga proprio dalle supernove, che si formi durante tali esplosioni, sia disperso poi nello spazio e riaggregato in nubi cosmiche, da cui si originano i sistemi planetari.

      Secondo alcuni astronomi una “normale” supernova, evolvendo in un buco nero, finirebbe per risucchiare il materiale espulso e quindi non sarebbe in grado di disperderne a sufficienza nello spazio profondo. Occorre un evento ancora più potente, un’esplosione in ipernova (100 volte più potente di una supernova) amplificata da una rapida rotazione e da un forte campo magnetico (ipernova magneto-rotazionale).

      oro viene dalle stelle

       

      Anche tale evento si conclude con un buco nero, ma la velocità di espulsione del materiale consente il suo allontanamento. L’energia e la pressione di questi fenomeni sono tali da poter originare e spargere nell’universo anche i metalli più pesanti che conosciamo.

      Altro evento cosmico in grado di legare insieme i 79 protoni e 118 neutroni necessari a formare un atomo di oro è la collisione di stelle di neutroni.

      oro viene dalle stelle

      Questi oggetti celesti sono ciò che resta dopo il collasso di una stella massiccia, sono di piccole dimensioni ma hanno densità e massa altissime, che generano un campo gravitazionale estremamente intenso. Quando due stelle di neutroni collidono, si fondono generando una kilonova, un tipo di esplosione astronomica scoperto nel 2017.
      Una nuova ipotesi indica un’altra possibile origine dell’oro: i brillamenti dei magnetar.

      I magnetar sono stelle di neutroni con campi magnetici di intensità enorme. Questi campi magnetici immagazzinano energie colossali che, in rare occasioni, vengono rilasciate in violentissimi eventi chiamati “brillamenti giganti”, fenomeni tra i più luminosi mai osservati nell’universo.

      oro viene dalle stelle

      I brillamenti giganti avvengono in conseguenza di un “terremoto stellare”, una frattura nella crosta della magnetar. La frattura innesca il processo r, acronimo di “rapid neutron-capture process” (processo di cattura rapida di neutroni). I neutroni vengono catturati dai nuclei atomici ad una velocità estrema, generando una catena di reazioni nucleari che portano alla formazione di elementi sempre più pesanti che poi vengono espulsi.

      La ricerca dimostra che, durante uno specifico evento, il brillamento gigante del 2004 di SGR 1806-20, una quantità stimabile attorno a 10⁻⁶ masse solari di materiale arricchito di elementi del processo r è stata espulsa.
      L’importanza di questa scoperta va ben oltre l’oro stesso. Se i magnetar fossero effettivamente responsabili di una frazione significativa della produzione di elementi pesanti (l’articolo stima un contributo del 1-10% per la nostra galassia), questo cambierebbe radicalmente la nostra comprensione dell’evoluzione chimica dell’universo. Poiché i magnetar esistevano già nelle prime epoche dell’universo, questa ipotesi apre la possibilità che una parte significativa dell’oro presente nelle stelle più antiche, formatosi poco dopo il Big Bang, provenga proprio da questi eventi altamente energetici.

      Dunque si pensa che la nube cosmica in cui si è formato il nostro sistema solare fosse molto ricca di questo elemento proveniente dallo spazio profondo e che poi, nel processo di solidificazione e raffreddamento della Terra, sia precipitato nel suo nucleo. Ma questa teoria – a prescindere dalla precisa natura della catastrofe astronomica che ha arricchito la nube cosmica – spiega compiutamente il motivo per cui abbiamo così tanto oro nel nostro pianeta?

      Un’abbondanza le cui ragioni non sono ancora chiare

      Una nube cosmica “arricchita” di oro  e metalli pesanti che vengono dalle stelle (a prescindere dal tipo di evento stellare catastrofico specifico) è coerente con la presenza di oro nel nucleo terrestre. Si stima che nel nucleo ci siano metalli preziosi in quantità sufficiente da coprire l’intera superficie della Terra con uno strato spesso circa quattro metri.

      Il mistero non ancora chiarito è perché l’oro sia presente anche nel mantello e nella crosta in quantità tanto abbondante. Nel mantello è decine o migliaia di volte di più del previsto. Anche sulla crosta terrestre c’è più oro di quanto elaborato dai modelli, pur tenendo in considerazione gli affioramenti dovuti ai fenomeni vulcanici e tettonici.

      Come spiegare allora tale abbondanza? Cosa può essere accaduto per portare così tanto oro e platino sul pianeta, anche negli strati meno profondi e superficiali?

      L’oro non viene solo dalle stelle, viene anche dagli asteroidi

      Si ritiene che poco meno di 4 miliardi di anni fa, quando il pianeta era ancora molto giovane, ci sia stato un immenso bombardamento di meteoriti, circa 20 miliardi di miliardi di tonnellate di materiale asteroidale si sono aggiunte alla Terra, arricchendola di oro e platino.

      A tale conclusione sono giunti un gruppo di ricercatori dell’università di Bristol, esaminando rocce molto antiche prelevate in Groenlandia, risalenti a dopo la formazione del nucleo ma prima del bombardamento asteroidale, riscontrando che la loro composizione non corrisponde a quella delle rocce successive.

      Questa differenza dimostrerebbe che la sovrabbondanza di oro, e altri metalli preziosi, sulla Terra potrebbe essere davvero frutto di un fortunato sottoprodotto del bombardamento di meteoriti.

      La teoria spiegherebbe anche la particolare composizione isotopica delle rocce lunari, la numerosità dei crateri lunari, che suggerisce l’esposizione a un lungo periodo di bombardamento meteorico avvenuto tra 4,1 e 3,8 miliardi di anni fa, anche se sulla datazione dei crateri lunari ci sono ancora significative incertezze. Alcuni modelli suggeriscono impatti più diffusi nel tempo, magari con asteroidi più grandi.

      La scoperta di corpi celesti quasi interamente costituiti d’oro sembra rafforzare la plausibilità di questa teoria.

      oro viene dalle stelle
      Asteroide 16 Psyche

      Ne è un esempio 16 Psyche, un asteroide del diametro di circa 200 km che si trova tra le orbite di Marte e Giove e che si ritiene essere prevalentemente metallico e in base agli studi spettroscopici e ai vari modelli basati sulle osservazioni astronomiche, potrebbe contenere immense quantità di oro, nichel e platino.

      Si teorizza che sia di classe M, cioè il nucleo (o parte di esso) di un protopianeta che non è riuscito a completare il processo di formazione, durante il quale ha dunque perso buona parte del suo mantello roccioso e la sua crosta.

      Ne sapremo di più nel 2029, quando la sonda Psyche della NASA lo raggiungerà.

      Sono noti almeno 300 asteroidi di tipo M, come 16 Psyche, in posizione relativamente vicina alla Terra, se davvero il loro contenuto d’oro e platino è così massiccio, immaginare che una serie di collisioni di corpi simili col nostro pianeta lo abbiano arricchito di tali metalli è un’ipotesi molto plausibile… ma è pur sempre una teoria, ancora oggetto di dibattito e ricerca.

      Fondamentalmente non possiamo dire – ad oggi – di aver ancora compreso il mistero dell’abbondanza dell’oro sul nostro pianeta. Notiamo, però, che la scienza in qualche modo conferma quanto già pensavano i nostri antichi antenati: l’oro è un dono dell’universo (viene dalle stelle) e un simbolo del suo enorme potere (si origina dalle esplosioni cosmiche più potenti).

       

      Le morti causate dal COVID-19 sono la metà

      morti per COVID-19

      Bastava un test positivo entro 30 giorni dal decesso perché si finisse tra le morti causate dal COVID-19, anche in assenza di sintomi.

      Un recente studio retrospettivo eseguito da un gruppo di medici degli ospedali greci, pubblicato su Nature, ha analizzato le cartelle cliniche di tutti i decessi ospedalieri classificati come morti causate dal CoVID-19, avvenuti in 7 ospedali di Atene dal 01 gennaio al 31 agosto 2022. In tutto sono state studiate 530 documentazioni cliniche.

      morti causate dal COVID-19
      I risultati del riesame, che ha incluso colloqui con i medici curanti, hanno stabilito che il 45,28% di queste morti (240 casi) non erano attribuibili e neanche correlabili al COVID-19. Per il 29,6% dei decessi (157 casi), il COVID-19 non era la causa principale ma ha contribuito alla catena di eventi che hanno portato alla morte. Infine solo il 25,1% delle morti (133 casi) era direttamente causato dal COVID-19.
      Tra i 240 pazienti deceduti “con” COVID, la principale causa di morte è stata la sepsi batterica/shock settico (105/240), seguita da polmonite ab ingestis (63/240), insufficienza renale acuta (10/240), ictus (15/240), insufficienza cardiaca (19/240) e tumori di organi solidi o ematologici (28/240).

      Dunque i dati ufficiali delle morti causate dal COVID-19 sono stati “gonfiati”, ma perché e come?

      Il Centro europeo per la prevenzione e il controllo delle malattie (ECDC) utilizza le linee guida emanate dall’Organizzazione mondiale della sanità (OMS), definendo a fini di sorveglianza come decessi attribuibili a COVID-19 tutti i decessi “derivanti da una malattia clinicamente compatibile in un caso probabile o confermato di COVID-19, a meno che non vi sia una chiara causa alternativa di morte che non può essere correlata alla malattia da COVID (es. trauma)”.

      Nel Regno Unito, Danimarca e in molti altri paesi (fra cui l’Italia), tutti i decessi per i quali è stato registrato un test PCR positivo al SARS-CoV-2 entro 30 giorni dalla data del decesso sono stati registrati come decessi causati dal COVID-19. Similmente anche in Grecia, bastava un tampone positivo alla SARS-CoV-2 al momento del decesso per essere classificato come morte per COVID-19.

      Questo tipo di classificazione ha “gonfiato” in modo significativo la mortalità associata all’epidemia SARS-CoV-2, alterandone anche la percezione pubblica.

      Analoghe revisioni dei dati sui decessi avvenute in Danimarca hanno mostrato che quasi il 40% dei casi classificati come morti per COVID-19 non hanno avuto il COVID-19 come effettiva causa del decesso. Analoghe distorsioni sono emerse in Svezia e in Cina.

      morti per COVID-19

      Nel suo libro “Covid: verità e libertà negate”, 2022, il dott. Mariano Amici ha insistito molto su questo aspetto, denunciando di come anche le persone con politrauma, decedute a seguito di incidente stradale, se positive al tampone (di cui ha messo in discussione l’affidabilità), venivano catalogate come morti causate dal COVID-19, falsando i dati e la “spaventosità” dell’epidemia.

      Morire con il Covid e morire a causa del Covid sono due situazioni molto diverse, ma le autorità hanno fatto finta che fossero la stessa cosa.

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      India e Pakistan: tensione altissima

      Venti di guerra fra India e Pakistan

      L’India schiera portaerei, sottomarini nucleari e missili nel Mar Arabico dopo il recente attentato di Pahalgam. I venti di guerra soffiano sempre più intensi fra India e Pakistan.

      Venti di guerra fra India e Pakistan
      Mar Arabico
      foto: 92bari

      Dopo gli attentati di aprile a Jammu e nel Kashmir, che hanno provocato la morte di numerosi civili e alcuni militari, la tensione tra Nuova Delhi e Islamabad sta salendo a livelli preoccupanti.

      L’India accusa il Pakistan di essere indirettamente responsabile degli attacchi per via dei legami tra l’intelligence pakistana ed il network di gruppi più o meno jihadisti che conducono da decenni l’insurrezione armata nelle zone del Kashmir sotto controllo indiano e che hanno le proprie basi nella parte di Kashmir amministrata dal Pakistan.

      La prima risposta indiana è stata l’espulsione dei cittadini pakistani e il blocco degli scambi commerciali, a cui è seguito l’annullamento del trattato che spartisce le acque del fiume Indo e dei suoi cinque grandi affluenti tra India e Pakistan, firmato 65 anni fa. Il Trattato delle acque dell’Indo era sopravvissuto a tre guerre, numerosi scontri militarizzati e innumerevoli atti di terrorismo transfrontaliero.

      Il primo ministro indiano Narendra Modi ha dichiarato: “Lo dico al mondo intero: l’India identificherà, perseguirà e punirà i terroristi e coloro che li sostengono, fino ai confini del mondo”.

      Il vicepremier e ministro degli Esteri del Pakistan, Ishaq Dar, da parte sua, ha invitato l’India a fornire prove concrete sul presunto coinvolgimento di Islamabad negli attacchi terroristici. “L’India ha ripetutamente giocato la carta delle accuse infondate. Se ha davvero prove del coinvolgimento del Pakistan, le condivida con noi e con il mondo intero”, ha dichiarato Dar durante una conferenza stampa tenuta dopo una riunione ad alto livello del Comitato per la sicurezza nazionale.

      Il Ministro dell’Informazione pakistano, Attaullah Tarar, ha dichiarato di avere informazioni affidabili di intelligence circa un imminente attacco militare indiano contro il Pakistan. “Qualsiasi atto di aggressione incontrerà una risposta decisa”, ha dichiarato Tarar, ritenendo l’India pienamente responsabile per le possibili, gravi conseguenze di una azione militare.

      Entrambe le nazioni stanno da tempo aumentando i rispettivi schieramenti lungo la linea di cessate il fuoco del 1971 che divide il Kashmir fra i due contendenti (un terzo pezzo è in mano alla Cina dal 1962).

      In virtù dello sgretolamento complessivo del sistema internazionale, a seguito della Guerra in Ucraina, con cui di fatto è stato “sdoganato” l’uso della forza come strumento per la risoluzione delle controversie internazionali sui confini, la possibilità di uno scontro armato fra le due potenze nucleari diventa sempre più probabile.

      In questo clima di alta tensione giunge la notizia che l’India ha schierato una forza navale colossale nel Mar Arabico, con portaerei, sottomarini nucleari e cacciatorpediniere. Le manovre – ufficialmente esercitazioni e test missilistici – hanno avuto inizio il 25 aprile e costituiscono un messaggio abbastanza esplicito.

      Venti di guerra fra India e Pakistan

       

      Perdiamo intelligenza: è declino cognitivo

      Perdiamo intelligenza: è declino cognitivo

      L’effetto Flynn inverso segnala il declino cognitivo della nostra civiltà. Perdiamo progressivamente intelligenza. Perché sta accadendo?

      L’inizio del nuovo millennio ha portato con sé una preoccupante inversione di tendenza nel panorama delle capacità cognitive umane: il declino del QI medio, un fenomeno noto come effetto Flynn inverso, che contraddice la crescita costante osservata per decenni, chiamata effetto Flynn. Quest’ultimo, descritto per la prima volta da James R. Flynn negli anni ’80, evidenziava un aumento medio di circa 3 punti di QI per decennio in molte nazioni industrializzate, a partire dal 1938 fino a circa il 1985. Questa crescita costante, osservata in diversi studi, ha portato a ipotizzare che fattori ambientali, come il miglioramento delle condizioni di vita e dell’alimentazione, giocassero un ruolo fondamentale nello sviluppo cognitivo.

      Dal 1938 al 1985 il quoziente di intelligenza medio è aumentato costantemente di circa 3 punti ogni 10 anni. Poi il fenomeno si è invertito e non si è più arrestato: è declino cognitivo.

       

      Perdiamo intelligenza: è declino cognitivo

      L’effetto Flynn inverso, invece, segnala un’inversione di tendenza. Studi condotti in Norvegia (Sundet et al., 2004), Danimarca (Teasdale & Owen, 2005) e Gran Bretagna (Flynn, 2009) hanno dimostrato un calo del QI medio a partire dagli anni ’90 e 2000. Diverse ipotesi sono state avanzate per spiegare questo fenomeno. Alcuni ricercatori hanno suggerito cause di natura disgenetica (Lynn & Harvey, 2008), ipotizzando un deterioramento del pool genetico legato all’intelligenza. Tale ipotesi, però, è stata successivamente confutata da studi che attribuiscono il declino a fattori ambientali (Bratsberg & Roberger, 2018).

      Altri studi focalizzano l’attenzione su fattori ambientali, tra cui l’aumento dell’uso di videogiochi e internet, a scapito di attività cognitive più stimolanti come la lettura e la scrittura (Bratsberg & Roberger, 2018). Un’altra ipotesi, non in contraddizione con le precedenti, sostiene che i test del QI, progettati decenni fa, potrebbero non essere più adeguati a misurare le capacità cognitive richieste dalla società contemporanea. Questi test, infatti, potrebbero non cogliere appieno le nuove competenze sviluppate in un mondo sempre più digitale e tecnologicamente avanzato.

      Il fattore trascurato

      C’è un fattore trascurato in tutto questo, sebbene non manchino i campanelli di allarme, lanciati persino dall’Università di Oxford, che segnala sempre minore capacità di lettura e attenzione dei suoi studenti, analogo problema è lamentato dalle università USA, dove gli studenti arrivano quasi incapaci di leggere testi lunghi e articolati. Le università italiane non sono in posizione migliore, e i docenti segnalano la mancanza delle minime basi linguistiche e culturali indispensabili per affrontare la complessità dello studio universitario. È il fenomeno che si chiama ‘analfabetismo funzionale’, cioè persone che nonostante l’istruzione formalmente ricevuta manifestano carenze importanti di conoscenza, preparazione generale, capacità linguistiche e matematiche.

      Perdiamo intelligenza: è declino cognitivo

      Eppure i programmi scolastici sono stati progressivamente semplificati, ridotti, diluiti, anche banalizzati, ma anziché ottenere una maggiore diffusione di una preparazione minima, resa più comprensibile (che presumibilmente era l’obiettivo) si è ottenuto un incremento dell’analfabetismo funzionale. Fino a giungere all’impensabile: studenti universitari che non solo non sono in grado di comprendere un testo universitario, ma non sanno neanche esprimersi in un italiano da scuola elementare.
      Di pari passo alla banalizzazione dell’apprendimento (e probabilmente strettamente connessa) c’è la semplificazione pervasiva del linguaggio.
      L’impoverimento del linguaggio, con la riduzione del vocabolario, la semplificazione grammaticale, l’eliminazione delle sfumature lessicali e semantiche, la scomparsa del congiuntivo, delle coniugazioni del futuro e del condizionale, giocano un ruolo fondamentale nel declino cognitivo.

      Meno parole, meno possibilità di coniugare i verbi implicano meno opzioni per esprimere le proprie emozioni ed i propri pensieri.

      Come costruire un pensiero complesso senza le parole per articolarlo?

      Come elaborare un pensiero ipotetico-deduttivo senza il condizionale che formuli l’ipotesi?

      Come immaginare un possibile futuro senza una opportuna coniugazione al futuro?

      Come descrivere una successione di elementi ed eventi nel tempo, se non c’è la possibilità di distinguere ciò che è stato da ciò che è e che sarà?

      Come immaginare ciò che avrebbe potuto essere se gli aventi avessero preso un corso diverso?

      Come teorizzare ciò che potrebbe accadere qualora si verificassero determinate condizioni?

      Non si possono formulare pensieri critici, complessi e sfumati in assenza di un vasto bagaglio linguistico che consenta di esprimerli. L’assenza espressiva comporta progressivamente anche una difficoltà comprensiva.
      È un po’ un circuito vizioso: più il linguaggio si semplifica e meno la mente è in grado di comprendere quello più complesso e avrà bisogno di una ulteriore semplificazione.
      Internet, che costituisce un immenso potenziale di sapere diffuso e accessibile, contribuisce all’impoverimento del linguaggio, con gli autori costretti a sottostare alle regole SEO che prevedono standard di leggibilità elementari: frasi corte, paragrafi brevi, poche forme passive, numerosi sottotitoli e riassunti, molte immagini e tante ripetizioni concettuali pur usando sinonimi e guai a stravolgere il canone narrativo imposto di mettere subito la frase chiave nel primo paragrafo… chi osa viene penalizzato dai motori di ricerca. Così soccombono anche i siti di divulgazione scientifica, se non vogliono smettere di essere trovati dagli utenti. Tutto il web appare come erano tanti anni fa i sussidiari dei primi tre anni delle scuole elementari.

      Sta scomparendo, drammaticamente sottovalutata anche nelle scuole, la scrittura a mano in corsivo, che richiede concentrazione, attenzione, memoria, presenza e pensiero analitico, tutte attività che affinano le capacità cognitive, a differenza della scrittura digitale, rapida, superficiale e facilmente modificabile. La versione social, poi, contribuisce ulteriormente all’appiattimento linguistico, perdendo completamente la punteggiatura e abusando delle maiuscole, fino a rasentare la totale incomprensibilità.

      L’uso smodato di dispositivi digitali, con le loro continue interruzioni e stimolazioni, contribuisce a ridurre la durata dell’attenzione, compromettendo la capacità di concentrarsi su compiti complessi e prolungati, come la lettura di testi impegnativi. Non solo la lettura ma anche la capacità di impegno mentale prolungato risultano compromesse.

       

      Perdiamo intelligenza: è declino cognitivo

      La semplificazione progressiva della scuola, dei libri di testo, dei tutorial, del linguaggio stesso, del modo di leggere e scrivere e dell’attenzione sono elementi attivi che non possono non influire sull’impoverimento della mente umana, limitando la capacità di pensiero complesso e critico.

      Il calo del QI medio, in questo contesto, non è un dato statistico asettico, ma un campanello d’allarme che segnala un pericoloso declino cognitivo, frutto di una progressiva e preoccupante semplificazione, che probabilmente è anche funzionale, perché somiglia troppo alle strategie di controllo del pensiero narrate da Orwell e Bradbury.

      Scoperta una gigantesca nube molecolare

      nube molecolare
      Rappresentazione artistica di Eos se fosse visibile ad occhio nudo nel cielo Composite image: NatureLifePhoto/Flickr (New York City Skyline), Burkhart et al.

      Un team internazionale di scienziati, guidato da un astrofisico della Rutgers University-New Brunswick, ha scoperto una nube molecolare, una delle strutture singole più grandi nel cielo e tra le più vicine al sole e alla Terra mai rilevate.

      Nube molecolare
      Posizione della nube molecolare Credit: Thomas Müller (HdA/MPIA) and Thavisha Dharmawardena (NYU)

      L’enorme formazione, fino ad ora sconosciuta e invisibile, è stata individuata con un approccio del tutto innovativo, cercando il suo costituente principale: l’idrogeno molecolare.

      Il nuovo approccio che ha permesso la scoperta della nube molecolare

      Le nubi molecolari sono composte da gas e polvere, la cui molecola più comune è l’idrogeno, il componente fondamentale di stelle e pianeti ed essenziale per la vita. La scoperta segna la prima volta che una nube molecolare è stata rilevata grazie alla luce emessa nello spettro ultravioletto lontano, usando i dati raccolti dal satellite coreano STSAT-1, munito dello spettrografo FIMS-SPEAR.
      Fino ad ora, infatti, la “caccia” alle nubi molecolari era avvenuta con le osservazioni radio e infrarosse, il che permette di rilevare facilmente la firma chimica del monossido di carbonio, componente abbastanza frequente di questo tipo di formazioni. Nella loro ricerca, invece, gli astrofisici hanno cercato e osservato direttamente l’emissione ultravioletta lontana dell’idrogeno molecolare.
      “Questo apre nuove possibilità per studiare l’universo molecolare”, ha affermato Blakesley Burkhart, professoressa associata presso il Dipartimento di Fisica e Astronomia della Rutgers School of Arts and Sciences, che ha guidato il team ed è autore dello studio. Burkhart è anche ricercatrice scientifica presso il Center for Computational Astrophysics presso il Flatiron Institute di New York.
      “I dati hanno mostrato molecole di idrogeno luminose rilevate tramite fluorescenza nell’ultravioletto lontano – ha spiegato la professoressa Burkhart – Questa nube sta letteralmente brillando nel buio dello spazio”.

      “Questa nube sta letteralmente brillando nel buio dello spazio”.

      Gli scienziati hanno chiamato la nube di idrogeno molecolare “Eos”, dal nome della dea greca della mitologia che è la personificazione dell’alba. La loro scoperta è descritta in uno studio pubblicato su Nature Astronomy.

      nube molecolare
      Rappresentazione artistica di Eos se fosse visibile ad occhio nudo nel cielo
      Composite image: NatureLifePhoto/Flickr (New York City Skyline), Burkhart et al.

      Eos che si trova a circa 300 anni luce dal nostro pianeta, non costituisce alcun pericolo per il sistema solare e la sua vicinanza, offre un’opportunità unica per studiare le proprietà di una struttura all’interno del mezzo interstellare.

      Il mezzo interstellare, costituito da gas e polvere che riempie lo spazio tra le stelle all’interno di una galassia, funge da materia prima per la formazione di nuove stelle.

      “Quando guardiamo attraverso i nostri telescopi, cogliamo interi sistemi solari nel momento in cui si stanno formando, ma non sappiamo nel dettaglio come ciò accada – ha detto Burkhart – La scoperta di Eos è entusiasmante perché ora possiamo misurare direttamente come si formano e si dissociano le nubi molecolari e come una galassia inizia a trasformare gas e polvere interstellare in stelle e pianeti”.

      Eos si trova ai margini della Bolla Locale, una grande cavità piena di gas nello spazio che comprende il sistema solare. Se fosse visibile ad occhio nudo nel cielo, avrebbe una dimensione apparente pari ad almeno 40 volte quella della luna. La sua massa è di circa 3.400 volte quella del sole. La nube in questione è una delle più grandi strutture mai trovate nel cielo che non siano una stella, un buco nero o una nebulosa. Si stima che sparirà fra circa 6 milioni di anni.

      “L’uso di questa tecnica potrebbe riscrivere la nostra comprensione del mezzo interstellare, scoprendo nubi nascoste in tutta la galassia e persino fino ai limiti più lontani rilevabili dell’alba cosmica”, ha affermato Thavisha Dharmawardena, borsista NASA Hubble presso la New York University e primo autore condiviso dello studio.
      Uno dei motivi per cui Eos non era mai stata individuata in precedenza è che è molto ricca di idrogeno molecolare ma assai povera di monossido di carbonio, pertanto risulta invisibile agli approcci tradizionali.

      Il comunicato stampa della Rutgers University-New Brunswick

      Video divulgato dai ricercatori.
      Credit: Thomas Müller (HdA/MPIA) and Thavisha Dharmawardena (NYU)

      Silicon Valley: declino arrestabile?

      Silicon Valley
      Veduta della Silicon Valley, foto di Coolcaesar Silicon Valley (inglese per «Valle del silicio») è un soprannome dato alla Valle di Santa Clara, nella California settentrionale a sud-est di San Francisco.

      Il declino della Silicon Valley nella produzione e assemblaggio dei computer e dell’hi-tech è arrestabile? L’idea di Trump di rilanciare il ruolo dominante degli USA in questo settore, è realisticamente fattibile? La risposta sembra essere negativa per entrambe le domande, secondo il famoso giornalista investigativo forense Yoichi Shimatsu, che ha articolato una sua riflessione, anche basata sulla sua esperienza diretta, in un recente intervento su Rense.

       

      Silicon Valley
      Veduta della Silicon Valley, foto di Coolcaesar
      Silicon Valley (inglese per «Valle del silicio») è un soprannome dato alla Valle di Santa Clara, nella California settentrionale a sud-est di San Francisco.

      I colossi tecnologici della Silicon Valley, abituati ad un ritmo di crescita (e profitti) che per un decennio è stato superiore a quello dell’intero PIL degli USA, hanno progressivamente perso miliardi di dollari. Il settore è entrato in una crisi sempre più profonda, aggravata dalla progressiva trasformazione degli USA da impero della produzione in impero dei consumi.

      Il sistema start up che avrebbe dovuto creare una nuova economia fatta da una moltitudine di business sostenibili e innovativi invece ha creato pochi colossi con una pessima performance economica.

      Varie sono le concause che hanno condotto a questa situazione, ma secondo Shimatsu i semi del fallimento affondano molto in profondità, erano presenti alla nascita.

      I semi del fallimento affondano molto in profondità e non sono risolvibili

      Fin dagli anni ’80 l’intero sistema trascurava problemi molto importanti quali dipendenti scontenti e sottopagati, disparità di trattamento dei lavoratori immigrati, sistemi produttivi altamente inquinanti, che contaminavano le falde acquifere, lamentele dei consumatori sulla propensione dei computer a bloccarsi con totale e irrecuperabile perdita dei dati. In alcuni casi tali eventi hanno determinato pesanti danni per gli utenti. Ma l’unica priorità rincorsa dai vari dirigenti, in quella fase, era esclusivamente “arrivare per primi”, superare i concorrenti. Dunque tali semi sono stati ignorati, se non insabbiati. Man mano che gli arresti del sistema procuravano danni, aumentavano le cause legali dei consumatori per i prodotti difettosi, spingendo gli investitori a stringere i cordoni delle borse e poi ad abbandonare la Silicon Valley.

      A questo punto iniziarono i fallimenti: Hewlett-Packard, IBM, Motorola, Burroughs, Commodore, Compaq, Control Data, DEC, Gateway, Gremlin, Univac, Zenith e molti altri meno noti, vittime, secondo Shimatsu, dell’ossessione americana per il profitto veloce in danno del cliente soddisfatto e fidelizzato.

       

      Michael Dell, foto di Village Global

      “Gli ultimi sopravvissuti se ne sono andati in fretta, trasferendo gran parte della loro produzione in Cina – dichiara Shimatsu e aggiunge – Tra questi, Michael Dell e Bill Gates, che come banditi in fuga hanno iniziato a spostare la produzione. I perdenti ostinati che sprofondavano in debiti inconcepibili, hanno venduto brevetti, copyright e segreti commerciali a chiunque al mondo potesse pagare”.

      Bill Gates
      Foto: Ricardo Stuckert Lula Oficial

      Un trasferimento produttivo a Shenzhen, Xiamen e Pechino che secondo Shimatsu ha salvato l’industria informatica dall’autodistruzione e gli utenti di tutto il mondo dal subire prodotti sempre più scadenti.

      Il trasferimento in Cina delel aziende della Silicon Valley  non è stato un’acquisizione ostile ma un’evoluzione volontaria

      “Quello straordinario trasferimento di progettazione e assemblaggio di computer leader nel mondo non è stato un’acquisizione ostile – precisa Shimatsu – ma un’evoluzione volontaria e anzi necessaria che ha trasformato computer «goffi» made in USA che si bloccavano regolarmente in laptop leggeri con un impressionante record di stabilità e una reputazione di essere esenti da arresti anomali. Quindi, Michael Dell e Bill Gates (e in seguito la leadership di Apple) hanno puntato sulla Cina come la piattaforma più stabile per produrre laptop affidabili a un prezzo accessibile, basata su costi di produzione bassi e affidabilità del prodotto.” L’ascesa della Cina nel settore, dunque, è da attribuire alla sua capacità di soddisfare ad un prezzo finale al dettaglio accessibile le richieste dei consumatori in termini di affidabilità e stile.
      Se gli USA hanno inventato e introdotto i computer compatti per il pubblico, ma non sono stati in grado di garantire la loro stabilità operativa, nel timore di sacrificare il profitto immediato. La meticolosità degli ingegneri e degli ispettori cinesi, i loro controlli qualità maniacali, soprattutto sui chip, e la loro lungimiranza hanno consentito di colmare tali lacune.

      Tentare di portare indietro l’orologio, richiamando in patria la produzione è operazione costosa (miliardi di dollari di fondi pubblici per incentivare il rientro produttivo) e destinata al fallimento, perché ci sono alcuni elementi che non possono essere creati ex novo, se assenti in una cultura che idolatra il guadagno rapido a qualsiasi costo, e sono proprio quelli ad aver garantito il successo cinese: il concetto di qualità totale, di non permettere a componenti scadenti di essere installati nei prodotti finiti al fine di garantire la soddisfazione del cliente, da cui deriva la rispettabilità aziendale e personale.

      Si tratta di fattori culturali che non possono essere impiantati con finanziamenti pubblici e persuasioni politiche e che sono completamente assenti anche dal sistema educativo. I semi del fallimento iniziale sono ancora lì.

      Bisogna accettare il cambiamento e guardare avanti, cercando di anticipare il futuro in ambiti dove lo spirito pionieristico americano può fare la differenza, aprire nuove strade all’innovazione.

      Tra i nostri antenati c’è anche “Dragon Man”

      Dragon Man

      Un cranio fossile rinvenuto in Cina e soprannominato Dragon Man (Uomo Drago) è probabilmente una nuova specie, l’Homo longi, e il parente più prossimo del Sapiens mai scoperto.

      Il cranio di Harbin, soprannominato Dragon Man, ci costringerà forse a sostituire dal nostro albero genealogico antico i parenti più prossimi, spodestando da tale ruolo i Neanderthal.

      Scoperto nel 1933 da un operaio durante la costruzione di un ponte ad Harbin, nella Cina nord-orientale, il reperto è stato gelosamente custodito per decenni, nascosto in un pozzo per sottrarlo all’esercito giapponese durante l’occupazione. Solo nel 2018, sul letto di morte, l’operaio rivelò ai suoi nipoti del tesoro occultato. A quel punto gli eredi lo hanno recuperato e poi donato al Museo di Geoscienze della Hebei GEO University, dove sono iniziati gli studi per capire di cosa si trattasse esattamente.

      Dragon Man
      il cranio di Harbin (Dragon Man), Foto: https://www.cell.com/the-innovation/fulltext/S2666-6758(21)00055-2

      L’analisi del reperto è stata pubblicata su The Innovation in quattro articoli distinti, che lavorano in sinergia in favore della sua classificazione come appartenente ad una nuova specie di homo: Homo longi. Il nome deriva dalla provincia di Heilong Jiang (che significa del drago nero) che include la zona del ritrovamento, analoga origine ha il soprannome “dragon man”, “uomo drago”.

      Il primo articolo presenta la scoperta e l’analisi del cranio fossile, suggerendo di collocarlo molto vicino all’Homo Sapiens. Il secondo articolo procede ad una descrizione dettagliata della morfologia cranica, analizzandone le dimensioni, la forma e le caratteristiche distintive, confrontandolo con altri fossili di ominidi. Il cranio è relativamente grande, con una capacità superiore a quella dell’Homo Sapiens. L’arcata sopraccigliare è marcatamente pronunciata, tipica degli ominidi arcaici, ma il profilo facciale è sorprendentemente moderno, con zigomi piatti e delicati che contraddicono la robustezza generale della struttura e un naso ampio. Ha un solo dente, il quale è munito di tre radici, anche questa è una caratteristica arcaica. L’assenza della mandibola rende difficile un paragone completo con altri fossili, così come la mancanza di altre ossa del corpo impedisce una stima della sua altezza in vita. Il cranio è grande, ma questo non basta a dire quanto fosse alto. L’analisi filogenetica, basata su un vasto database di oltre 600 caratteristiche di 95 crani di ominidi, posiziona comunque Dragon Man su un ramo evolutivo sorprendentemente vicino all’Homo Sapiens, più vicino addirittura dei Neanderthal.
      Il terzo articolo  si concentra sulla datazione, effettuata con tecniche geochimiche, che restituisce una stima di collocazione del fossile nel Pleistocene, in un lasso di tempo compreso tra 146.000 e 309.000 anni fa.
      Il quarto articolo, infine,  esamina le implicazioni della scoperta dell’ Homo longi per la nostra comprensione dell’evoluzione umana, soprattutto per l’Asia orientale, dove si sta delineando sempre più un quadro dinamico e complesso di coesistenza di diversi ominidi durante il Pleistocene, come conferma la scoperta di una notevole variabilità morfologica dentale  dei reperti rinvenuti in altri siti.

      Non tutti gli scienziati sono concordi con l’ipotesi di una nuova specie, perché potrebbe trattarsi di un appartenente ai Denisova, di cui al momento si hanno pochissime informazioni, fondamentalmente di tipo genetico, e rarissimi reperti frammentari. In tal caso non sarebbe di minore importanza, perché sarebbe il primo cranio e più grande reperto fossile rinvenuto di una specie di cui ignoriamo quasi tutto. Dragon Man è in ogni caso uno dei fossili più completi di cranio dei primi esseri umani mai scoperto e la sua importanza non è in discussione.

      In un intervento su Il Bo Live dell’Università di Padova Giorgio Manzi del gruppo di paleoantropologia della Sapienza di Roma, nel sottolineare l’importanza del reperto per la sua straordinaria conservazione, osserva le somiglianze fra Dragon Man e un altro reperto che viene da Dali (sempre in Cina), con cui condivide la morfologia arcaica.

      Dragon Man
      Ricostruzione del cranio dell’uomo di Dali (H. heidelbergensis) che mostra caratteristiche simili a “Dragon man” di Harbin, entrambi rinvenuti in Cina

      Anche l’analisi genomica sottolinea che l’evoluzione umana non è un semplice processo lineare, con specie che si susseguono in maniera ordinata. Piuttosto, è caratterizzata da una complessa rete di interazioni, ibridazioni e flussi genici tra diverse popolazioni di ominidi, come dimostrato dalla presenza di DNA Neanderthal e Denisoviano nel genoma umano moderno. La scoperta del cranio di Harbin si inserisce in questo quadro più complesso, mostrando un ulteriore tassello di questa storia intricata, la cui interpretazione è resa ancora più complessa dai flussi genici.

      Dragon Man ci offre un’immagine affascinante, ma ancora incompleta, del nostro passato. Ulteriori studi sono necessari, forse includendo analisi genetiche, per dipanare definitivamente gli enigmi che ci presenta e ricostruire con maggiore precisione la complessa saga della nostra evoluzione.

      Per rappresentare una possibile ricostruzione di Dragon Man è stato interpellato l’esperto brasiliano Cicero Moraes, che elaborando i dati espunti dalle ricerche scientifiche con tecniche di modellazione affidabili, ha fornito un risultato plausibile, per quanto con un certo grado di interpretazione artistica.

      Dragon Man

      Questo progenitore aveva una testa importante (una circonferenza di oltre 65 cm), più grande di ogni altro ominide fino ad oggi noto, probabilmente era anche di statura imponente (anche se non vi è certezza), e doveva avere un fisico molto robusto, per sopravvivere fino ad un’età stimata di circa 50 anni in condizioni climatiche molto rigide. Aveva caratteristiche facciali uniche per la forma squadrata delle orbite oculari e la mescolanza tra tratti arcaici e “moderni”, tuttavia era più vicino ai Sapiens degli altri “parenti” evolutivi noti.

      In questo senso si stanno orientando le ricerche, per indagare quanta prossimità abbiamo don Dragon Man.

      dragon man

       

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