Le prime tracce di sfruttamento dell’olivo in Italia da parte dell’uomo provengono dalla Sicilia e risalgono a 3700 anni fa, in piena età del Bronzo. La testimonianza è la più antica di tutto il mediterraneo dopo quella di Malta che risale a 5000 anni fa. A rivelarlo è uno studio pubblicato su Quaternary Science Reviews e condotto dalle università di Pisa, della Tuscia e Sapienza di Roma.
Le indagini hanno riguardato in particolare il sito di Pantano Grande, un’area paludosa vicino Messina.
Veduta di Pantano Grande, vicino Messina
I carotaggi eseguiti in questa zona hanno restituito una sequenza continua di sedimenti di circa 3700 anni.
L’analisi al microscopio ha rivelato quantità eccezionalmente elevate di polline di olivo già nella Media età del Bronzo, il che suggerisce una massiccia presenza di questi alberi e la loro possibile gestione attiva da parte delle popolazioni.
La ricerca ha stabilito che 3700 anni fa c’era una presenza intensiva di olivi, ma non può affermare con certezza che fosse una vera coltivazione.
Le evidenze analizzate in realtà non sono in grado di stabilire se gli alberi erano già domesticati (cioè selezionati per le loro varietà più produttive), ma la loro massiccia presenza suggerisce sicuramente una forma di intervento umano di agevolazione e stimolazione della propagazione e quindi di sfruttamento sistematico, non solo per la produzione di olio.
Il legno era utilizzato come combustibile o materiale da costruzione, e le foglie servivano come foraggio per gli animali. Non si può affermare che si trattasse di una vera e propria coltivazione, ma probabilmente era qualcosa di molto simile, con un apporto umano tale da generare un notevole squilibrio nella vegetazione naturale fra il XVIII ed il XII secolo a.C..
Evidenze simili sono state interpretate come coltivazione di olivi a Creta, Malta e in Sardegna. Anche in Italia continentale, l’aumento del polline di olivo è solitamente associato all’attività umana. Inoltre i ritrovamenti archeobotanici (legno carbonizzato e noccioli) supportano l’ipotesi dell’uso di olivi fin dal Neolitico in Sicilia e Italia meridionale. Residui di olio d’oliva in ceramiche dimostrano la sua lavorazione nel 3° e 2° millennio a.C.
La ricerca fornisce molte interessanti informazioni sulla storia della località in esame, che aiutano a gettar luce sul suo passato.
“lu Matusalemme”, uno degli ulivi monumentali più antichi d’Italia, che si stima abbia più di 1400 anni, si trova a Borgagne, nel Salento
Il XII secolo a.C. vede un drastico calo di polline di olivo a Pantano Grande, dopo l’eruzione del vulcano Etna, in concomitanza con migrazioni umane. Il dato è interpretato come abbandono delle terre e collasso del sistema locale, a seguito anche dell’arrivo di popoli dall’Italia peninsulare e del declino del sistema egeo-miceneo, che causò la distruzione di insediamenti e la migrazione verso zone più elevate. La vegetazione arborea, eccetto gli olivi, aumentò leggermente, coerentemente con un clima più umido.
Nel periodo greco (VIII-III secolo a.C.), nonostante un clima umido, si osserva una drastica riduzione del polline arboreo, aumentano gli indicatori di attività antropica ed erosione del suolo, ma il polline di olivo è quasi assente.
Nell’epoca romana (dal III secolo a.C. in poi), la coltivazione di olivi riprende, come confermato dalle analisi polliniche e dai ritrovamenti archeologici. Un calo di polline di olivo tra I secolo a.C. e I secolo d.C. è attribuito alle guerre civili. Un ulteriore calo nel III secolo d.C. potrebbe essere collegato a cambiamenti culturali e religiosi.
Nel tardoantico e nel medioevo (dal 450 al 700 d.C.), un clima umido favorì l’agricoltura cerealicola, mentre dopo il VII secolo d.C. si osserva un abbandono delle terre e un ritorno a macchia mediterranea, forse a causa delle incursioni saracene. Nel IX secolo d.C., dopo la conquista islamica, l’impatto antropico aumenta nelle zone costiere. Un periodo arido tra il X e il XIV secolo d.C. porta a un declino della vegetazione forestale.
“Il Dipartimento di Scienze della Terra dell’Ateneo pisano ha contribuito al recupero e alla datazione delle carote sedimentarie, alla validazione dei dati geochimici e all’interpretazione dei risultati alla luce dell’analisi paleoambientale e climatica del sito”, racconta la professoressa Monica Bini, coautrice dell’articolo insieme al collega Giovanni Zanchetta.
“Abbiamo adottato un approccio fortemente interdisciplinare per indagare l’evoluzione storica, ecologica e culturale degli olivi in Sicilia orientale – conclude Zanchetta – questa sinergia tra scienze naturali e discipline umanistiche ci ha consentito di ricostruire le dinamiche a lungo termine dell’interazione tra uomo e ambiente, evidenziando come fattori culturali, climatici e commerciali abbiano modellato il paesaggio olivicolo. L’espansione degli olivi non è spiegabile solo con condizioni ambientali favorevoli, ma è piuttosto il risultato di scelte antropiche, pratiche agricole, e reti di scambio che hanno attraversato i millenni”.
Noduli polimetallici fotografati nel 2015 sul fondale oceanico della stessa zona
Foto di Rov Kiel 6000, GEOMAR
È della Scottish Association for Marine Science la scoperta che i fondali oceanici producono ossigeno oscuro, così chiamato perché generato in totale assenza di luce.
L’ossigeno oscuro si chiama così perché viene generato in totale assenza di luce.
Fino a pochi anni fa si riteneva che l’ossigeno sul nostro pianeta fosse stato prodotto da primordiali organismi fotosintetici, cioè da qualcosa di vivo che sfruttava la luce del sole, ma due scoperte a distanza di breve tempo, hanno rivoluzionato questo dogma.
Nel 2023 gli scienziati dell’Università di Calgary hanno determinato che nelle falde acquifere di profondità viene prodotto ossigeno da batteri, in assenza di luce.
Nel 2024, una ricerca scozzese ha invece scoperto che i noduli polimetallici presenti nei fondali marini, producono ossigeno, in assenza sia di luce che di batteri, dimostrandoci anche che ci sono ancora molte cose che non sappiamo sui nostri oceani e sull’origine del nostro ecosistema.
I noduli polimetallici
Era noto che nei fondali oceanici vi fossero i noduli polimetallici, concrezioni minerali formate da strati concentrici di idrossidi di ferro e di manganese che circondano uno o più nuclei centrali.
Nodulo di manganese dal fondale dell’oceano pacifico Foto di User Koelle
Queste formazioni hanno dimensioni variabili, da particelle visibili solo al microscopio fino a grosse masse di più di 20 cm di diametro e la loro crescita è uno fenomeno geologico molto lento (un centimetro in milioni di anni). La loro distribuzione è molto variabile; in alcuni casi si toccano l’un l’altro e coprono più del 70% della superficie del fondale, in altri sono più distanziati. Si possono ritrovare a qualsiasi profondità, anche in laghi, ma i maggiori giacimenti sono stati individuati al di sotto dei 4.000 metri di profondità.
Poiché contengono anche litio, rame, manganese e cobalto, materiali che vengono impiegati nella costruzione di batterie, questi agglomerati hanno da tempo destato l’interesse dell’industria estrattiva.
Queste concrezioni minerali, ricche di metalli preziosi, sono oggetto di crescente interesse da parte dell’industria estrattiva.
La Scottish Association for Marine Science effettuava studi oceanici nel Pacifico nella zona di Clarion-Clipperton (CCZ), dove i sondaggi hanno da tempo rilevato la presenza di enormi giacimenti di noduli polimetallici. Utilizzando esperimenti in situ con camere bentoniche, i ricercatori si aspettavano un “normale” calare della concentrazione di ossigeno dovuto all’attività di organismi che vivono in profondità, e invece hanno rilevato il contrario. La concentrazione di ossigeno aumentava in modo significativo. I test sono stati ripetuti con l’aggiunta di cloruro mercurico che uccide i microrganismi noti in grado di produrre ossigeno, andando ad escludere l’esistenza di un fattore “organico”. La conclusione è stata quindi che sono proprio i noduli polimetallici presenti nel fondale oceanico a produrre l’ossigeno. La produzione di ossigeno oscuro è stata osservata in più esperimenti e in diverse località della zona di Clarion-Clipperton (CCZ).
Noduli polimetallici fotografati nel 2015 sul fondale oceanico della stessa zona Foto di Rov Kiel 6000, GEOMAR
Batterie naturali nei fondali oceanici
Si teorizza che i noduli polimetallici siano geo-batterie, in grado di produrre energia dalla differenza di potenziale tra ioni metallici all’interno degli strati dei noduli, portando a una ridistribuzione interna degli elettroni. Tale energia attiverebbe il processo elettrolitico dell’acqua del mare, producendo da essa ossigeno e idrogeno.
La scoperta dell’ossigeno oscuro prodotto dai fondali oceanici del nostro pianeta ha implicazioni significative per gli ecosistemi abissali e per la comprensione dell’evoluzione dell’ossigeno sulla Terra. “Potenzialmente abbiamo scoperto una nuova fonte naturale di ossigeno – ha detto Andrew K. Sweetman, a capo del gruppo di ricercatori – Quanto sia pervasiva nel tempo e nello spazio, non lo so. Ma è qualcosa di molto, molto interessante”.
Ubicazione della zona di Clarion-Clipperton (CCZ) nell’Oceano Pacifico
Implicazioni e interrogativi
Al momento non è chiaro quanto sia estesa e importante tale produzione di ossigeno su scala mondiale e come queste geo-batterie sul fondale marino abbiano inciso sulla formazione della vita sul nostro pianeta, ma è di tutta evidenza che questa scoperta meriti approfondimenti e soprattutto esorti alla cautela prima di andare a stravolgere il delicato equilibrio oceanico con attività estrattive dei noduli polimetallici, per sfruttare le potenzialità minerarie dei fondali.
In precedenza una ricerca effettuata dall’Università di Calgary ha scoperto che le falde acquifere del sottosuolo contengono molti microbi del tipo Archaea che producono metano e soprattutto grandi quantità di ossigeno disciolto, di origine biologica, prodotto da questi stessi microrganismi.
L’ossigeno, dunque, essenziale per la vita della maggior parte degli esseri viventi della Terra, e che compone il 20,8% della nostra atmosfera, non è prodotto soltanto in superficie, per interazione con il sole, ma in altri modi e ambienti, privi di luce e – nel caso dei fondali oceanici – in assenza di forme di vita fotosintetiche.
Che ruolo ha avuto l’ossigeno oscuro, per la stabilizzazione dell’ossigeno nella nostra atmosfera? E qual è il suo ruolo attuale nel nostro ecosistema? Quanto ne viene prodotto su scala mondiale? Sono domande aperte che esortano a ulteriori ricerche e approfondimenti.
La scoperta è di estremo interesse anche sul piano astronomico, perché ha implicazioni sulla geologia planetaria.
Ricostruzione artistica e vista reale dello scavo a Nahal Zohar. Judean Desert Survey Unit, Israel Antiquities Authority
Nel deserto della Giudea, zona a nord del Nahal Zohar, gli archeologi dell’Autorità israeliana per le Antichità hanno scoperto un edificio sovrastato da una struttura piramidale risalente al III secolo a.C. circa. Costruita durante il periodo ellenistico, sotto il dominio tolemaico, la struttura sorge in prossimità di una più antica stazione di sosta.
Foto: Judean Desert Survey Unit, Israel Antiquities Authority.
“Uno degli scavi archeologici più ricchi e intriganti mai scoperti nel deserto della Giudea. – hanno affermato i direttori degli scavi Matan Toledano, Eitan Klein e Amir Ganor – Alta circa 6 metri, la struttura piramidale è costruita con pietre tagliate a mano, ciascuna del peso di centinaia di chili”.
Non è una vera e propria piramide ma un edificio con un cumulo di enormi pietre sulla cima che gli conferisce un aspetto piramidale.
Ricostruzione artistica e vista reale dello scavo a Nahal Zohar. Judean Desert Survey Unit, Israel Antiquities Authority
Il Nahal Zohar è un torrente nel deserto giudaico meridionale e la struttura piramidale fu eretta dopo la conquista della regione da parte di Alessandro Magno. Scavata per la prima volta dalla sua scoperta negli anni ’50, si è rivelata essere un edificio quadrato con un cumulo di pietre sulla cima che gli conferisce un aspetto piramidale.
Al di sopra della struttura piramidale vi è una sepoltura di epoca romana
Al di sopra della struttura piramidale vi era una tomba profanata in antichità, ma molto più recente rispetto all’edificio sottostante. Non si esclude l’ipotesi che nel riuso del sito come sepoltura, i blocchi siano stati alterati accatastandoli e conferendo loro l’aspetto piramidale. Questo dettaglio apre nuovi interrogativi. Chi è stato sepolto proprio in quel punto in epoca romana? Un importante dignitario o semplicemente qualcuno che amava la vista panoramica?
L’edificio sottostante la struttura piramidale
L’edificio, di 11×11 metri, conservato fino a un’altezza di 6,5 metri, è stato eretto con blocchi monumentali, ciascuno del peso di diversi quintali. All’interno, gli archeologi hanno scoperto travi di legno, che potrebbero aver separato i piani interni, frammenti di mobilio, frammenti di papiri su cui sono state identificate lettere in greco e in aramaico e delle monete. La comparsa di papiri scritti in greco è particolarmente rivelatrice. Sebbene siano ancora in fase di studio, il loro contenuto potrebbe far luce su pratiche fiscali o transazioni commerciali. Documenti di questo tipo sopravvivono raramente al di fuori dell’Egitto, e il loro ritrovamento nel deserto di Giudea è una vera rarità.
Frammento di papiro con caratteri greci. Judean Desert Survey Unit, Israel Antiquities Authority
Sono state soprattutto le monete a far datare l’edificio al periodo ellenistico. Ce ne sono alcune coniate sotto Antioco IV Epifane, re dell’Impero Seleucide dal 175 al 164 a.C., periodo durante il quale terminò la tolleranza religiosa nei confronti degli ebrei della Giudea ed ebbe inizio un periodo di repressione e rivolte. Questo attesta che il sito sia stato in uso per molto tempo. Mobili, utensili e tessuti mostrano una mescolanza di stili greci e orientali, suggerendo una presenza diversificata e interazione culturale.
Probabilmente era un avamposto militare con funzioni amministrative
La presenza di alcuni oggetti identificati come armi induce a considerare l’ipotesi che l’edificio sia stato un avamposto militare. Sappiamo che in epoca tolemaica furono fondate numerose città-stato con funzioni militari e amministrative. Alcune erano “cleruchie”: colonie in cui soldati greci in pensione ricevevano terre e si integravano con le popolazioni locali. È possibile che questo punto elevato sulla rotta del Mar Morto avesse una doppia funzione: proteggere il passaggio delle carovane e fungere da punto di controllo fiscale.
A circa 50 metri dalla struttura è stata identificata una stazione di posta lungo quella che era un’antica rotta commerciale che dal Mar Morto raggiungeva Arad, Gerusalemme e Gaza. Il caravanserraglio presentava un complesso quadrato di circa 30 x 30 metri, con camere costruite attorno a un cortile centrale.
L’area di scavo. Judean Desert Survey Unit, Israel Antiquities Authority.
Lo scavo fa parte di un progetto più ampio, avviato otto anni fa, che ha già esplorato 180 chilometri di scogliere nel deserto, scoprendo circa 900 grotte e migliaia di reperti rari – rotoli, monete, utensili e papiri. Tra le scoperte più interessanti si annoverano un cesto intrecciato che ha più di 10.000 anni, spade romane in condizioni quasi perfette e il corpo di un bambino sepolto 6.000 anni fa.
Al di là dell’importanza scientifica, questo scavo è diventato anche un modello di partecipazione cittadina e di utilizzo della tecnologia applicata al patrimonio. Il progetto ha coinvolto centinaia di volontari, da studenti a pensionati, che hanno lavorato a fianco degli archeologi, scoprendo ogni giorno nuovi frammenti di storia.
Uno studio giapponese rivela la persistenza della proteina spike dei vaccini mRNA nei tessuti cerebrali mesi dopo la vaccinazione, sollevando preoccupazioni sulla sicurezza a lungo termine.
Un gruppo di neurologi giapponesi che ha analizzato alcuni casi di emorragia cerebrale avvenuti tra il 2023 ed il 2024, per investigare la presenza a lungo termine della proteina spike di SARS-CoV-2, esaminando la sua potenziale associazione con la vaccinazione a mRNA. Ha scoperto nel cervello la presenza della proteina Spike dei vaccini mRNA proteica anche dopo 17 mesi dalla vaccinazione, anche in casi in cui il paziente non aveva contratto la malattia da SARS-CoV-2.
Lo studio ha analizzato retrospettivamente un totale di 19 casi di ictus emorragico dal 2023 al 2024. È stata eseguita una colorazione immunoistochimica per la proteina spike e la proteina nucleoproteina di SARS-CoV-2 sui campioni di tessuto. L’ibridazione in situ è stata condotta in alcuni casi selezionati per confermare l’origine dell’espressione della proteina spike (vaccino o infezione virale). La storia vaccinale e lo stato di infezione da SARS-CoV-2 sono stati documentati per tutti i casi.
L’espressione della proteina spike è stata rilevata nel 43,8% dei pazienti vaccinati, prevalentemente localizzata nella tunica intima delle arterie cerebrali, anche fino a 17 mesi dopo la vaccinazione.
Sebbene non siano state identificate alterazioni infiammatorie attive, è stata osservata un’infiltrazione di cellule positive per i marcatori dei linfociti CD4, CD8 e CD68 nei vasi positivi per la proteina spike. L’ibridazione in situ ha confermato la presenza sia di mRNA derivato dal vaccino che di mRNA derivato dal virus SARS-CoV-2, che codificano per la proteina spike, in alcuni casi selezionati. Degna di nota è la presenza della proteina spike osservata esclusivamente nelle pazienti di sesso femminile (P = 0,015). Nessuno dei casi ha mostrato positività alla proteina nucleoproteina, a sostegno dell’assenza di infezione virale attiva.
Sebbene la possibilità di espressione della proteina spike dovuta a un’infezione asintomatica da SARS-CoV-2 non possa essere completamente esclusa, questo studio ha dimostrato la presenza prolungata di proteina spike dei vaccini mRNA nelle arterie cerebrali a seguito della vaccinazione. Inoltre, è stata osservata un’infiltrazione di alcune cellule infiammatorie nei vasi positivi per la spike. Queste scoperte sollevano preoccupazioni significative riguardo alla biodistribuzione dei vaccini a base di nanoparticelle lipidiche e alla loro sicurezza a lungo termine. Sono urgentemente necessarie repliche globali di questo studio per convalidare questi risultati e garantire valutazioni complete della sicurezza dei vaccini a mRNA.
Sebbene ictus trombotici o emorragici a seguito della vaccinazione con mRNA di SARS-CoV-2 non siano stati osservati durante gli studi clinici di fase 2-3, sono stati segnalati diversi casi di tali ictus dopo un uso clinico diffuso. Queste segnalazioni sono principalmente limitate a complicanze precoci che si verificano entro circa un mese dalla vaccinazione.
È stato riscontrato un caso in cui la proteina spike di SARS-CoV-2 è stata rilevata tramite colorazione immunoistochimica nei campioni di tessuto cerebrale ottenuti durante un intervento chirurgico da un paziente che presentava una forma atipica di emorragia cerebrale diversi mesi dopo la vaccinazione, nonostante nessuna storia di infezione da SARS-CoV-2. Questa osservazione ci ha spinto a raccogliere retrospettivamente e prospetticamente campioni di tessuto da pazienti con ictus emorragico per studiare l’espressione della proteina spike e la sua potenziale associazione con la vaccinazione, l’infezione da SARS-CoV-2 e la patogenesi dell’ictus emorragico.
Lo studio ha incluso diciannove casi. Di questi, 10 erano emorragie intracerebrali, 6 emorragie subaracnoidee, 2 emorragie dovute a malformazioni artero-venose e 1 emorragia dovuta a malformazione cavernosa. L’età media era di 58,9 (±18,9) anni, con una predominanza di pazienti di sesso femminile (14 casi, 73,7%). Sedici pazienti avevano ricevuto un vaccino a mRNA, mentre tre no. Tra i 16 pazienti vaccinati, il numero mediano di vaccinazioni era 4 e il tempo medio dall’ultima vaccinazione all’intervento chirurgico era di 10,8 (±6,8) mesi.
Uno dei casi riguarda una donna di 72 anni che ha fatto 7 vaccinazioni contro SARS-CoV-2 senza aver mai contratto l’infezione da virus. Ha avuto un’emorragia intracerebrale nel lobo temporale sinistro per la quale è stata sottoposta a intervento chirurgico di rimozione di coaguli. In tale occasione sono stati prelevati campioni dall’area circostante l’emorragia. Gli esami hanno riscontrato la presenza della proteina spike dei vaccini mRNA nella tunica intima e nella muscolatura liscia del vaso sanguigno.
Lo studio ha rivelato che la proteina spike derivata dal vaccino a mRNA è stata espressa nella tunica intima delle arterie cerebrali in pazienti con ictus emorragico, anche 17 mesi dopo la vaccinazione.
La relazione tra ictus emorragico e l’espressione della proteina spike rimane poco chiara, poiché i campioni escissi non provenivano dalle lesioni emorragiche stesse e non c’era evidenza chiara di vasculite attiva, ma è stata osservata l’infiltrazione di alcune cellule infiammatorie nei vasi positivi per la proteina spike. A nostra conoscenza, questo è il primo rapporto di questo tipo a livello mondiale.
Il meccanismo riportato dell’ictus ischemico ed emorragico dovuto alla proteina spike di SARS-CoV-2 è che la proteina spike di SARS-CoV-2 è stata implicata nella rottura dell’integrità della barriera emato-encefalica attraverso l’attivazione di RhoA, contribuendo potenzialmente a complicanze neurologiche nei pazienti con COVID-19. Il legame del virus ai recettori dell’enzima di conversione dell’angiotensina 2 (ACE2) può portare a una regolazione anomala della pressione sanguigna, aumentando il rischio di ictus emorragico. La coagulopatia associata a COVID-19, caratterizzata da elevati livelli di D-dimero e marcatori infiammatori, può predisporre i pazienti sia a ictus ischemici che emorragici. L’infezione può indurre uno stato di ipercoagulabilità, compromettere la funzione endoteliale e innescare una risposta infiammatoria, aumentando complessivamente il rischio di ictus.
L’ipotesi che emerge è che la Spike induca l’ictus emorragico
Sebbene lo studio non abbia rivelato un’infiltrazione di cellule infiammatorie che suggerisca una vasculite attiva nella tunica intima, sono state osservate infiltrazioni di cellule T positive per CD4 e cellule positive per i marcatori dei linfociti CD68 nella tunica intima, così come infiltrazioni di cellule positive per i marcatori dei linfociti CD8 nella tunica avventizia. Ciò potrebbe essere dovuto al fatto che il campione è stato prelevato dai tessuti cerebrali circostanti piuttosto che dal punto emorragico stesso. Pertanto, ipotizziamo che l’espressione della proteina spike attivi l’immunità delle cellule T, portando all’ictus emorragico.
Studi recenti hanno esplorato la biodistribuzione dei vaccini a mRNA SARS-CoV-2 negli esseri umani. L’mRNA associato al vaccino è stato rilevato nel sangue per almeno 15 giorni dopo la vaccinazione, con alcuni studi che ne riportano la presenza fino a 28 giorni. Tuttavia, la biodistribuzione dei vaccini a mRNA SARS-CoV-2 nei tessuti corporei rimane poco conosciuta.
Le nanoparticelle lipidiche, che incapsulano l’mRNA,possono attraversare barriere fisiologiche come la barriera emato-encefalica e la barriera emato-placentare. Inoltre, ricerche recenti hanno esaminato la biodistribuzione e la trasferibilità dei vaccini SARS-CoV-2 ai tessuti umani. Sono state sollevate preoccupazioni riguardo a potenziali reazioni infiammatorie autoimmuni nei tessuti differenziati terminalmente come il cuore e il cervello, innescate dalla produzione in situ di proteine spike. Casi clinici hanno documentatoencefalite necrotizzante multifocale e miocardite, nonché infiammazione multiorgano fatale a seguito della vaccinazione contro SARS-CoV-2. Questi effetti avversi sono stati segnalati prevalentemente entro un mese dalla vaccinazione.
Lo studio giapponese ha rivelato che i vaccini a mRNA modificati con nanoparticelle lipidiche potrebbero indurre la produzione di proteine spike nelle pareti dei vasi del cervello, persistendo più a lungo di quanto previsto. Il comportamento effettivo dei vaccini a mRNA all’interno del corpo umano potrebbe differire da quanto si credeva e ipotizzava.
Ciò solleva preoccupazioni significative riguardo alla biodistribuzione dell’mRNA incapsulato in nanoparticelle lipidiche e al potenziale di eventi avversi a lungo termine. Inoltre, la notevole presenza di proteina spike negli individui vaccinati e l’infiltrazione di alcune cellule infiammatorie osservata nei vasi positivi per la proteina spike, in particolare nelle donne, evidenzia potenziali differenze di sesso nella risposta al vaccino.
Fonte:
Ota N, Itani M, Aoki T, Sakurai A, Fujisawa T, Okada Y, Noda K, Arakawa Y, Tokuda S, Tanikawa R. Expression of SARS-CoV-2 spike protein in cerebral Arteries: Implications for hemorrhagic stroke Post-mRNA vaccination. J Clin Neurosci. 2025 Apr 3;136:111223. doi: 10.1016/j.jocn.2025.111223. Epub ahead of print. PMID: 40184822.
Può un trauma emotivo, o un’esperienza negativa, essere trasmesso da genitore a figlio? La scienza se lo domanda seriamente.
«I genitori mangiano l’uva acerba e ai figli rimane la bocca amara». (Ezechiele, 18)
«Il suo sangue ricada su di noi e sui nostri figli» (il Vangelo secondo Matteo. 27,25)
Che una colpa ricada da genitori a figli è un concetto fortemente radicato nelle religioni e nelle filosofie da sempre, così come è un dato certo per le tradizioni popolari che “gli spaventi”, cioè i traumi emotivi, si trasmettano dalla madre ai figli.
Ne era fortemente convinto lo psicologo tedesco Bert Hellinger, che nel 1980 mise a punto la sua teoria e metodologia delle “Costellazioni familiari sistemiche”. Hellinger riteneva che la nostra vita e la nostra salute individuale sia spesso condizionata da destini e sentimenti “ereditati” dal sistema famiglia e che sia possibile portare alla luce e “ripulire” tali strascichi con una rappresentazione della scena, in cui gli “attori” che impersonano i vari personaggi vanno inconsciamente a ricreare la dinamica che origina il problema. Chi ha modo di assistere o partecipare ad una di queste rappresentazioni si rende subito conto che emergono dettagli che nessuno dei presenti può sapere e che spesso erano ignoti anche alla persona per cui è in svolgimento la costellazione.
«Mio nonno ha combattuto nella seconda guerra mondiale. Io ho avuto un attacco di panico durante la puntata finale della mia serie televisiva preferita.» (Matt Donaher)
Ma c’è un qualche fondamento scientifico?
La sorprendente risposta è sì. Anche la scienza (che ha deriso Bert Hellinger) sta giungendo a conclusioni simili: un trauma emotivo può essere trasmesso da genitore a figlio. Una serie di recenti progressi nel campo degli studi di epigenetica ci ha fatto scoprire che in risposta ad influenze ambientali, come gravi traumi e stress, avvengono modifiche nel nostro DNA. Figli concepiti dopo tali alterazioni, dunque, ricevono ovviamente un’eredità genetica diversa rispetto a quelli concepiti prima. L’epigenetica studia, tra le altre cose, come i geni si “spengono” e si “accendono”. Il processo molecolare, noto come espressione genica, potenzia l’attività di alcuni geni e ne silenzia altre, aggiungendo e rimuovendo “etichette” chimiche, chiamate gruppi metilici, ai geni. Diversi studi hanno suggerito che questo potrebbe essere un meccanismo attraverso il quale il trauma di un genitore possa essere impresso nei geni della prole, producendo effetti epigenetici multigenerazionali.
La ricerca di Rachel Yehuda, professore di psichiatria e neuroscienze del trauma al Mount Sinai di New York, individua un piccolo segnale epigenetico che indica come un’esperienza che ti ha cambiato la vita modifica anche l’epigenoma.
L’epigenoma dirige il genoma allo stesso modo in cui un sistema operativo stabilisce cosa debba fare un computer. L’epigenoma cambia in ogni momento della nostra vita, in ogni nostra cellula, in base alle esperienze che viviamo, determinando quali geni attivare e quali disattivare. Rachel Yehuda ha scoperto anche un marchio epigenetico nei sopravvissuti all’Olocausto e nella loro prole, assente in famiglie ebree che non avevano subito la stessa esperienza traumatica. Uno studio del 2019 condotto su veterani australiani della guerra del Vietnam fornisce ulteriori indizi su come il trauma trascenda le generazioni. Gli studiosi hanno trovato differenze di metilazione fra il DNA incapsulato nello sperma dei veterani che soffrono di disturbo da stress post traumatico rispetto al DNA di coloro che non ne soffrono. Hanno anche riscontrato che tali differenze erano collegate alle condizioni di salute mentale diagnosticate nei figli dei veterani.
Una serie di esperimenti sui topi ha dimostrato che le esperienze negative vengono trasmesse geneticamente per più generazioni, dalle tre alle cinque in base al tipo di trauma. Anche l’esposizione ad una sostanza tossica ha la capacità di trasmettere conseguenze negative su generazioni successive, anche non mostrando effetti su quella che ha subito l’esposizione. Altri studi, sempre sui topi, hanno rilevato come un ambiente piacevole e privo di stress è in grado di alleviare il trauma e riportare l’epigenoma al suo stato naturale anche nella prole. E questa è una buona notizia.
Dunque anche la scienza sta lentamente riscontrando che un trauma emotivo può essere trasmesso alle generazioni successive, che è quello che molte filosofie sostengono da tempo: i nostri comportamenti e le nostre reazioni al presente, potrebbero essere influenzati da eventi accaduti in passato, non solo nella fase prenatale, dell’infanzia e dell’adolescenza, ma anche attinenti ai nostri antenati, mediante la “memoria genetica”.
Dalla teoria alla pratica
«In base alla nostra esperienza sul campo, possiamo affermare con certezza che il nostro modo di vivere le relazioni amorose, il nostro rapporto con noi stessi e con l’altro sesso risentono pesantemente della memoria generazionale» affermano Gloria Di Capua e Maurizio Lambardi, coach e counselor relazionali, famosi per il loro programma integrato di crescita personale e relazionale. «Oltre al condizionamento sociale e ambientale e alla trasmissione educativa diretta e indiretta, questo fattore è presente molto più spesso di quanto si possa pensare – precisa Gloria Di Capua – A volte i nostri clienti mostrano risposte emotive e reazioni potenziate che non trovano spiegazione fino a quando una costellazione sistemica fa emergere l’informazione traumatica ereditata». «Anche limitandosi a considerare poche delle generazioni che ci hanno preceduto – interviene Maurizio Lambardi – comprendiamo subito che i nostri nonni e bisnonni hanno affrontato due guerre mondiali, epidemie, carestie, crisi economiche e difficoltà di sopravvivenza che per noi sono anche difficili da immaginare. Hanno vissuto tragedie che li hanno profondamente traumatizzati e che arrivano a noi anche geneticamente, oltre che in forma di condizionamento diretto e indiretto. Ma è un circuito che si può interrompere con strumenti di consapevolezza e trasformazione. Le costellazioni familiari sistemiche sono sicuramente uno strumento efficace e non è un caso che lo abbiamo adottato nel nostro programma. Funzionano davvero.»
E dunque è in nostro potere fare qualcosa per andare a liberarci delle nostre “maledizioni generazionali”.
«Le sofferenze familiari, come gli anelli di una catena, si ripetono di generazione in generazione finché un discendente acquista consapevolezza e trasforma la sua maledizione in una benedizione.»
(La danza della realtà, Alejandro Jodorowsky)
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Rosemary nasce in una famiglia ricchissima e potente
Rosemary nel 1938
Questa è la storia di Rosemary. Una ragazza nata più di un secolo fa, terza di nove figli e prima femmina di una famiglia ricchissima e molto potente. Il papà era un politico, diplomatico, imprenditore e produttore cinematografico americano di origini irlandesi, la mamma era figlia del sindaco di Boston e discendente da parte paterna dei duchi di Limerik e conti Desmond.
Una nascita difficile che comporta qualche problema
La storia di Rosemary inizia male fin dalla nascita: l’infermiera la trattiene in utero per due ore, bloccando il parto e lasciandola in debito di ossigeno. Per aspettare il dottore.
Era il 1918, settembre, e la mamma di Rosemary era in travaglio, ma il dottore era in ritardo, così l’infermiera che l’assisteva ritardò il parto di due ore, stringendo il canale uterino e bloccando la testa della bimba, che restò in debito di ossigeno. La bambina ebbe come conseguenza un leggero ritardo mentale nell’apprendimento, ma nessuna grave disabilità.
Dalle pagine dei diari di Rosemary emerge infatti il ritratto di una ragazzina piena di gioia, esuberante, intelligente, molto sensibile e un po’ irrequieta. Soprattutto priva di evidenti disturbi mentali. Il lieve ritardo nell’apprendimento è probabilmente dovuto ad una lieve dislessia, che ha richiesto il supporto di insegnanti di sostegno durante infanzia e adolescenza.
Vittima dei pregiudizi dell’epoca
Per la mentalità dell’epoca la dislessia era una malattia mentale. Rosemary cambia molte scuole, perché è irrequieta e ha sbalzi d’umore, cosa più che normale per un dislessico costretto a stare in un contesto scolastico che non conosce e non rispetta i suoi tempi e le sue modalità di apprendimento specifiche. Comunque la bambina apprende a leggere e scrivere e a 15 anni i suoi diari mostrano una capacità di scrittura mediamente associabile ad una ragazza di 10 anni.
In quegli stessi diari Rosemary scrive che adora il suo papà e che sarebbe disposta a fare qualsiasi cosa per lui. Quello stesso papà che la descrive come sofferente e ritardata e che la sottopone a costanti cure sperimentali per risolvere i suoi “squilibri ormonali”.
Nel frattempo Rosemary cresce e diventa una bella ragazza, una bellezza che il padre definisce “troppo provocante”. Ingenua e con tanta voglia di divertirsi, Rosemary “cambia molti fidanzati”, quindi ha un’immagine sessualmente promiscua, pericolosamente disinibita e scandalosamente libera.
La famiglia la definisce ritardata mentale, ma la ragazza non lo è affatto. I diplomi conseguiti e i suoi viaggi in Svizzera, da sola, non parlano di ritardo mentale ma di voglia di vivere.
Il padre la rinchiude in convento, ma lei di notte scappa e cerca le luci e la vita della città. Questo le rovina la reputazione e la espone al rischio che qualcuno si approfitti di lei, che faccia sesso, che resti incinta e che copra così la famiglia di vergogna. Bella, provocante, ingenua e con tanta voglia di libertà: elementi che rendono il padre preoccupatissimo. Se neanche il convento è risolutivo, come può salvarsi da l’onta che questa figlia rischia di gettare su di loro? La storia di Rosemary sta per raggiungere il suo capitolo più triste.
La soluzione al “problema gravissimo”: la lobotomia
Siamo alla fine degli anni ’30, l’America è molto “bacchettona” e patriarcale, la mamma di Rosemary è fervente cattolica e molto conservatrice, il papà lo è ancora di più, ed è estremamente in vista come politico, diplomatico ed imprenditore. Questa figlia scandalosa è un problema gravissimo.
La soluzione arriva nel 1941, quando il medico confidente, dottor James W. Watts, propone la lobotomia, vale a dire tagliare pezzi di cervello. Una pratica barbarica ritenuta in grado di curare qualsiasi problema mentale, ma di cui erano già noti (e criticati negli ambienti medici dell’epoca) i pericoli e le conseguenze.
Avere sbalzi d’umore, essere bella e provocante, cambiare fidanzato spesso, e magari fare sesso senza essere sposata, sono evidentemente elementi che per il papà di Rosemary ed il medico, vanno attribuiti al “disturbo mentale” causato dalla sofferenza in fase di travaglio.
E dunque al papà di Rosemary la lobotomia sembra una soluzione eccellente per freddare l’esuberanza sociale e sentimentale della ragazza, anche se l’intervento nella quasi totalità dei casi trasformava le persone in vegetali, anche se nel 14% dei casi le uccideva. Meglio una figlia morta o ridotta ad una larva che immorale e scandalosa.
E dunque quest’uomo accetta, senza dire niente alla moglie e agli altri figli oppure (come è più probabile), senza che nessuno in famiglia si opponga e si possa opporre a questa decisione.
Rosemary, che ha 23 anni, arriva all’ospedale della George Washington University pienamente padrona di sé, segue le indicazioni dei dottori James W. Watts e Walter Freeman, canticchia e racconta delle storie buffe, mentre le vengono praticati due fori ai lati della testa e tagliate le terminazioni nervose.
Sul finire dell’operazione inizia a biascicare parole sconnesse, per poi tacere del tutto. La sua capacità linguistica diventa un farfugliare senza senso. Perde l’uso del braccio, perde la capacità di camminare, diventa incontinente. La sua vita, in una sedia a rotelle, diviene un passare da un ospedale psichiatrico all’altro. Nascosta, abbandonata, dimenticata, invisibile.
Rosemary è una delle 50.000 donne anticonformiste, bambini un po’ agitati e persone dissidenti il senso comune che i medici hanno zombificato in nome della “morale”.
Chi era il padre di Rosemary
Trattandosi di un pergonaggio molto famoso e potente, è difficile tracciare bene i contorni dell’uomo che sostanzialmente scelse di sacrificare una figlia sull’altare della potenza, della politica e del “buon nome” della famiglia. Era un figlio del XIX secolo, quindi che considerava perfettamente morale avere molte amanti pur essendo sposato ma non aveva la stessa tolleranza per analoga libertà sessuale femminile. Teneva giornalisti sotto contratto per avere sempre articoli positivi su di sé e sulla sua famiglia, ammirava Hitler e non desiderava che gli USA entrassero in guerra contro la Germania, per la sua ascesa economica e sociale non disdegnò connessioni malavitose. Stava poco in casa con la moglie Rose, ma non mancò mai al capezzale dei figli maschi se si ammalavano e per ogni suo figlio provvide a molte ricchezze. Un uomo dell’800, dunque, inserito ai vertici di potere di una società fortemente patriarcale e tradizionalista.
il papà di Rosemary a inizio del ‘900
La storia di Rosemary prosegue con l’isolamento totale
Il papà proibisce ai figli di andare a trovare Rosemary e di parlare di lei, racconta bugie ai giornali, dice che la figlia è impegnata in missioni diplomatiche in giro per il mondo, oppure che è in vacanza o che è all’estero per studiare. A seguire afferma che è ricoverata in ospedale per una meningite e poi, semplicemente, smette di parlarne fino al 1961, quando viene dichiarato che Rosemary è stata internata per il peggiorare delle sue condizioni mentali. In quello stesso anno il padre ha un ictus e sembra che solo a quel punto i figli riescano a scoprire dove è stata rinchiusa la sorella e iniziano a farle visita e a portarla occasionalmente nella casa in cui aveva trascorso l’infanzia. La donna impara di nuovo a camminare ma non recupererà più la capacità di parlare chiaramente.
Nel 1975 la stampa scopre dove si trova Rosemary, ma non cosa le è accaduto. Nel 1980 vengono pubblicati i suoi diari e nel 1987 diviene di pubblico dominio l’avvenuta lobotomia.
Rosemary muore il 7 gennaio 2005, a 87 anni, 64 dei quali trascorsi in stato poco più che vegetativo per colpa di suo padre, della “morale” e della politica.
Suo padre era Joseph Patrick “Joe” Kennedy.
La storia di Rosemary Kennedy, è quella di una vita distrutta dai pregiudizi e sacrificata sull’altare del potere
La storia della famiglia di Rosemary prosegue
Cosa accadde, alla famiglia, dopo il 1941, anno della devastante operazione di Rosemary, mentre lei languisce quasi ridotta ad un vegetale?
– 3 anni dopo, nel 1944, il primogenito Joseph Patrick Jr muore a 29 anni in un volo di addestramento.
– Nel 1948 la quarta figlia Kathleen Agnes, vedova del marchese di Hartington, muore a 28 anni in un incidente aereo insieme all’amante, il conte Peter Wentworth-Fitzwilliam. Al suo funerale partecipa solo il padre Joseph Patrick.
– Nel 1961 il padre Joseph Patrick viene colpito da un ictus, che gli toglie la capacità di parlare.
– Nel 1963 il secondogenito John Fitzgerald (JFK), da 3 anni presidente degli USA, viene assassinato all’età di 46 anni.
– Nel 1968 Robert Francis, candidato alla presidenza degli USA, viene assassinato all’età di 42 anni.
– Nel 1969, a 81 anni, muore il padre Joseph Patrick, sopravvissuto alla morte di 4 dei suoi figli. Non è mai andato a trovare quella figlia a cui ha rovinato la vita.
Gli altri membri conosceranno la vecchiaia: mamma Rose (che ha fatto visita alla figlia solo dopo l’ictus del marito) ha un ictus nel 1984, che la costringe sulla sedia a rotelle fino alla morte, avvenuta nel 1995 all’età di 105 anni. L’ultimogenito Ted muore a 77 anni, la sesta figlia Patricia a 82 anni, la quinta figlia Eunice Mary, l’unica ad essersi presa cura di Rosemary e a non averla rinnegata e abbandonata, è morta nel 2009, all’età di 88 anni. L’ottava figlia Jean Ann è morta nel 2020 a 92 anni.
Le disgrazie dei Kennedy, invece, sembrano non avere fine, colpendo una ventina fra familiari e persone a loro care, generazione dopo generazione, in quella che è nota come “La maledizione dei Kennedy”.
Una maledizione che si è manifestata a partire da ciò che la famiglia, nello specifico il papà tanto amato, ha fatto a Rosemary. Karma? Coincidenza? O ci può essere dell’altro?
«La nostra vita non è nostra. Da grembo a tomba, siamo legati ad altri passati e presenti… E da ogni crimine e ogni gentilezza generiamo il nostro futuro».
(dal film Cloud Atlas)
(Silvia Matricardi)
La storia di Rosemary fa riflettere
Non conoscevo questa tragica storia, la cui lettura mi ha rimandato alla mia adolescenza durante la quale, pur non avendo la più pallida idea di chi fossero questi Kennedy, mi era capitato di leggere alcuni articoli sui tabloid dell’epoca, tipo quelli che abbondavano dal barbiere per intenderci, in cui si narravano le incredibili tragedie che avevano colpito numerosi membri di questa famiglia e si cominciava a mormorare di una sorta di “maledizione”, a tutti gli effetti transgenerazionale.
Viene da domandarsi se possa esistere un nesso tra gli eventi narrati in questo articolo e tutto quello che si è manifestato negli anni e nei decenni seguenti, un nesso che si potrebbe associare alla cosiddetta “sindrome degli antenati” o più in generale alla tanto discussa e spesso osteggiata teoria delle “costellazioni familiari” elaborata da Bert Hellinger. Molto più semplicemente, da fervente cattolico quale ci viene narrato che fosse, il padre di Rosemary, Joseph Patrick Kennedy, avrebbe potuto e dovuto rammentare un noto versetto biblico che in sintesi afferma come “si raccoglie ciò che si semina”.
Di una cosa possiamo essere ragionevolmente certi: che sia individualmente che collettivamente, “ciò che facciamo in vita riecheggia nell’eternità”. (Tom Bosco)
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Nel bel mezzo della Guerra Fredda e della corsa agli armamenti non convenzionali, si distingue l’esperimento del 1964, che consisteva nel somministrare LSD ai Royal Marines (la famosa fanteria marina britannica): era l’operazione Moneybags (ricconi). È in realtà la punta sorridente di un iceberg molto oscuro.
Fermo immagine del filmato dell’esperimento
La sperimentazione di LSD su Royals Marines: operazione Moneybags
Nel famigerato centro di ricerca di Porton Down, prima di una normale operazione di addestramento, a un gruppo di ignari Royal Marines fu somministrato LSD (dietilamide dell’acido lisergico), una tra le più potenti sostanze psichedeliche conosciute. E fu subito caos.
Alcuni soldati scoppiarono a ridere. Altri abbandonarono la missione, arrampicandosi sugli alberi per dare da mangiare agli uccelli o vagarono senza meta. Persino l’ufficiale comandante non faceva altro che ridere, incapace di proseguire con l’esercitazione prevista.
Fotogramma del filmato originale dell’esperimento
Video dell’esperimento “Moneybags” (versione abbreviata di “Small Change”), in cui volontari del 41° Commando dei Royal Marines hanno partecipato a un’esercitazione sul campo dopo aver assunto LSD (dietilamide dell’acido lisergico) a Porton, dal 27 novembre al 4 dicembre 1964.
L’operazione Moneybags faceva parte di una serie di studi effettuati dagli Alleati, per individuare un possibile uso di sostanze psichedeliche come sistemi per incapacitare il nemico, rendendolo confuso, disorientato e incapace di opporre una resistenza organizzata. Il tutto perché si aveva notizia che i sovietici stessero facendo studi analoghi.
L’esperimento inglese dimostrò che l’LSD poteva sicuramente disabilitare un’unità di combattenti addestrati, ma gli effetti non erano affidabili o prevedibili. Le reazioni variavano enormemente a seconda dello stato mentale e fisico individuale, del dosaggio e dell’ambiente. Pertanto fu ritenuto inadatto a conseguire gli scopi prefissati.
LSD nella guerra fredda: il progetto MK-Ultra
Abbiamo iniziato con un sorriso, ma il tema ci porta al famigerato progetto della CIA noto come MK-Ultra (inizialmente chiamato Bluebird nel 1951, focalizzato sul controllo mentale), che sperimentò LSD e altri psichedelici, sempre su individui non consapevoli, con l’obiettivo di rendere più incisive le tecniche di controllo mentale. Il progetto MK-Ultra fu avviato ufficialmente nel 1953 su ordine del direttore della CIA Allen Dulles, che si era lamentato di non aver “abbastanza cavie umane per sperimentare queste straordinarie tecniche”.
L’esercito USA, sotto la guida del geniale e inquietante Dr. Van Murray Sim, che lavorava all’Edgewood Arsenal, condusse per decenni esperimenti segreti con psicochimici.
Questi test culminarono negli anni ’70 con l’utilizzo dell’LSD come strumento di interrogatorio potenziato, sia in Europa che in Asia. La ricerca di Sim, inizialmente focalizzata su studi di base sugli effetti dell’LSD, si trasformò rapidamente in un programma di spionaggio, il “Material Testing Program EA 1729,” con il preciso obiettivo di sfruttarne le proprietà psicoattive per estorcere informazioni.
Questo programma iniziò nel 1956, subito dopo il tragico incidente che portò alla morte del paziente Harold Blauer al New York State Psychiatric Institute a causa di un test con la mescalina (l’alcaloide psichedelico contenuto principalmente nel cactus peyote).
Sim ottenne l’autorizzazione ad effettuare esperimenti sull’LSD presso l’installazione militare Edgewood Arsenal, nel Maryland, famoso centro chiave per la ricerca a sviluppo di armi di distruzione di massa. I test, inizialmente condotti su soldati volontari, si estesero presto a soggetti inconsapevoli, e i metodi di interrogatorio includevano la tortura. Le dosi di LSD somministrate erano elevate (fino a 16 mcg/kg), provocando reazioni imprevedibili e gravi, inclusi allucinazioni e psicosi a lungo termine.
Nonostante le forti riserve etiche espresse da alcuni medici, tra cui il colonnello Dreisbach, e i dilemmi morali vissuti da molti altri coinvolti, questi esperimenti proseguirono per molto tempo, con l’obiettivo di sfruttare l’LSD per rendere più efficaci gli interrogatori e i test del poligrafo e di preparare soldati e operatori della CIA ad eventuali somministrazioni clandestine di LSD da parte di nemici.
Ad un certo punto, però, Sim ritenne non soddisfacente continuare a sperimentare nella base, dove ormai tutti sapevano della ricerca in corso. Bisognava spostarsi in ambienti esterni e in situazioni “reali”.
Testare in ambienti esterni e situazioni reali: l’operazione Third chanche
Ecco allora l’operazione Third chanche (terza occasione), con una squadra segreta includente il Tenente Colonnello William Jacobson (esperto di intelligence), il Tenente Colonnello David MacQuigg (medico), e il Maggiore Ernest Robert Clovis (dall’Edgewood Arsenal), uno scienziato enigmatico con notevole esperienza con l’LSD. La missione era di somministrare clandestinamente LSD a sedici fra le risorse dell’intelligence straniera.
Gli esperimenti si svolsero principalmente in Europa, in collaborazione con agenzie di intelligence locali.
Dunque si crearono scenari ad hoc per attirare gli agenti, si drogarono a loro insaputa, quindi furono loro inflitte tecniche di interrogatorio atte ad aumentare ansia e pressione psicologica.
Anche in questo caso l’LSD si rivelò imprevedibile e fondamentalmente inefficace per gli specifici obiettivi. In alcuni casi, i soggetti mostrarono una sorprendente resistenza agli effetti dell’LSD mentre altri subivano traumi psicologici profondi e duraturi, come nel caso di James Thornwell.
Nel 1961, nell’ambito dell’operazione Third chanche, il 23enne soldato USA James Thornwell, afroamericano in servizio in Europa, fu accusato di aver rubato documenti segreti, sottoposto ad 99 giorni di interrogatori intensivi, isolamento, abusi fisici e verbali, ipnosi e iniezioni varie, quindi drogato con LSD a sua insaputa e sottoposto a ulteriori interrogatori intensivi. Nonostante le torture psicologiche e fisiche e la droga, non rivelò comunque informazioni utili o affidabili. Dopo il rilascio, un rapporto psichiatrico lo diagnosticò con “personalità antisociale” e “tendenze paranoiche,” aprendo la strada ad ulteriori e umilianti iter di visite psichiatriche. Fu congedato quindi in modo generico dal servizio senza essere processato dalla Corte Marziale, perché un processo, anche con i ricordi frammentari del soldato, avrebbe svelato i metodi usati dalla Third Chance e quindi causato “pubblicità sfavorevole”.
Tornato negli Stati Uniti, Thornwell soffrì di depressione, paranoia e mutismo, morendo a 46 anni in circostanze misteriose. La Third chanche, sperimentò almeno su nove soggetti europei.
Dopo gli esperimenti europei, la squadra speciale della Third chanche non è concorde: il Tenente Colonnello William Jacobson considera i risultati un successo, nonostante le risposte incongruenti e non prevedibili dei soggetti testati. Il Tenente Colonnello David MacQuigg, invece, auspica esperimenti ancora più estremi con dosi maggiori di LSD. Il Maggiore Ernest Robert Clovis, più cauto, sottolinea che il guadagno informativo è stato scarso.
A questo punto vogliono capire se ci sono differenze di reazione tra orientali e caucasici.
Segretario della Difesa Robert McNamara di continuare gli esperimenti in Vietnam, Generale Victor (Brute) Krulak risponde con entusiasmo. La squadra parte per l’Estremo Oriente, dove usa sette prigionieri Viet Cong, con dosi ancora più elevate di LSD e tecniche più violente. Anche questi test estrassero informazioni irrilevanti.
Nel 1957 un rapporto del comando CIA sul MK-Ultra dice: “Devono essere prese precauzioni non solo nell’evitare che le forze nemiche vengano a conoscenza delle operazioni ma anche nel celare le attività al pubblico statunitense in generale. Sapere che l’agenzia è coinvolta in attività non etiche e illecite avrebbe serie ripercussioni negli ambienti politici e diplomatici…”
Nel 1959 uno studio dell’intelligence dell’esercito USA esaminò le questioni morali e legali della somministrazione clandestina di LSD e così concluse: “La posta in gioco e gli interessi della sicurezza nazionale possono permettere un’interpretazione più tollerante dei valori etici, ma non dei limiti legali”.
Il programma fu sospeso nel 1963.
Il progetto MK-Ultra continua e cambia nome
Nel 1964 il progetto MK-ULTRA fu rinominato MKSEARCH in quanto si stava specializzando nella creazione del cosiddetto siero della verità, sostanza che sarebbe poi stata usata per interrogare esponenti del KGB durante la guerra fredda. Nel 1972 il direttore CIA Richard Helms, poco dopo lo scandalo Watergate, ordinó la distruzione dei documenti. Nel 1975 il programma fu reso pubblico per opera della commissione Church e della commissione Rockefeller, che dovettero però ricostruire le informazioni attraverso la testimonianza dei protagonisti e i pochi documenti scampati all’ordine di distruzione. Nel 1977 i documenti sono stati desecretati.
Non solo LSD e torture
Lo scopo di MK-ULTRA – MKSEARCH era scoprire come manipolare la psiche, sia per ottenere informazioni, sia per resistere agli interrogatori, sia per creare assassini inconsapevoli o controllare capi di stato stranieri. Le potenzialità teoriche erano immense. Il tutto sarebbe stato sovvenzionato con almeno 25 milioni di dollari, avrebbe coinvolto 80 istituzioni fra università, ospedali e prigioni e 185 ricercatori privati
Gli esperimenti sugli esseri umani erano spesso praticati su soggetti ignari e prevedevano l’uso di ipnosi, onde sonore ed elettromagnetiche, sieri della verità, messaggi subliminali, pressione sonora, sostanze psicotrope (LSD, fenciclidina, scopolamina) e numerosi altri metodi per manipolare gli stati mentali e alterare le funzioni cerebrali. Erano incluse pratiche di deprivazione sensoriale, isolamento, elettroshock, lobotomia, abusi verbali e sessuali, minacce, aborti forzati, così come varie forme di traumi e torture.
Le cavie erano persone comuni, dipendenti della CIA, personale militare, agenti governativi, prostitute, pazienti con disturbi mentali, detenuti, senzatetto e tossicodipendenti.
La famosa statua di nella cattedrale di Naumburg, in Germania
Uta di Ballenstedt. Umberto Eco avrebbe avuto voglia di invitarla a cena, Walt Disney si ispirò a lei per uno dei personaggi più famosi delle sue fiabe: la regina Grimilde, matrigna di Biancaneve. Una donna diventata immortale grazie ad una statua realizzata 200 anni dopo la sua morte. E che forse neanche le somiglia…
La statua che ha reso Uta di Ballenstedt immortale
Nella cattedrale di Naumburg, in Germania, ci sono 6 coppie di statue in marmo policromo, realizzate tra il 1250 ed il 1260 da un artista noto come il Maestro di Naumburg, che rappresentano i marchesi di Meissen benefattori della cattedrale stessa.
Una di queste opere raffigura il margravio (marchese) Eccardo II e sua moglie Uta di Ballenstedt.
La statua di Uta di Ballenstedt è molto celebre, sia per la straordinaria bellezza della donna ritratta, sia per una nota di indecifrabile fascino, che risulta dall’espressione, dalla posa e dai gesti in cui è stata immortalata da un artista che è vissuto duecento anni dopo.
La famosa statua di nella cattedrale di Naumburg, in Germania
Il marchese appare come un uomo rugoso e bruttarello assai, non solo non guarda la sua consorte ma addirittura tiene lo scudo e la spada a far barriera fra di loro. Neanche le rispettive vesti si sfiorano.
Per quanto riguarda Uta, che guarda nella stessa direzione del consorte, è molto più giovane, di una bellezza delicata e angelica. Con un lembo del mantello sembra quasi sollevare una ulteriore barriera per separarsi dal consorte, la sua espressione ha una nota di mistero e tristezza.
Le statue di Eccardo II e sua moglie Uta.
Un’espressione ben diversa, ad esempio, dall’allegro e solare sorriso di Regelinda, sposata col giovane e belloccio marchese Ermanno I, predecessore di Eccardo II, e dall’altrettanto allegra Adelaide, che guarda il marito Ottone, con cui sembra amabilmente chiacchierare.
Regelinda, moglie di Ermanno I
Perché era triste ed enigmatica la bellissima Uta di Ballenstedt? È una fantasia dell’artista oppure c’è un fondamento storico che ha voluto trasmettere?
Sappiamo poco di Uta, ma quanto basta per capire che aveva validi motivi per non essere molto allegra.
Uta nasce dal conte Adalberto di Ballenstedt e da Hidda di Sassonia (figlia di figlia di Odo I, conte di Nordthüringgau e Schwabengau), intorno all’anno 1000. Viene istruita – come prassi per le nobildonne – in un convento situato vicino alla proprietà di famiglia. Amava la storia, la musica e le erbe medicinali. Molto stranamente non viene data in sposa fino all’età di 26 anni, per l’epoca un’età inopportunamente avanzata per convolare a nozze.
Il prescelto è tal Eccardo II, che ha 41 anni ed è il fratello più giovane di Ermanno I Marchese di Meissen.
Era un valoroso condottiero con ottime connessioni con il re Enrico, futuro imperatore Enrico III. Dopo le nozze, Eccardo eredita il marchesato di Lusitania e quindi, a seguito della morte del fratello, anche il marchesato di Meissen.
Le scarne informazioni si riferiscono a Uta come moglie devota e fedele, ma ad un certo punto fu processata per stregoneria. Ne uscì assolta o comunque evitò la condanna a morte, forse per intervento della probabile sorella Hacheza, potente badessa dell’abbazia imperiale di Gernrode, ma l’infamia deve aver gravemente pesato su di lei, sul consorte e sul loro matrimonio.
Uta ed Eccardo non ebbero figli e morirono entrambi, a distanza di qualche mese, nella non meglio precisata epidemia che investì la Sassonia nel 1046. Dapprima morì Eccardo e lei si ritirò nell’abbazia dove la sorella era badessa, destinando la sua dote all’istituto e all’imperatrice Agnese. Dai beni di Eccardo fu tratta una cospicua donazione per la costruzione della Cattedrale di Naumburg. Successivamente morì anche Uta.
I due furono sepolti nella cattedrale di Naumburg accanto agli antenati di lui, ma le tombe furono in seguito rimosse.
Due secoli dopo, intorno al 1240, lo sconosciuto Maestro di Naumburg creò una dozzina di figure di donatori per la cattedrale, tutte con un realismo ed una maestria impressionanti, tra cui rappresentazioni di Eccardo e Uta. Chiassà se l’artista ha attinto da pitture alla sua epoca ancora esistenti e oggi andate perdute?
E veniamo al secolo scorso, quando i nazisti volevano portarla come esempio di bellezza e devozione della perfetta donna ariana e quando poi Walt Disney decise di farne la regina cattiva della favola di Biancaneve…
Dal 2018, la Cattedrale di Naumburg è patrimonio mondiale dell’UNESCO.
La femina accabadorao agabbadòra è una donna della tradizione sarda che praticava un’antica forma di eutanasia, un atto pietoso nei confronti del moribondo agonizzanti, con un secco colpo di martello. Da molti considerata una figura leggendaria sembra proprio che non sia affatto un mito.
La donna che termina
Accabadora, la parola è una derivazione di s’accabbu (la fine) e ha lo stesso suono (e significato) dello spagnolo acabar (terminare). Secondo la tradizione sa femina accabadora veniva mandata a chiamare solo nei casi in cui la persona moribonda, pur avendo ricevuto l’estrema unzione, continuava a soffrire e non riusciva a morire, perché “qualcosa” la teneva legata alla vita. Poteva essere un amuleto nascosto, un’immagine sacra, o un peccato imperdonabile.
Allora, da un paese vicino (doveva essere “tia strangia”, cioè venire da fuori), veniva fatta arrivare s’accabadora. Secondo alcuni chiamata, secondo altri “evocata” semplicemente spalancando tutte le porte e le finestre.
Come primo intervento la donna avrebbe rimosso dalla stanza del malato ogni amuleto e immagine sacra e avrebbe posto accanto al capezzale un pettine o un giogo in miniatura. Se tali operazioni non avessero sortito effetto nello spezzare il legame, allora, dopo un certo periodo di tempo, la donna sarebeb ricorsa a sa mazzucca, un piccolo martello di legno, che avrebbe usato in assoluta solitudine, per porre fine alle sofferenze del malato.
I familiari del malato le esprimevano profonda gratitudine per il servizio reso al loro congiunto offrendole prodotti della terra.
Si dibatte da un paio di secoli per decidere se la tradizione sia effettivo residuo di ancestrali pratiche di derivazione matriarcale o un’invenzione folkloristica.
Le prima notizie risalgono al padre scolopio Vittorio Angius che cita l’esistenza di «vecchie pazze» con mazzuoli, chiamate ad alleviare una morte difficile percuotendo la nuca o il petto del moribondo. Ma altri ritennero la storia una pura invenzione.
Fino alla lettera-inchiesta di una squadra di medici premiata conil Premio Alziator 2022: “Accabadora. Mito e Realtà. Storia e reperti di un ritrovamento”.
L’indagine parte dalla confidenza di un paziente, passa per il ritrovamento di una sa’mazzucca avvolta in ritagli di giornale degli anni intorno al 1920, un rosario, dei denti umani, una lista di nomi scritti a matita, ed altri oggetti, attribuibili agli averi di una vera s’accabadora. I fogli di giornale contenevano articoli di carattere religioso, fra cui anche il resoconto della miracolosa guarigione di un bambino dopo l’invocazione a un santo.
Indagini negli archivi Arcivescovili di Cagliari hanno confermato che i nominativi appartenevano a persone di varia età decedute in quel periodo. Sul martello sono state riscontrate tracce ematiche che le analisi hanno confermato essere di sangue umano.
Dunque non è un mito. E dopo tale indagine assumono una rilevanza diversa le varie testimonianze emerse di chi afferma di aver visto s’accabadora all’opera fino agli anni ’60 del secolo scorso.
Foto dal documentario Sa Femina Accabadora – La dama della buona morte di Zenit Arti Audiovisive
Era una figura che in un contesto molto religioso, veniva convocata con grande riserbo per garantire una morte rapida e dignitosa a chi stava agonizzando. A nessuno era consentito assistere al suo rito terminale che includeva una procedura di espiazione degli eventuali peccati commessi e non perdonabili che, secondo la credenza dell’epoca, gli avrebbero causato proprio una lunghissima agonia. Da notare che gli strumenti della accabadora, il martello e il giogo in miniatura, sono associati da millenni in molte culture europee alla morte, al passaggio nell’aldilà, alla riunione con il divino, alla rottura dei legami, a un concetto di passaggio che include sia la morte che la rinascita.
Secondo il lavoro svolto dal gruppo dei medici, questa figura svolgeva una duplice attività, era sia s’accabadora per dispensare la morte, che sa’levadora, per aiutare le donne a partorire, in base al compito per cui veniva chiamata vestiva di bianco o di nero. Da questo particolare ruolo duplice di vita e di morte emerge il legame con il culto della dea Madre.
È certamente una storia che echeggia di ancestrale, come la figura della Koga o Jana o Surbile, altra donna della Sardegna antica che era guaritrice e sciamana della comunità, così come le Abbrebarojas, che praticavano incantesimi per propiziare la fertilità dei campi.
A Luras c’è il museo Galluras, che oltre a tanti reperti della cultura e della tradizione della Sardegna custodisce il martello de sa femina agabbadòra, il proprietario, PierGiacomo Pala, è l’autore di “Antologia della femina agabbadora”, in cui ha raccolto le testimonianze e la sua indagine per venire a capo del mistero.
“Eutanasia ante litteram in Sardegna” di Alessandro Bucarelli, Carlo Lubrano
“Il folklore sardo” di Francesco Alziator
“Antologia della femina agabbadora”, PierGiacomo Pala
“Accabadora” di Michela Murgia
Dolores Turchi, Ho visto agire S’Accabadora, Iris 2008
“L’accabadora”, film diretto da Enrico Pau https://www.galluras.it/
Angius, Vittorio e Casalis, Goffredo, Dizionario geografico storico statistico degli stati di S.M. il Re di Sardegna, vol. II, G. Maspero librajo e G. Marzorati tipografo, Torino, 1834-56
Francesco Teruggi: https://www.academia.edu/43075299/SACCABBADORA_IL_REPIT_E_LACQUA_DELLE_UNDICI_E_MEZZA_ipotesi_su_alcuni_riti_di_aiuto_al_passaggio
La storia di Luciedda: fra ingiustizia, omertà e istituzioni conniventi, inizia nel 1955.
Un fiore falciato a tradimento
La storia di Luciedda è un “cold case” di omicidio di una ragazzina che stava per compiere 13 anni. È ancora irrisolto, con risvolti inquietanti, perché la vittima ha subito pesanti ingiustizie anche dopo il suo assassinio. Il fatto è avvenuto in Sicilia nel 1955 e le indagini, che non hanno mai portato a nulla, sono state ufficialmente riaperte nel 2020, a 65 anni di distanza.
In tale occasione il corpo è stato riesumato, per un esame medico-legale e l’estrazione di eventuale DNA. Sulla salma sono state effettivamente trovate tracce biologiche ma non è dato di sapere (nel 2025) se sia stato o meno possibile estrarre una sequenza genetica.
Sulla tomba di Luciedda non mancano mai i fiori freschi, anche se la famiglia ha da tempo lasciato il paese. Perchè la sua storia ha colpito tutti. Non solo è stata vittima di omicidio ma le è stato negato il funerale religioso, che è avvenuto solo il 28 luglio 2021, 66 anni dopo.
La storia di Luciedda
Luciedda, al secolo Lucia Rosario Mantione, è nata a Montedoro, in provincia di Caltanissetta, il 21 o forse il 22 marzo del 1942, durante la seconda guerra mondiale. Ha lasciato la scuola dopo la quinta elementare e vive con la sua famiglia, molto povera e molto cattolica. Montedoro all’epoca conta circa 3000 abitanti, quasi tutti contadini e zolfatai. Gente povera, che sgobba e va in chiesa, con poco spazio per altro.
La sera del 6 gennaio 1955, Luciedda, che non ha ancora compiuto 13 anni ed è considerata “bellissima”, esce di casa quando il sole sta per tramontare, per chiamare uno dei fratelli che stava giocando poco lontano, oppure per comprare una scatola di fiammiferi, come riportano alcune fonti, oppure ancora per svolgere una commissione per una delle poche famiglie ricche del paese, o magari per tutte queste motivazioni insieme. Luciedda è descritta da chi la conosceva come “giudiziosa”, “ingenua, innocente, schietta” oltre che “alta e bella”. E probabilmente è proprio quella bellezza a costarle la vita.
Il fratellino rientra da solo dopo il tramonto, non ha incontrato Luciedda. Della ragazzina non c’è traccia. Il padre, che è un minatore rimasto invalido, rimane a casa, ma la madre inizia a cercarla, poi anche i fratelli, quindi i parenti, infine vengono coinvolti i Carabinieri. Tutto il paese cerca Luciedda.
l rinvenimento del cadavere
Luciedda viene ritrovata, morta, la mattina di domenica 9 gennaio da suo fratello Rosario.
È in un casolare diroccato e abbandonato, giace a terra con la bocca aperta, le narici dilatate, il vestito scomposto. Una mano bloccata ad artiglio, come ad afferrare qualcosa o a graffiare il suo aggressore. Nello stesso ambiente c’è un coltello a serramanico chiuso e c’è un bottone che non appartiene al suo vestito.
Il corpo è perfettamente asciutto, anche se la sera prima aveva piovuto ed il tetto del casolare era diroccato.
L’autopsia eseguita dal prof. Stassi dell’Università di Palermo scopre che il corpo della ragazza è “assolutamente integro”, ad eccezione di un graffio sul mento e che la sua morte è dovuta ad asfissia. Qualcuno le ha tappato bocca e naso fino a farla morire. Non è stata stuprata. La morte risale a 36 ore prima del ritrovamento. Quindi Luciedda, sparita la sera di giovedì 6 gennaio, è stata uccisa la sera di sabato 8 gennaio.
Dove è stata tenuta per 24 ore?
Il suo corpo è stato spostato sul luogo del ritrovamento domenica 9, prima delle 8.30, quando il fratello l’ha scoperto, ma dopo che era finita la pioggia, perché era asciutto.
Non ci sono impronte sul collo, gli investigatori ipotizzano che l’assassino (o gli assassini) l’abbiano strangolata lasciandole il fazzoletto che aveva al collo, ma questo fazzoletto non è chiaro se lo avesse ancora al collo o in tasca al momento del ritrovamento del corpo.
Il funerale negato, l’omertà e il fascicolo che… scompare
Terminata l’autopsia, i genitori vanno dal parroco per prendere accordi per il funerale, ma a Luciedda viene negato il rito religioso, perfino il tocco delle campane, e la sua morte non viene neanche annotata nel registro parrocchiale.
Questo aspetto è un mistero nel mistero, ma ci torniamo sopra.
La famiglia non capisce il perché del mancato funerale, è esasperata oltre che addolorata, e prende a sassate la canonica.
La ragazzina viene sepolta in un angolino del cimitero, in terra consacrata (forse per placare gli animi) e sulla sua tomba, da quel giorno, non sono mai mancati i fiori, anche se tutta la sua famiglia abbandona il paese per non farvi mai più ritorno.
Ci sono dei sospettati, in questi primi momenti dopo la sua morte, ma vengono rilasciati nel giro di pochi giorni. Nessuno ha visto niente, non se ne viene a capo e il caso viene accantonato senza colpevoli.
Non si sa se ci siano state indagini anche nelle famiglie benestanti in cui Luciedda e la madre facevano servizio di pulizia e per le quali svolgevano commissioni.
Le voci, in un paese in cui è presente anche una componente mafiosa, sono tante, tra tutte quelle su un rifiuto, la negazione di un atto sessuale, costato caro. Si pensa ad un ricco aristocratico che si è invaghito di lei e ha provato a forzarla, tappandole bocca e naso per impedirle di gridare. Nessuno ha visto o sentito niente, in un posto dove tutti si conoscono e guardare cosa fanno le belle ragazzine è l’unica attività significativa, oltre a sgobbare e andare in Chiesa. A un certo punto il fascicolo delle indagini scompare.
I carabinieri di Montedoro dicono d’averlo consegnato in procura a Caltanissetta, mentre alla procura nulla risulta o forse il fascicolo era tra i documenti andati distrutti nel corso di un’alluvione che, alcuni anni dopo il delitto, interessò uno dei magazzini. Non si sa di preciso.
Lo scrittore fa riaprire le indagini sulla storia di Luciedda
Nel 2018 uno scrittore originario dello stesso paesino, Federico Messana, si appassiona al caso e chiede al comune la realizzazione di un piccolo monumento all’interno del cimitero, con il trasferimento della salma, contemporaneamente chiede alla Curia il permesso di celebrare almeno una Messa in riparazione e suffragio, nel giorno della ricorrenza della sua scomparsa.
Il comune intanto le dedica una panchina rossa, per ricordare le donne vittime di violenza.
Federico e Calogero Messana, quest’ultimo coetaneo di Luciedda, hanno quindi raccolto in un blog, notizie, articoli e spezzoni di testimonianze sulla tragica vicenda, chiedendo la riesumazione della salma e la riapertura delle indagini. A quel punto il furgone di Calogero è stato incendiato.
Il che lascia supporre che ci sia ancora qualcuno, a distanza di tanti anni, fermamente contrario a far scoprire quella verità. A fare luce sulla storia di Luciedda.
Nel 2019 si interessa del caso anche “Inviato speciale”, la rubrica di RaiRadio 1. La giornalista Rita Pedrizzi va nel paesino, intervista i testimoni, raccoglie informazioni.
Calogero Messana scrive al vescovo e chiede una messa riparatoria, che ottiene, a differenza dell’autorizzazione a creare un piccolo monumento nel cimitero.
Alla fine si muove anche la Procura della Repubblica di Caltanissetta, che decide di riaprire formalmente le indagini ed esumare il corpo di Luciedda.
Successivamente circola la notizia che sulla salma è stato trovato del materiale biologico da cui si spera di poter estrarre del DNA. Da questo momento in poi, non se ne sa più nulla. La storia di Luciedda ha un nuovo sviluppo nell’estate del 2021, quando finalmente la chiesa cede e le viene concesso il funerale religioso.
Il funerale di Luciedda, dopo 66 anni
Mercoledì 28 luglio 2021, quando finalmente si è svolto il funerale, la prima persona a mettere le mani sulla bara di Luciedda è stata Maria Lucia Mantione, la nipote di 64 anni (figlia di uno dei fratelli di Luciedda) e uno dei suoi pochi parenti rimasti in vita.
Il funerale di Luciedda, nel 2021
Perché fu negato il funerale a Luciedda?
Si trova un po’ ovunque la dicitura che non le fu concesso un funerale religioso “perché è morta di morte violenta”, ma il diritto canonico del 1917 non prevede nulla del genere, perché limita il diniego delle esequie religiose solo ai peccatori manifesti (come nel caso dei suicidi, e, all’epoca, dei massoni), agli apostati, eretici (quindi scomunicati), scismatici (sono quelli che disconoscono il papa), ai morti per duello, a coloro che hanno chiesto la cremazione, ai non fedeli, cioè non battezzati. Solo costoro non possono avere un rito di sepoltura ecclesiastica e possibilmente le loro spoglie non devono collocarsi in luogo consacrato.
Ma Luciedda non è nulla di tutto ciò.
Si legge che il morto di morte violenta non si portava in chiesa perché c’era la mentalità che se t’ammazzano non sei pulito, un po’ te la sei cercata, devi essere un peccatore. Per forza.
Una spiegazione che non convince affatto, perché Maria Goretti, che aveva più o meno la stessa età, quando fu uccisa a Nettuno nel 1902 in circostanze del tutto analoghe a quelle di Lucia Mantione, ebbe il suo regolare funerale e fu addirittura canonizzata pochi anni prima della morte della ragazzina siciliana.
Probabile foto di Maria Goretti nel 1902
La storia di Luciedda è del tutto analoga a quella di Maria Goretti, eppure a una ragazzina è stato negato il funerale religioso, mentre l’altra è stata canonizzata. Perché?
Come si spiega allora questa anomalia? Chi è il prete “troppo zelante” rispetto alla supposta consuetudine di escludere i morti di morte violenta dalla celebrazione del funerale, che ha negato alla salma della ragazzina anche una semplice benedizione?
Ci si aspetterebbe un pretuzzo di campagna, e invece ecco la sorpresa: a dire di no è stato l’arciprete Monsignor Vito Alfano, che ha 78 anni quando muore Luciedda, è un prelato in carriera, cameriere segreto del papa, uomo colto, poeta, scultore, musicista e pittore.
Non fu un pretuzzo di campagna a negare il funerale a Luciedda, ma un monsignore colto e in carriera, vicino al papa.
Ma allora? Perché?
Secondo chi ha raccolto le testimonianze sul posto, anche all’epoca dei fatti, c’era paura, si parlava di “colpevoli eccellenti” e di una verità che non si doveva trovare e nemmeno cercare. Per questo Luciedda andava cancellata dalla storia. E l’anziano monsignore, per ragioni che nessuno conoscerà mai (è deceduto nel 1970), deve aver scelto quello che gli appariva essere il “male minore” o magari ha eseguito un “ordine” a cui non si poteva sottrarre o forse, sapendo che qualche “eccellenza intoccabile” aveva messo gli occhi sulla ragazzina, la riteneva colpevole di aver indotto in tentazione, perché troppo bella, troppo alta, troppo donna. Anche questa era la mentalità dell’epoca.
E di nuovo la storia di Luciedda cade nell’oblio.
Il 13 marzo 2025 il comune di Montedoro ha celebrato con solennità la memoria di Lucia Mantione, dedicandole la piazzetta antistante la caserma dei Carabinieri.
Sulla tomba di Luciedda si legge:
Fiore falciato proditoriamente e trapiantato nel giardino celeste lasciando inconsolabili i genitori