La demenza digitale non è un problema per chi entra nella terza età, semmai è vero il contrario, perché un recente studio monumentale rivela che l’uso regolare delle tecnologie digitali rallenta il declino cognitivo. Se usata attivamente, la tecnologia è addirittura alleata della salute del cervello.
Prima di esaminare le risultanze dello studio, va precisato che la generazione che inizia ora a fronteggiare ora la terza età è quella che ha vissuto in prima persona il passaggio dai dischi in vinile ai CD, dai Commodor 64 ai computer, dai rullini per sviluppare le fotografie alle foto digitali, dai lamenti strazianti del modem 64k alla società costantemente online, e dal telefono con i numeri da comporre girando la rotella al telefonino.
Gli over-50 sono i testimoni della rivoluzione digitale, iniziata in una fase anagrafica della loro vita in cui non era eccessivamente difficile adattarsi ai grandi cambiamenti, apprendere come usare i nuovi strumenti e sfruttarne la comodità. All’arrivo degli smartphone e della social-mania, tuttavia, erano già maturi e strutturati, pertanto relativamente “immuni” a cadere nella dipendenza digitale e a subirne gli “effetti avversi”.
Lo studio che ha rivelato la sorprendente associazione tra uso della tecnologia e rallentamento del declino cognitivo
Pubblicato su “Nature Human Behavior” lo studio ha analizzato i dati di 136 ricerche condotte su oltre 411.000 partecipanti ultracinquantenni. I ricercatori delle università del Texas e Baylor hanno confrontato i risultati di test cognitivi e diagnosi di demenza tra chi utilizzava regolarmente dispositivi digitali e chi ne faceva un uso limitato o nullo. Hanno scoperto che coloro che usano computer, email e smartphone mostrano un rischio nettamente inferiore di declino cognitivo rispetto a chi non ne fa uso.
Le possibili cause del rallentamento del declino cognitivo
Questo effetto protettivo sembra derivare dalla stimolazione cognitiva fornita dall’interazione con le tecnologie digitali. Risolvere problemi, sviluppare idee e comprendere il funzionamento della nuova tecnologia allenano la mente, mantenendola attiva, reattiva e adattiva. A differenza di quanto avviene, ad esempio, per la televisione, che pur essendo una “finestra sul mondo” ha bisogno di ben poche attività e stimolazioni mentali. Leggere le notizie, risolvere quiz, comunicare con amici e familiari, commentare un post, organizzare la vita con l’aiuto di calendari digitali, sono tutte azioni che stimolano e consentono di mantenersi in contatto anche socialmente, magari a dispetto di qualche impedimento fisico.
Sorprendentemente, lo studio non ha evidenziato alcun effetto negativo correlato all’utilizzo di queste tecnologie.
Lo studio apre prospettive incoraggianti per la prevenzione del declino cognitivo.
L’inclusione digitale degli anziani, oltre a favorire la connessione sociale, potrebbe rappresentare una strategia efficace per preservarne le capacità cognitive e mantenere le loro menti attive.
Un anno fa, Marc Zao-Sanders pubblicò su Harvard Business reviewun’analisi sull’utilizzo reale dell’intelligenza artificiale generativa da parte del pubblico, dopo la sua diffusione generale. Rilevò in tale occasione che l’uso si divideva quasi equamente tra esigenze personali e aziendali, e circa la metà degli utenti la utilizzavano per entrambi i contesti.
Da allora l’interesse degli utenti è raddoppiato e gli investimenti nell’IA stanno crescendo a dismisura, i governi stanno assumendo posizioni più enfatiche ed esplicite e la posta in gioco è altissima, addirittura il futuro dell’umanità, secondo alcuni. Ed ecco che è arrivato l’aggiornamento di quell’analisi con la comparazione di cosa è accaduto rispetto al 2024.
OpenAI ha lanciato numerosi nuovi modelli (con la promessa di consolidarli tutti in un’unica interfaccia unificata). Il ragionamento a catena di pensieri, in cui l’IA sacrifica la velocità per ottenere risposte più approfondite e accurate, condividendo con l’utente i passaggi intermedi del ragionamento prima di arrivare a una risposta finale, è diventato più diffuso. I comandi vocali consentono interazioni più numerose e diverse, i costi si sono notevolmente ridotti e l’accesso si è ampliato.
“Ho adottato la stessa metodologia dell’anno scorso – precisa Marc Zao-Sanders – ma ho setacciato una quantità maggiore di dati”.
Cosa emerge dall’analisi? Ci sono 38 nuove voci tra i 100 motivi di uso più frequenti, e i primi 10 motivi indicano uno spostamento dalle applicazioni tecniche a quelle emotive e, in particolare in aree come la terapia, la produttività e lo sviluppo personale.
Gli utenti usano l’Intelligenza Artificiale Generativa per applicazioni emotive ed intrinsecamente più umane
Terapia e compagnia sono ora il principale motivo di uso dell’IA. Tre vantaggi della terapia basata sull’IA sono emersi chiaramente: è disponibile 24 ore su 24, 7 giorni su 7, è relativamente poco costosa (anche gratuita in alcuni casi) e non comporta il rischio di essere giudicati da un altro essere umano. Il fenomeno dell’IA per la terapia è stato osservato anche in Cina. E sebbene il dibattito sul pieno potenziale della terapia computerizzata sia ancora in corso, ricerche recenti offrono una prospettiva rassicurante: gli interventi terapeutici forniti dall’IA hanno raggiunto un livello di sofisticazione tale da essere indistinguibili dalle risposte terapeutiche scritte da esseri umani.
“Organizzare la mia vita” è il motivo al secondo posto, una sorta di assistente personale per ottimizzare abitudini, azioni e a volte anche prestazioni professionali.
“Trovare uno scopo” al terzo posto. Determinare e definire i propri valori, superare gli ostacoli e intraprendere passi per l’auto-sviluppo (ad esempio, consigliare cosa fare dopo, riformulare un problema, aiutare a rimanere concentrati) ora compaiono frequentemente sotto questo titolo.
C’erano altre voci più in basso nell’elenco per le quali vediamo l’IA che ci aiuta con il lato più delicato dell’essere umano. Stiamo usando l’IA per aumentare la nostra fiducia, per avere conversazioni profonde e significative e persino per cercare di interagire con i defunti.
La maggior parte degli esperti si aspettava che l’IA si affermasse prima e soprattutto nelle aree tecniche, quindi l’elemento intrinsecamente umano è un po’ una sorpresa.
Sradicare il razzismo con il razzismo inverso è follia che distrugge l’eccellenza e la civiltà.
Razzismo inverso in Gran Bretagna
Le forze armate britanniche non vogliono più assumere reclute bianche. L’Ofsted (l’ente governativo che si occupa di istruzione e servizi per l’infanzia) vuole dare priorità agli insegnanti non bianchi.
Recentemente il Capo della polizia del West Yorkshire, John Robins (dove, per inciso, la criminalità armata è ai massimi storici), si è detto dice preoccupato per il fatto che solo il 9% degli agenti di polizia proviene dalle minoranze etniche, sebbene queste rappresentino il 23% degli abitanti della contea. Ed ecco che le assunzioni di candidati bianchi vengono sospese (e a coloro che già ricoprono un incarico vengono imposti corsi di formazione sui “privilegi dei bianchi”). Sembra che i potenziali candidati siano suddivisi in livelli in base all’etnia, ottenendo dei punteggi di agevolazione se neri e asiatici dell’Estremo Oriente o asiatici del Sud-Est .
Robins non è il primo alto funzionario di polizia a tentare questa mossa (e certamente non sarà l’ultimo). Il capo della polizia del Cheshire, Simon Byrne, criticato dall’allora Segretario di Stato per l’Interno Theresa May per non avere alcun agente di polizia di colore, ha ammesso di aver “considerato di violare la legge” pur di accelerare il reclutamento di candidati di colore e di minoranze etniche, per via delle alte pressioni subite in tal senso.
L’attuale governo britannico sembra determinato a criminalizzare l’islamofobia, sebbene perfino le critiche legittime all’Islam o ai musulmani in generale siano – di fatto – illegali.
Razzismo inverso in Europa
Mentre l’America abbandona in massa le politiche DEI (diversità, equità, inclusione), l’Europa sembra sprofondare ulteriormente nella loro palude.
In Francia, il Ministero dell’Istruzione ha riformato i programmi scolastici, enfatizzando il razzismo sistemico e la colpa del colonialismo.
In Svezia, l’autorità di polizia ha lanciato iniziative di formazione su misura per i candidati non bianchi, applicando criteri restrittivi per quelli bianchi.
I consigli di amministrazione norvegesi ora richiedono il 40% di volti non maschili e non bianchi.
I broadcaster tedeschi ARD e ZDF assumono solo fra chi seleziona una casella di diversità.
Il Rijksmuseum olandese, nel frattempo, ha deciso che la storia olandese è troppo olandese, quindi la stanno riscrivendo per rendere i colonizzatori più cattivi.
Il Centro interfederale belga per le pari opportunità garantisce “misure positive” per le assunzioni di persone non bianche.
Il Ministero del Lavoro spagnolo ha fissato obiettivi di diversità per i posti di lavoro nella pubblica amministrazione, dando priorità alle minoranze etniche.
A Milano, le facoltà universitarie ora richiedono ai candidati di presentare dichiarazioni in cui si obbligano a rispettare gli obiettivi di equità, diversità e inclusione.
In Danimarca, aziende come Novo Nordisk legano i bonus dei dirigenti alle assunzioni di personale diversificato.
E la Commissione UE ha fissato obiettivi per il 50% di donne e una maggiore rappresentanza delle minoranze nella leadership entro il 2025, il che non lascia molto tempo ai dipendenti maschi europei bianchi per dimettersi, andare in pensione anticipata o suicidarsi, a seconda di quale sia la soluzione più conveniente.
L’assurdità del razzismo inverso
L’idea stessa di poter sradicare il razzismo con azioni razziste di senso inverso dovrebbe essere ridicola per tutti coloro che sono muniti di buonsenso. Nel migliore dei casi, imporre l’uguaglianza è un errore in buona fede; nel peggiore dei casi, è la morte dell’eccellenza e quindi, in definitiva, della civiltà stessa.
Non si possono sacrificare la genialità, la verità e la competenza per la menzogna infantile che tutti sono uguali.
Uguali in dignità? Certo.
Uguali nelle capacità? No. Le capacità sono individuali e prescindono da ogni altro aspetto. Non discriminare è giusto e logico, ma qui siamo nella discriminazione al contrario, nella limitazione in base al sesso o all’etnia a prescindere dalle capacità.
Le eccellenze come Mozart, Beethoven e Schubert devono poter emergere in quanto tali, a prescindere dal colore della loro pelle. Che senso ha discriminarli in quanto maschi e bianchi? È farsi scacco matto da soli.
Gli architetti di questa follia – i politici, gli accademici e i dirigenti aziendali – non pagheranno il prezzo dei loro errori. Sono troppo benestanti, troppo isolati nelle loro torri d’avorio. Siamo noi, i plebei, a sopportare il costo: società frammentate, culture vuote e istituzioni che privilegiano il colore della pelle rispetto alle competenze. Quando le forze dell’ordine valorizzano le quote piuttosto che le condanne, le università sfornano laureati pieni di sensi di colpa al posto di pensatori, e la storia viene riscritta per vergognare invece che per ispirare – cosa resta? Una civiltà in ginocchio, che si scusa per esistere.
Recenti studi mettono in luce una preoccupante contaminazione da acido trifluoroacetico (TFA), un composto organofluorurato persistente, nel vino europeo e nelle acque potabili italiane. Il TFA si forma attraverso la degradazione atmosferica di refrigeranti a base di idrofluorocarburi o quella ambientale di pesticidi contenenti PFAS. Una volta generato, può ricadere al suolo con la pioggia o accumularsi nel terreno e nelle acque, contaminando coltivazioni e altre fonti alimentari.
Una ricerca condotta dalla Pesticide Action Network (PAN) Europe ha analizzato 49 vini provenienti da 10 paesi, Italia inclusa: 10 vini prodotti prima del 1988 e 39 vini più recenti. Mentre nei vini più vecchi non è stata riscontrata alcuna traccia di TFA, i vini recenti sono contaminati, con una concentrazione circa 100 volte superiore ai livelli medi precedentemente misurati nelle acque superficiali e potabili (già elevati).
I tre vini italiani analizzati nello studio, provenienti da Veneto, Trentino e Toscana (prodotti tra il 2022 e il 2024), confermano la presenza di contaminazione da TFA. Anche 4 su 5 vini biologici analizzati presentavano contaminazione da TFA, sebbene privi di residui di pesticidi rilevabili. Il 94% dei vini prodotti con metodi convenzionali conteneva residui di 8 pesticidi e metaboliti, con un totale di 18 pesticidi diversi riscontrati in tutti i campioni, inclusi due fungicidi PFAS, fluopyram e fluopicolide.
Questa elevata concentrazione di TFA, secondo gli esperti, indica un massiccio bioaccumulo nelle piante, suggerendo un’ingestione di TFA significativamente maggiore di quella precedentemente ipotizzata.
La fonte principale di contaminazione da TFA, secondo uno studio dell’Agenzia tedesca per l’ambiente, sembrerebbe essere l’impiego di pesticidi in agricoltura (76%), seguito dalle precipitazioni (da gas fluorurati usati nei sistemi di raffreddamento) e dagli impianti di trattamento delle acque reflue e dal letame. Helmut Burtscher-Schaden, chimico ambientale della GLOBAL 2000, sottolinea l’allarmante aumento della contaminazione dal 2010, attribuibile, direttamente o indirettamente, all’uso di pesticidi PFAS.
Questo aumento è significativo se confrontato con uno studio del 2017 del laboratorio di riferimento dell’UE, CVUA di Stoccarda, che rilevava una concentrazione mediana di 50 µg/l (con un picco di 120 µg/l) in 27 vini europei.
Il TFA era considerato sostanzialmente innocuo
Il TFA, inizialmente considerato sostanzialmente innocuo dal punto di vista tossicologico, è ora oggetto di crescente preoccupazione. Uno studio del 2021 ha evidenziato gravi malformazioni fetali in conigli esposti a TFA, sollevando dubbi sulla sua potenziale nocività per la salute riproduttiva umana. La sua persistenza nell’ambiente lo rende un indicatore di contaminazione ambientale.
La PAN Europe chiede alla UE un intervento urgente, in particolare un voto a favore del divieto del flutolanil, un pesticida PFAS che rilascia TFA.
Contaminazione da TFA, PFOA e PFOS nelle acque potabili
Un’indagine indipendente di Greenpeace Italia, “Acque senza veleni”, condotta tra settembre e ottobre 2024 su 235 città italiane, indica la presenza di PFAS, tra cui TFA, in quattro campioni di acqua potabile su cinque, prelevati per lo più da fontanelle pubbliche. Il 47% dei campioni presentava PFOA (sostanza certamente cancerogena per l’uomo), il 22% PFOS (possibile cancerogeno), e il 40% TFA. Le regioni più colpite sono la Sardegna, il Trentino Alto Adige e il Piemonte. Il comune di Castellazzo Bormida (AL) ha registrato il valore massimo di TFA (539,4 nanogrammi/litro). Greenpeace sottolinea l’inadeguatezza dei limiti europei in via di adozione (100 nanogrammi/litro per la somma di 24 molecole), superati dalle evidenze scientifiche più recenti.
I controlli sulla contaminazione da PFAS sulle acque potabili sono per lo più assenti
Nonostante l’Italia ospiti alcuni dei più gravi casi di contaminazione dell’intero continente europeo, come dimostrano le vicende della Miteni di Trissino (Vicenza) e della Solvay a Spinetta Marengo (Alessandria), a oggi i controlli sui PFAS nelle acque potabili sono per lo più assenti o limitati a poche aree geografiche.
Nell’ambito delle sue analisi indipendenti, Greenpeace Italia ha inoltre verificato la presenza nelle acque potabili italiane dell’acido trifluoroacetico, la molecola del gruppo dei PFAS più diffusa sul pianeta, per cui nel nostro Paese non esistono dati pubblici. Il Tfa è una sostanza persistente e indistruttibile ancora oggetto di approfondimenti scientifici che, per le sue stesse caratteristiche, non può essere rimossa mediante i più comuni trattamenti di potabilizzazione.
Il governo italiano ha presentato al Parlamento il decreto legislativo n. 260 (approvato il 13 marzo), che introduce limiti per il TFA (10 microgrammi/litro) e per altri quattro PFAS pericolosi (20 nanogrammi/litro). Tuttavia, Greenpeace auspica un ulteriore miglioramento del testo per ridurre ulteriormente i limiti e per vietare la produzione e l’uso di questi inquinanti.
L’Europa non vuole mollare gli PFAS
L’Europa, invece, sembra orientata verso una posizione più cauta, con la commissaria Ue per l’Ambiente, Jessika Roswall, che ha escluso strette normative prima del 2026. Anche l’ex premier italiano ed ex presidente della Banca Centrale Europea Mario Draghi ha espresso pubblicamente preoccupazioni riguardo all’impatto di un divieto immediato delle “sostanze necessarie” anche per le tecnologie green, per le quali attualmente “non esistono alternative”. Il suo “Whatever it takes” si estende, dunque, anche alla necessità di proseguire a contaminare il pianeta e porre a rischio la salute degli esseri umani con inquinanti eterni, ma è per “salvare il pianeta”.
Mummia naturale di 7.000 anni trovata nel riparo roccioso di Takarkori nel sud della Libia.
Università Sapienza di Roma
La scoperta sorprendente di un lignaggio ancestrale nordafricano
Un team internazionale condotto da ricercatori dell’Università della Sapienza (Roma) e dal Max Planck Institute for Evolutionary Anthropology (Lipsia, Germania) ha sequenziato i geni di due donne, vissute 7000 anni fa nell’Africa settentrionale, durante uno dei periodi in cui il Sahara era una lussureggiante savana e non la distesa desertica odierna.
Mummia naturale di 7.000 anni trovata nel riparo roccioso di Takarkori nel sud della Libia. Università Sapienza di Roma
Prima di tale lavoro, la convinzione prevalente tra gli studiosi era che la diffusione della pastorizia in questa regione fosse strettamente legata all’arrivo di popolazioni orientali, portatrici di nuove tecniche agricole e animali domesticati, e si aspettavano, dunque, che tali migrazioni avessero lasciato un’impronta genetica significativa nelle generazioni successive, fino ad una vera e propria sovrapposizione.
Le migrazioni e le interazioni culturali nella preistoria africana sono state più sfumate e complesse di quanto si riteneva.
In particolare ci si aspettava la mescolanza genetica rilevante nelle aree dove la pastorizia si diffuse per prima, come è il caso della popolazione che abitava nella zona del riparo roccioso di Takarkori, (nel sud-ovest della Libia), dove le evidenze archeologiche indicano che l’insediamento fu tra i primi a praticare l’allevamento di bestiame.
L’analisi genomica approfondita dei due degli individui scoperti nel riparo roccioso di Takarkori, ha invece parzialmente riscritto questa narrazione, offrendo un quadro più sfumato, dinamico e complesso delle migrazioni e delle interazioni culturali nella preistoria nordafricana. Non ci fu alcuna sostituzione genetica e quell’antica gente, pur in contatto con i migranti, apprese senza lasciarsi assorbire, né culturalmente, né geneticamente.
I resti delle due donne, chiamate TKH001 e TKH009, mummificate in modo naturale, hanno consentito l’estrazione e il sequenziamento del DNA antico. Questa fase dell’analisi è stata condotta con tecniche avanzate nei laboratori specializzati di Firenze e presso l’Istituto Max Planck.
Il risultato più sorprendente dello studio, guidato dall’antropologa evolutiva Nada Salem del Max Planck Institute, è stato l’identificazione di un lignaggio ancestrale nordafricano precedentemente sconosciuto.
Un lignaggio ancestrale nordafricano precedentemente sconosciuto.
Le due donne avevano un profilo genetico nettamente distinto, dunque non erano strettamente imparentate tra di loro. Avevano inoltre una presenza genetica di derivazione Neanderthal dieci volte inferiore a quella osservata nelle popolazioni che all’epoca vivevano fuori dall’Africa ma significativamente superiore a quella riscontrata nei genomi sub-sahariani moderni.
Questa caratteristica, corroborata dall’analisi del DNA mitocondriale, indica un livello importante di isolamento genetico e ci conferma anche che l’apporto di DNA neanderthaliano in Africa giunse attraverso i contatti e le migrazioni delle popolazioni orientali.
Ricordiamo che i Neanderthal, secondo l’ipotesi più accreditata attualmente da antropologi e genetisti, si svilupparono e diffusero in Europa e Asia, ma non in Africa, dove permaneva l’homo sapiens. Ad un certo punto i sapiens uscirono dall’Africa e si ibridarono con i Neanderthal e i Denisoniani. Successivi flussi migratori in senso inverso “portarono” tali contributi genetici in Africa, dove permangono presenti in misura nettamente inferiore.
La parentela con i cacciatori-raccoglitori del Marocco
Le due mummie hanno inoltre evidenziato affinità genetica con popolazioni di cacciatori-raccoglitori più antiche, che vivevano nella zona del Marocco fra i 15.000 ed i 50.000 anni fa, molto prima dell’arrivo dei pastori da oriente. Le evidenze archeologiche indicano che il popolo di Takarkori fu tra i primi a praticare la pastorizia, a differenze degli antenati marocchini. L’adozione di questa pratica senza un significativo scambio genetico è un aspetto particolarmente interessante, perché suggerisce che la popolazione del Takarkori apprese la pastorizia per scambio graduale.
Raffigurazioni di umani e bovini, risalenti allo stesso periodo di sepoltura delle mummie analizzate, provenienti dal medesimo sito archeologico. Foto: Fondazione Passaré
Il confronto con il genoma popolazioni moderne ha inoltre rivelato affinità genetica con i Fulani del Sahel, coerente con le prove archeologiche di un’espansione pastorale dal Sahara centrale. Questa espansione, probabilmente causata dalla desertificazione progressiva del Sahara, non implicò però una completa sostituzione della popolazione locale. La presenza umana nell’Africa settentrionale fu dunque stabile, sia prima che dopo il periodo umido africano.
Precedenti studi avevano suggerito di spiegare la differenza del genoma africano con con una mescolanza tra antenati Natufiani (cultura preagricola orientale) e un componente “sub-sahariano” non identificato. Un antenato comune alle popolazioni africane, ma non a quelle del resto del mondo. Questa ricerca dimostra che il componente “sub-sahariano” ignoto è in realtà un lignaggio nordafricano più ancestrale, precedentemente sconosciuto e preesistente alla diffusione della pastorizia.
L’analisi del sito archeologico di Takarkori offre ulteriori spunti: le 15 sepolture, prevalentemente di donne e bambini, suggeriscono l’esistenza di dinamiche sociali e pratiche di sepoltura specifiche, in una comunità che probabilmente aveva circa 1000 individui, non soggetti a forte consanguineità.
Il periodo umido africano
Il periodo umido africano è un’epoca compresa fra 14.600 e 5.500 anni fa in cui la parte settentrionale dell’Africa era umida e l’attuale deserto del Sahara era verde di alberi, vegetazione, fiumi e laghi. Si trattò di una fluttuazione climatica causata probabilmente dalla combinazione tra moto precessionale, inclinazione assiale e monsoni, che spostò di conseguenza la cintura tropicale delle piogge. Fu preceduto da numerosi altri periodi simili (ci sono indizi per annoverarne più di 200 e per ritenere che accada sistematicamente ogni 20.000 anni) a partire da 7-8 milioni di anni fa. Le evidenze raccolte da antichi depositi lacustri, campioni di polline e reperti archeologici confermano la presenza costante di attività umane, come la caccia, l’allevamento e la raccolta di risorse, in quella che oggi è una regione desertica.
I delfini parlano tra di loro, hanno suoni identificativi individuali (come i nostri nomi propri e) – a differenza degli umani – non si interrompono, non si sovrappongono e non si urlano a vicenda. Insomma: oltre a possedere un linguaggio complesso e articolato, seguono regole di una buona conversazione.
A questa straordinaria ipotesi sono giunti, tra gli altri, i ricercatori dell’Istituto russo Karadag Nature Reserve, studiando per alcuni anni due delfini tursiopi del Mar Nero, Yasha (maschio) e Yana (femmina).
Lo studio russo si è focalizzato sull’analisi dei pacchetti di impulsi mutuamente non coerenti, segnali acustici emessi dai delfini durante periodi di relativa quiete in una piscina di cemento di grandi dimensioni presso la Stazione Scientifica Karadag T.I. Vyazemsky. L’utilizzo di un sistema di registrazione a due canali, con una tecnologia avanzata in grado di catturare frequenze fino a 220 kHz e una gamma dinamica di 81 dB, ha permesso di registrare con precisione i segnali acustici e di attribuirli al singolo delfino che li aveva emessi.
La caratteristica più significativa dei segnali acustici esaminati è la loro complessità: ciascuno presenta una forma d’onda e uno spettro unici, diversi da tutti gli altri all’interno dello stesso pacchetto e da quelli emessi successivamente. Ciò ha portato i ricercatori a ipotizzare che ogni singolo impulso rappresenti una “parola”, mentre l’intero pacchetto costituisca una “frase”.
Yasha e Yana si sono alternati nell’emissione degli impulsi, senza interruzioni reciproche, il che suggerisce una forma di comunicazione dialogica, dove l’ascolto attento precede la risposta. Uno schema di conversazione con pause, tonalità e tempi del tutto analogo a quello umano.
La durata estremamente breve degli impulsi è un elemento cruciale che distingue il “linguaggio” dei delfini da quello umano. Mentre il linguaggio umano si basa su una sequenza di fonemi nel tempo, nel caso dei delfini, ogni “parola” sembra essere costituita da una combinazione simultanea di diversi estremi spettrali, distribuiti su una vasta gamma di frequenze (da 6-15 kHz fino a 160 kHz). Questa caratteristica implica una capacità di elaborazione delle informazioni acustiche straordinariamente sviluppata, ben superiore a quella umana.
Il confronto con i criteri di Hockett per il linguaggio umano evidenzia la notevole somiglianza tra il linguaggio dei delfini e quello umano.
La ricerca russa – pur nei limiti delle condizioni di cattività e dei soli due esemplari esaminati – indica l’esistenza di un linguaggio parlato altamente sviluppato nei delfini, con caratteristiche complesse e analogie sorprendenti con quello umano, ma con una struttura acustica fondamentalmente diversa e adattata all’ambiente acquatico.
La comunicazione tra i delfini ha diverse finalità, innanzitutto la protezione delle femmine e della specie. I maschi dei tursiopi, si riuniscono in gruppi da quattro-cinque, si scambiano informazioni utili e comunicano allerta in caso di pericolo per le femmine. Usano una serie di impulsi, ripetuti da 2 a 49 volte, con i quali formano frasi specifiche.
Ogni delfino ha il suo “fischio”, che funziona come il nome dell’uomo, in grado di differenziare ciascun esemplare dall’altro. I caratteristici suoni emessi sono chiamati “fischi”, “clic” e “scatti” e possono variare di frequenza, durata e modulazione. Vengono associati anche a gesti corporei della coda e delle pinne, ampliando la gamma di messaggi trasmessi esattamente come gli umani comunicano anche col linguaggio non verbale.
L’incredibile capacità di elaborazione acustica dei delfini Yasha e Yana, e la loro sofisticata abilità comunicativa, aprono nuove prospettive di ricerca e sollecitano lo sviluppo di tecnologie innovative per facilitare la comunicazione tra umani e delfini, superando le barriere fisiologiche e permettendo di comprendere questo affascinante linguaggio e la complessa intelligenza che lo sottende.
Studi su esemplari in libertà
Ha studiato la comunicazione dei delfini anche il gruppo di ricerca guidato da Bruno Diaz Lopez, direttore del Bottlenose Dolphin Research Institute (BDRI), a Golfo Aranci, in Sardegna, che ha studiato una sessantina di tursiopi in libertà, sia in superficie che sott’acqua.
Lo studio ha riscontrato, ad esempio, che quando si devono contendere il cibo, l’esemplare dominante pronuncia un “discorso” che induce gli altri a desistere. Hanno riscontrato differenza tra i dialoghi tra due esemplari e le conversazioni di gruppo, il tipo di segnale emesso per verificare se la femmina è in fase ovulatoria e le diverse conversazioni per la formazione di gruppi intenti a specifiche attività.
Gli studi di Liz Hawkins, famosa ecologa marina esperta di cetacei, hanno individuato almeno 1600 suoni distinti, formanti 186 categorie, a conferma di un sistema di comunicazione complesso ed elaborato. Successivi studi hanno inoltre riscontrato che ciascun gruppo sociale ha un suo proprio “dialetto” non sempre comprensibile per i cetacei estranei allo stesso.
Alcuni ricercatori americani, in uno studio pubblicato su Pnas hanno dimostrato la capacità dei delfini di modificare il loro linguaggio quando si rivolgono ai piccoli. Il linguaggio diventa materno, anche questo molto simile a quello delle donne. Le femmine adulte dei delfini, con i piccoli, modificano la frequenza delle vocalizzazioni, e in questo modo parlano più lentamente, per facilitare la comprensione dei piccoli e rinsaldare il legame madre-figlio.
Poiché riesce a parlare così bene, il delfino è anche in grado di apprendere capacità tecniche e relazionali. Il loro cervello è evoluto e presenta complessità neurale, con aree specializzate per diverse funzioni cognitive. Mostra, inoltre, un’enorme espansione delle regioni coinvolte nella percezione sensoriale e nella comunicazione. Gli studi condotti su delfini dal naso a bottiglia hanno rivelato una sorprendente capacità di apprendimento sociale. Questi affascinanti cetacei sono stati osservati mentre imparavano a cacciare semplicemente osservando i loro compagni.
La memoria dei delfini è straordinaria, superando persino quella di altri mammiferi, ad eccezione dell’uomo. Una ricerca ha dimostrato che questi intelligenti animali sono in grado di riconoscere un compagno con il quale hanno interagito pur se solo per pochi mesi, anche dopo 20 anni, basandosi unicamente sul suo fischio distintivo. Altri studi hanno determinato che in presenza di situazioni complesse da risolvere i delfini aumentano le loro conversazioni per elaborare una soluzione condivisa.
IA per tradurre il linguaggio dei delfini
Recentemente Google ha annunciato un nuovo modello aperto di intelligenza artificiale (IA) chiamato DolphinGemma, progettato per aiutare i ricercatori a comprendere meglio il modo in cui comunicano i delfini e potenzialmente per iniziare a interagire con loro. È il risultato di una collaborazione tra Google e il Wild Dolphin Project (WDP), che dal 1985 conduce il più longevo progetto di ricerca subacquea sui delfini, seguendoli nel corso delle generazioni.
Questo approccio non invasivo, basato sull’osservazione “nel loro mondo, alle loro condizioni”, ha permesso di raccogliere un insieme di dati unico e incredibilmente ricco: decenni di registrazioni video e audio subacquee, accuratamente associate all’identità di ogni delfino, alla sua storia di vita e ai comportamenti osservati. È qui che entra in gioco DolphinGemma.
L’intelligenza artificiale, addestrata estesamente sul database acustico del WDP, aiuterà i ricercatori a comprendere la comunicazione dei delfini e possibilmente a gettare le basi per un protocollo di dialogo interattivo.
I delfini si drogano… forse
In un documentario sui delfini della BBC, le telecamere camuffate hanno ripreso i cetacei importunare un pesce palla fino a farlo gonfiare e rilasciare la tetrodotossina, quindi passarselo tra di loro. Subito dopo si rilassavano, lasciandosi andare in superficie in uno stato catatonico. Sebbene non si tratti di uno studio scientifico vero e proprio, la deduzione è che la neurotossina del pesce palla, assunta in piccole dosi, abbia un effetto rilassante e narcotizzante noto e gradito ai delfini e che la scena ripresa sia a tutti gli effetti equivalente ad uno “sballo” di gruppo, nel quale – però – il pesce palla non si è divertito.
fermo immagine del documentario della BBC
I delfini in antichità
Le culture orientali antiche (egiziana, babilonese, ecc.) considerano il delfino come entità che accompagna i defunti verso l’aldilà o in connessione con le divinità del mare. Nell’antica Grecia era considerato una manifestazione del dio Apollo e animale sacro a Poseidone e a Venere.
Ma c’è un mito ancora più suggestivo che riguarda i delfini. Comincia con un gruppo di pirati che decidono di imprigionare un ricco e giovanissimo passeggero per venderlo come schiavo. Uno di loro, di nome Acete, si affeziona al giovinetto e lo protegge dalle angherie degli altri. Finché il viandante rivela la sua vera identità divina: è Dioniso, e scatena sui suoi rapitori tutta la sua ira, trasformando la nave in una festa dionisiaca selvaggia, con profumi inebrianti, piante e animali feroci.
I pirati, colti panico e delirio, si gettano fuori bordo. Acete prega Dioniso di risparmiare loro la vita e il dio acconsente, trasformandoli in delfini, asserviti al dio del mare.
Da allora i delfini cercano di redimersi, accompagnando le navi, salvando gli uomini che cadono in acqua e cercando di portare gioia ai naviganti.
E questo era il suggestivo modo in cui i nostri antenati spiegavano l’inusuale socievolezza di questi straordinari mammiferi e i loro comportamenti quasi “divini”.
Hydria a figure nere con Dioniso che trasforma i pirati in delfini, VII secolo a.C., VI secolo a.C., Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia, Roma
Simulazione numerica dell’esperimento che riproduce la formazione di una sequenza di gocce quantistiche.
Una pioggia quantistica è stata osservata a Firenze per la prima volta. Si tratta della formazione di file di gocce quantistiche in miscele di atomi ultrafreddi. Il fenomeno è dovuto alla tensione superficiale che, analogamente a quanto osservato nei liquidi classici, provoca la rottura di un filamento atomico in gocce per minimizzare la superficie di interfaccia. Lo studio, pubblicato su Physical Review Letters, costituisce un passo in avanti nella conoscenza dei liquidi quantistici e nello sviluppo di nuove tecnologie “atomiche”
Un team di ricercatori e ricercatrici del Consiglio nazionale delle ricerche, dell’Università di Firenze e del Laboratorio europeo di spettroscopie non lineare (Lens) ha osservato nel laboratorio di Miscele Quantistiche dell’Istituto nazionale di ottica del Cnr (Cnr-Ino) il fenomeno dell’instabilità capillare in un liquido non convenzionale: un gas quantistico ultra-diluito. Questo risultato ha importanti implicazioni per la comprensione e manipolazione di nuove forme di materia. Alla ricerca, pubblicata su Physical Review Letters, hanno collaborato anche ricercatori delle Università di Bologna, di Padova e dei Paesi Baschi (UPV/EHU).
Simulazione numerica dell’esperimento che riproduce la formazione di una sequenza di gocce quantistiche.
La pioggia che tutti conosciamo
Nella fisica dei fluidi è noto che la tensione superficiale di un liquido, dovuta alle forze di coesione intermolecolari, tende a minimizzare la superficie di interfaccia. Questo meccanismo è alla base di fenomeni macroscopici come la formazione delle gocce di pioggia o delle bolle di sapone. La tensione superficiale è anche all’origine del fenomeno dell’instabilità capillare, nota anche come instabilità di Plateau-Rayleigh, per cui un sottile getto di liquido si rompe formando una sequenza di goccioline. L’instabilità capillare è un meccanismo caratteristico dei liquidi con importanti applicazioni in campo industriale, biomedico e nelle nanotecnologie.
La pioggia quantistica
“In un gas atomico raffreddato a temperature prossime allo zero assoluto, gli atomi perdono la loro individualità e seguono le leggi della meccanica quantistica. In particolari condizioni questi sistemi, benché rimangano nella fase gassosa, si comportano come liquidi”. Grazie alla capacità di controllare con grande precisione le interazioni fra gli atomi, i fisici sono capaci, già da alcuni anni, di formare gocce quantistiche (quantum droplet) da gas ultrafreddi. Questi piccoli cluster di atomi, stabilizzati da effetti puramente quantistici, hanno proprietà analoghe ai liquidi classici.
Il team sperimentale, guidato dalla ricercatrice del Cnr-Ino Alessia Burchianti, ha studiato, mediante tecniche di imaging e manipolazione ottica, l’evoluzione dinamica di una singola goccia quantistica formata a partire da una miscela ultrafredda di atomi di potassio e rubidio. La goccia rilasciata in una guida d’onda, realizzata con un fascio di luce laser, si allunga formando un filamento, il quale, superata una lunghezza critica, si rompe in gocce più piccole. Il numero di queste gocce secondarie è proporzionale alla lunghezza del filamento al momento della rottura.
“Combinando esperimento e simulazioni numeriche è stato possibile descrivere la dinamica di rottura di una goccia quantistica in termini di instabilità capillare. L’instabilità di Plateau–Rayleigh è un fenomeno comune nei liquidi classici e osservato anche nell’elio superfluido, ma mai finora nei gas atomici.”, afferma Chiara Fort, ricercatrice dell’Università di Firenze che ha contribuito alla ricerca. “Le misure condotte nel nostro laboratorio da un lato permettono una comprensione sempre più accurata di questa peculiare fase liquida dall’altro mostrano come sia possibile realizzare array di quantum droplet per future applicazioni nel campo delle tecnologie quantistiche” aggiunge Luca Cavicchioli, primo autore dell’articolo, e ricercatore Cnr-Ino.
Alla scoperta del mantello del Mar Tirreno: nuove rivelazioni sulla formazione degli oceani
Uno studio internazionale, pubblicato su Nature Communications, evidenzia la presenza nel Mar Tirreno di un mantello terrestre molto diverso da quello osservato in ambienti tettonici simili, aprendo nuovi scenari per comprendere la formazione degli oceani. La ricerca, frutto dell’ultima spedizione IOPD 402, è a firma, tra gli altri, dell’Università di Pavia e del Cnr-Ismar
Il mantello terretre
Il nostro pianeta è suddiviso in tre strati principali: crosta, mantello e nucleo. Il mantello, situato sotto chilometri di sedimenti e rocce magmatiche, è normalmente inaccessibile e raggiungerlo è stato uno degli obiettivi principali delle trivellazioni scientifiche in mare.
La struttura del pianeta Terra
Negli anni ’80 si è scoperto che, in alcuni punti dell’Oceano Atlantico, il mantello affiora in corrispondenza delle dorsali oceaniche, catene montuose sommerse che originano la crosta oceanica e separano i continenti. Da allora, numerose spedizioni della nave da perforazione JOIDES Resolution sono state dedicate allo studio di questo strato. Tuttavia, solo cinque spedizioni sono riuscite a raccogliere più di 50 metri di rocce di mantello, prevalentemente lungo le dorsali oceaniche dell’Atlantico e del Pacifico.
La spedizione nel Mar Tirreno
La spedizione IODP 402 è stata finanziata dall’International Ocean Discovery Program (IODP), a cui partecipa IODP-Italia, e si è svolta nel mar Tirreno sotto la guida scientifica di Nevio Zitellini dell’Istituto di scienze marine del Cnr (Cnr-Ismar) e Alberto Malinverno del Lamont-Doherty Earth Observatory (Usa).
Il nuovo studio evidenzia negli ‘oceani nascenti’ come il Mar Tirreno, una natura geologica del mantello diversa rispetto a quella degli oceani maturi ed ai margini continentali.
il Mar Mediterraneo
La ricerca è pubblicata sulla rivista Nature Communications a firma, tra gli altri, dell’università di Pavia, del Cnr-Ismar e delle università di Catania, Firenze, Modena e Reggio Emilia.
“Il Mar Tirreno è un bacino oceanico molto giovane dal punto di vista geologico, formatosi circa 10 milioni di anni fa. Nel 1986, una perforazione scientifica ha consentito di raccogliere circa 30 metri di rocce provenienti dal mantello terrestre, caratterizzate da un impoverimento di elementi chimici legati ai processi di fusione magmatica. Questo significa che, in passato, parte del materiale del mantello ha subito un processo di fusione parziale, determinato dalla decompressione delle rocce mentre risalivano dalle decine di chilometri di profondità”, spiega Nevio Zitellini, Cnr-Ismar. “A queste grandi profondità, le rocce sono sottoposte a pressioni estremamente elevate, che impediscono ai fusi magmatici di separarsi e risalire. Tuttavia, quando il mantello si muove verso la superficie, la pressione diminuisce progressivamente, permettendo al magma di liberarsi e generare nuova crosta oceanica. Questo processo di fusione per decompressione è fondamentale non solo per comprendere la nascita degli oceani, ma anche il funzionamento interno del nostro pianeta, poiché influenza lo scambio chimico tra il mantello terrestre e gli strati più superficiali del nostro pianeta”.
il Mar Tirreno
La spedizione IODP 402 ha effettuato due perforazioni più profonde, a 170 e 130 metri, rivelando che il mantello del Tirreno non si è impoverito, durante il processo di risalita delle rocce del mantello, mantenendo quindi un elevato potenziale per generare nuovo magma. L’eterogeneità riscontrata in quest’area è superiore a quella osservata in altri ambienti tettonici, come dorsali oceaniche e margini continentali.
“Utilizzando osservazioni petrologiche e analisi geochimiche effettuate direttamente in nave, abbiamo dedotto che gran parte di questa eterogeneità è stata causata da magma che rimane intrappolato nelle rocce del mantello durante la risalita, spiega Alessio Sanfilippo, del Dipartimento di scienze della terra e dell’ambiente dell’università di Pavia e primo firmatario della pubblicazione. “Contrariamente alle ipotesi precedenti, il nostro lavoro mette in evidenza che la formazione di questi bacini oceanici senza una vera e propria crosta magmatica, non è dovuta al fatto che il mantello non produce fuso, ma che i fusi rimangono intrappolati nelle parti più profonde della litosfera, senza mai raggiungere la superficie terrestre”.
I risultati dello studio aprono nuove strade di ricerca che proseguiranno con ulteriori ricerche sui campioni raccolti per migliorare la comprensione dell’evoluzione geologica del nostro pianeta.
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Nuovo studio scientifico aggiunge un tassello alla bomba ambientale PFAS: danneggiano le cellule dello scheletro e disperdono il calcio nel corpo.
Pubblicato sulla rivista internazionale Chemosphere il nuovo studio dell’Università di Padova e dell’Ospedale di Vicenza, finanziato dalla Regione Veneto: analizzati i dati provenienti da oltre mille persone residenti nell’area rossa del Veneto. Confermata l’allerta sulla salute pubblica. Carlo Foresta: “I Pfas danneggiano le cellule dello scheletro e riducono la densità dell’osso, con conseguente liberazione di calcio circolante”.
Lo studio ha coinvolto 1.174 adulti provenienti da un’area da decenni interessata da contaminazione delle acque potabili.
I PFAS, utilizzati in numerosi prodotti industriali e di consumo, sono al centro di crescente preoccupazione per la salute pubblica. “Una delle più frequenti manifestazioni cliniche riscontrate in soggetti esposti anche a bassi livelli di PFAS è l’osteoporosi, una maggior fragilità dell’osso tipica dell’invecchiamento ma che si può già manifestare in giovane età laddove si sia esposti anche a basse concentrazioni di queste sostanze”, spiega il professor Carlo Foresta, coordinatore dello studio.
Precedenti studi dell’equipe del professor Foresta avevano infatti dimostrato, tra i primi a livello internazionale, una riduzione della densità ossea già clinicamente rilevata in diciottenni dell’area rossa del Veneto. “Successivamente abbiamo spiegato questo effetto dimostrando un’attività negativa dei PFAS sul recettore della vitamina D, ormone che favorisce la calcificazione dell’osso e l’assorbimento intestinale del calcio dalla dieta, nonché un deposito di queste sostanze nell’idrossiapatite, la principale componente inorganica dello scheletro dove lega il calcio stesso favorendo la solidità ossea”, prosegue Foresta.
In questo studio, i ricercatori hanno quindi misurato i livelli di PFAS, calcio, vitamina D e paratormone nel sangue di 655 uomini e 519 donne di età compresa tra i 20 e i 69 anni dell’area rossa del Veneto e hanno scoperto che soggetti con concentrazioni più elevate di PFAS presentavano anche livelli di calcio aumentati. Lo studio ha coinvolto ricercatori tra Padova, Vicenza e Napoli ed è il risultato di quattro anni di lavoro.
“Un aumento del calcio circolante può essere dovuto a un aumentato assorbimento intestinale mediato dalla vitamina D, a un aumento del paratormone, oppure a un maggior rilascio di calcio dai siti di deposito. E il più grande deposito di calcio del corpo umano è proprio lo scheletro”, spiega il professor Andrea Di Nisio, primo autore dello studio. “Poiché nel nostro studio vitamina D e paratormone non sono modificati, i nostri risultati dimostrano che l’aumento di calcio, anche se ancora entro il range di normalità, può essere segno di un’interferenza dei PFAS a livello dell’osso, dove, ricordiamo, i PFAS si accumulano in abbondanza. Un recente studio ha infatti dimostrato che i PFAS inducono un aumento dell’attività degli osteoclasti, le cellule dello scheletro deputate al riassorbimento di tessuto osseo, con conseguente liberazione di calcio e riduzione della densità dell’osso.”
Questo studio si inserisce in un contesto di crescente attenzione verso l’impatto ambientale dei PFAS, anche alla luce delle recenti evidenze della presenza di questi inquinanti su tutto il territorio nazionale. La contaminazione delle acque nel Veneto, iniziata diversi decenni fa, ha reso evidente come un problema localizzato possa trasformarsi in una questione di salute pubblica, sollecitando ulteriori ricerche e interventi preventivi.
“I nostri risultati ci spingono a riflettere su come un’esposizione prolungata a PFAS, anche se invisibile, possa avere ripercussioni sulla salute a lungo termine”, conclude il professor Foresta. “Abbiamo dimostrato che la ben nota associazione tra PFAS e osteoporosi, ormai dimostrata a livello internazionale, non è tanto mediata da una riduzione di vitamina D, quanto da un’azione diretta dei PFAS sull’osso con conseguente liberazione di calcio”.
Cosa sono i PFAS
I PFAS (acronimo di PerFluorinated Alkylated Substances, cioè sostanze perfluoroalchiliche e polifluoroalchiliche) sono un gruppo di fluoruri alchilici dotati di proprietà tensioattive. Sono noti anche come Forever Chemicals.
I PFAS conferiscono alle superfici idrofobicità e oleorepellenza. Si tratta di sostanze resistenti ai maggiori processi naturali di degradazione grazie alla presenza di legami molto forti tra atomi di fluoro e carbonio.
Vengono utilizzati per questo su molti materiali tra cui tessuti, tappeti e pellami, carta. Sono usati come coadiuvanti tecnologici nella produzione di fluoropolimeri. Si trovano ormai dappertutto: dalle pentole antiaderenti, a indumenti e scarpe impermeabili, fino ad alcuni imballaggi alimentari, pesticidi e acque del rubinetto.
I PFAS sono ovunque
Ad esempio troviamo PFAS:
– Nei prodotti ad uso domestico per conferire proprietà antiaderenti alle superfici interne delle pentole (come il Teflon®).
– In detergenti, lucidanti per pavimenti e vernici al lattice, come emulsionanti, tensioattivi o agenti umettanti.
– Nei trattamenti di tessuti, rivestimenti, tappeti e pelle per conferire resistenza all’acqua, all’olio, al suolo e alle macchie. Nei tessuti tecnici (come GORE-TEX®, Scotchgard™)
– Negli articoli medicali per impianti/protesi mediche e per prodotti come teli e camici chirurgici in tessuto non-tessuto per renderli impermeabili ad acqua e olio e resistenti alle macchie.
– Nella placcatura di metalli.
– Nella lavorazione del petrolio e nella produzione mineraria;
– Nella produzione di carte e imballaggi oleorepellenti e idrorepellenti.
– Nel settore aeronautico, aerospaziale e della difesa, per la produzione dei vari componenti meccanici;
– Nel settore automobilistico, per migliorare i sistemi di erogazione del carburante e per prevenire infiltrazioni di benzina;
– Nella produzione di cavi e cablaggi, grazie alla bassa infiammabilità;
– Nell’edilizia, per rivestire materiali che diventino resistenti agli incendi o agli agenti atmosferici (come tessuti di vetro, piastrelle, lastre di pietra, cemento o metalli). Inoltre, sono utilizzati come additivi nelle pitture;
– Nel settore elettronico, grazie alle proprietà dielettriche e idrorepellenti;
– Nel settore energetico, per coprire collettori solari e migliorare la loro resistenza agli agenti atmosferici;
– Nei prodotti antincendio, come schiume ed equipaggiamenti.
Attenzione a padelle, pentole e contenitori alimentari
Le padelle antiaderenti sono molto diffuse in tutte le cucine private e pubbliche, il rivestimento che conferisce loro l’antiaderenza è tradizionalmente realizzato proprio con PFAS o PFOA o PFOS o GenX, dove questi tre ultimi sono variazioni rientranti nella stessa categoria (non lasciatevi raggirare dalla diffusa tendenza a seppellire le informazioni sgradite dietro un cambio di denominazione). in particolare il GenX, definito PFAS di nuova generazione “sostenibile e sicuro” non ha alcuna differenza sul piano tossicologico rispetto agli altri. Quando c’è il bollino “PFOA FREE” sul pentolame, nel 99% dei casi il trattamento è stato sostituito proprio con il GenX che è sempre un PFAS.
Cosa fare allora? Evitare assolutamente l’uso di pentolame antiaderente se il rivestimento appare danneggiato (se non resta più attaccato alla pentola, ve lo state mangiando). Rimpiazzare per quanto possibile il pentolame antiaderente con quello in pietra o in acciaio non rivestito.
PFAS sono contenuti anche in imballaggi alimentari, stoviglie monouso, involucri di carta per i fast food, sacchetti di popcorn da cuocere nel microonde, scatole monouso compostabili per i cibi da asporto, imballaggi di carta riciclata per alimenti.
Attenzione ai cosmetici
Nell’idustria cosmetica i PFAS sono usati spesso in rossetti, fondotinta e mascara, soprattutto quelli a lunga resistenza o resistenti all’acqua. Una presenza più forte dei prodotti americani e canadesi, meno pervasiva – ma non assente – in quelli europei. Il problema è che gli studi scientifici dimostrano che i PFAS possono essere assorbiti attraverso la pelle, quindi usare cosmetici che li contengono non è raccomandabile.
Non essendoci ancora oggi un vero e proprio divieto all’uso di queste sostanze, tecnicamente le industrie cosmetiche non commettono reato e non sono neanche tenute a riportare alcuna specifica nell’etichetta.
Una soluzione è affidarsi ai marchi certificati bio, che usano oli vegetali per ottenere la resistenza all’acqua e l’effetto levigante, tuttavia molti marchi promuovono un prodotto come biologico anche se solo un ingrediente che lo compone lo è davvero. Una buona notizia è che in tutta la fase mestruale della loro vita, le donne riescono a smaltire buon parte di questi inquinanti, tuttavia, una volta terminata tale fase, le sostanze si accumulano progressivamente. E persistono
I PFAS sono una bomba ambientale
I PFAS sono sostanze mobili, oltre che persistenti e tossiche, e la combinazione di queste caratteristiche li rende pericolosi per la salute dell’uomo e per l’ambiente. I PFAS persistono anche negli organismi viventi, compreso l’uomo, dove risultano essere tossici ad alte concentrazioni e data la loro capacità di accumularsi negli organismi, la concentrazione è bioamplificata dalla catena alimentare e dall’esposizione ripetuta.
La contaminazione dell’uomo ai PFAS avviene principalmente per via alimentare, per inalazione e ingestione di polveri. I PFAS sono entrati ella catena alimentare attraverso l’acqua, il suolo, la vegetazione, le coltivazioni e gli animali. L’uso massiccio che ne è stato fatto (e che si continua a farne) ci immerge di fatto in una nuvola di tali sostanze. Si tratta di un problema globale.
I PFAS sono riconosciuti a livello medico come interferenti endocrini, in grado quindi di alterare tutti i processi dell’organismo che coinvolgono gli ormoni, responsabili dello sviluppo; del comportamento; della fertilità e di altre funzioni cellulari essenziali.
Le patologie maggiormente riscontrate, la cui causa è attribuita all’esposizione prolungata a queste sostanze, sono il tumore ai reni; il cancro ai testicoli; malattie della tiroide; ipertensione in gravidanza; colite ulcerosa; aumento del colesterolo e molte altre.
Infatti PFOA, PFOS e altri composti simili hanno mostrato di poter interferire con la comunicazione intercellulare, fondamentale per la crescita della cellula, aumentando così la probabilità di crescite cellulari anomale con conseguente formazione di tumori, specie in caso di esposizione cronica.
Recenti ricerche hanno inoltre messo in luce l’incremento delle patologie neonatali e delle donne in gravidanza nelle aree più contaminate: diabete gestazionale, neonati più piccoli e sotto peso rispetto alla media e altre malformazioni maggiori tra cui anomalie del sistema nervoso, del sistema circolatorio e cromosomiche.
Una mappa europea della contaminazione da PFAS (accertata e presunta) pubblicata su Le Scienze
L’Oms (Organizzazione mondiale della sanità) ha dichiarato che tutti gli esseri viventi hanno nell’organismo quantità di PFOA o di altre sostanze della famiglia dei PFAS, poiché esse hanno contaminato il mondo. Il sangue di qualsiasi individuo umano contiene queste sostanze, superando spesso la soglia minima.
Farmaci, cosmetici e prodotti per l’igiene personale inquinano le acque artiche: colpa delle basi internazionali di ricerca.
La scoperta si deve ad uno studio coordinato dall’Istituto di scienze polari del Consiglio nazionale delle ricerche, con la partecipazione dell’Università Sapienza e dell’istituto Sintef Ocean. La ricerca ha rilevato la presenza di farmaci e prodotti per la cura personale nelle acque del fiordo artico Kongsfjorden, alle isole Svalbard. Sul lungo periodo sono a rischio di sopravvivenza gli organismi acquatici che vivono in questo peculiare ecosistema marino. I risultati sono stati pubblicati su Science of The Total Environment.
Sono state individuate tracce di farmaci, cosmetici e prodotti per l’igiene della persona nelle acque marine superficiali e reflue nel Kongsfjorden, fiordo situato nell’arcipelago artico delle isole Svalbard. È quanto emerge da una ricerca coordinata dall’Istituto di scienze polari del Consiglio nazionale delle ricerche di Roma (Cnr-Isp) e realizzata in collaborazione con l’Università di Roma Sapienza e l’istituto di ricerca norvegese Sintef Ocean.
Lo studio, che implementa una ricerca sui sedimenti marini artici svolta nel 2024 dallo stesso gruppo di ricercatrici, ha rilevato la presenza di antibiotici, antipiretici, ormoni, antinfiammatori, antiepilettici, stimolanti, disinfettanti, caffeina e repellenti per insetti, sia in mare che nelle acque reflue provenienti dalle basi di ricerca internazionali a Ny-Ålesund, valutandone fonti e distribuzione nell’ecosistema marino.
Gli inquinanti persistono anche in conseguenza delle condizioni artiche che rallentano la naturale degradazione
“Questi composti hanno mostrato un’elevata persistenza nell’ambiente marino, acutizzata dalle condizioni artiche che rallentano i processi di degradazione naturale”, afferma Jasmin Rauseo, ricercatrice del Cnr-Isp. “Eseguendo una valutazione del rischio ecologico, abbiamo scoperto che la miscela di questi contaminanti può compromettere la salute degli organismi acquatici a diversi livelli della catena trofica, alterando le funzionalità del sistema endocrino e ormonale, con un potenziale aumento della resistenza agli antibiotici. La distribuzione spaziale e temporale dei composti ci ha fatto capire che, oltre all’afflusso proveniente dalle emissioni locali, il trasporto oceanico e atmosferico contribuisce alla confluenza di questi contaminanti nel fiordo”.
Le basi internazionali di ricerca non hanno adeguati sistemi di depurazione delle loro acque reflue.
Secondo lo studio, questa presenza è anche causata dalla mancanza di adeguati sistemi di trattamento delle acque reflue, mentre la stabilità ambientale dei contaminanti è favorita dalle basse temperature e dalla scarsa luce solare.
“Queste evidenze mostrano il potenziale rischio a lungo termine per gli ecosistemi artici e, conseguentemente, per le popolazioni locali. L’Artico sta attualmente affrontando sfide ambientali legate alla presenza di nuovi inquinanti, nei confronti dei quali non sono state ancora adottate misure di contenimento a livello mondiale”, conclude Luisa Patrolecco, ricercatrice del Cnr-Isp responsabile del gruppo di ricerca. “Per questo motivo, è urgente intensificare i programmi di monitoraggio, dando priorità a studi che possano contribuire a promuovere politiche globali per limitare la contaminazione dei mari artici, salvaguardandone la loro biodiversità, così unica e fragile”.