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Io, pacifista alla Gino Strada di Vauro

Interventista
umanitario da prima linea o prossimo leader politico
girotondista-cofferatiano? «Solo un chirurgo che intende continuare a
farlo», risponde il fondatore di Emergency. «Ma non c’è alcuna legge
che impedisca di pensare e di esprimere opinioni»
(www.ilmanifesto.it)

Allora Gino, sto intervistando un chirurgo, uno dei fondatori di
una organizzazione umanitaria, oppure il leader politico di un nuovo
schieramento?

Non scherziamo, io faccio il chirurgo, e intendo continuare a farlo.
D’altra parte non c’è alcuna legge, almeno per ora, che impedisca a un
medico di pensare, e di esprimere le proprie opinioni, anche riguardo a
questioni fondamentali come la pace e la guerra. Faccio questo mestiere
da quindici anni, e mi sono trovato ad operare a più riprese in almeno
dieci conflitti: ho visto la stessa cosa ovunque, il massacro dei civili
a causa di guerre dichiarate per ragioni diverse. Le opinioni che noi di
Emergency abbiamo sulla guerra nascono dall’aver conosciuto le sue
vittime, dal vederle ogni giorno nei nostri ospedali, dal vivere la
guerra da vicino. Chi giustifica la guerra, chi esalta le «belle cose»
prodotte dalla guerra mente spudoratamente.

Un esempio?

Prendiamo la guerra in Afghanistan. «Adesso le donne sono libere dalla
schiavitù del burqa» ha sentenziato qualcuno. E’ per questo che è
stata fatta la guerra? Si bombarda un Paese perché il burqa diventi una
libera scelta anziché un obbligo o una tradizione? In ogni caso, ti
assicuro che molte più donne sono state ferite o uccise dalle bombe
americane in Afganistan, di quante si siano tolte il burqa dopo l’arrivo
dei marines, semplicemente perché il 99 percento delle donne afgane
pensa che quella del burqa sia una ossessione occidentale. «Adesso,
almeno, le bambine possono studiare» pontificano molti che in
Afganistan non hanno mai messo piede. L’istruzione femminile è un
problema che non nasce con l’11 settembre, né con i talebani. Emergency
sta costruendo scuole femminili in alcune zone rurali dove le bambine
non sono mai andate a scuola, e ancora oggi non tutti i genitori sono
d’accordo che ci vadano. Che cosa si dovrebbe fare, mandare altri B-52
per convincerli? Qualcuno non crede che sia così? Prenda un aereo e
venga a vedere: possiamo anche fornirgli supporto logistico e ospitalità.

Credo che le illazioni sul fatto che Emergency sia una
organizzazione politica siano iniziate all’indomani della vostra scelta
di rifiutare «il denaro della guerra» cioè i finanziamenti del
governo che aveva deciso, forte di una larga e trasversale maggioranza
parlamentare, la partecipazione italiana alla guerra in Afghanistan. In
effetti non si può dire che quel rifiuto non fosse una scelta politica.
O sbaglio?

Direi piuttosto che é stata una scelta etica. Emergency non accetta di
fare il «reparto cosmesi» della guerra, non accetta il danaro offerto
con una mano sinistra da chi spara con l’altra. Per gli stessi motivi,
rifiuteremmo i soldi della Fiat per curare le vittime delle mine
antiuomo da loro prodotte, o quelli della Nestlé per curare i neonati
che rischiano di morire per il suo latte in polvere. Se può
tranquillizzare qualcuno, vorrei aggiungere anche che Emergency ha
mantenuto la stessa posizione nel caso della guerra in Kosovo,
rifiutandosi di partecipare al banchetto della famosa Missione
Arcobaleno.

Va bene, però c’è chi dice che quelli che voi avete rifiutato
erano soldi dei contribuenti, non del governo…

So che su questo problema ci sono opinioni diverse. L’Afghanistan è
pieno di organizzazioni pronte ad accettare i soldi della guerra: se ne
sono andate dopo l’11 settembre, per rientrare qualche mese dopo
nella «Kabul liberata», e molte altre sono arrivate per la prima volta
nel paese solo dopo i marines. E’ un loro problema, noi abbiamo la
nostra etica, e abbiamo il diritto di averla. Peraltro, crediamo sia
largamente condivisa, visto il crescente sostegno, anche economico, ad
Emergency. Inoltre, non si può dimenticare che sono nostri anche i
soldi per fare partecipare i nostri alpini a Enduring Freedom, che
potrebbe trasformarsi in una operazione di caccia all’uomo. Anche i
soldi per le operazioni belliche che uccidono esseri umani sono danaro
dei contribuenti: questo li rende forse puliti?

Emergency è stata praticamente l’unica organizzazione sanitaria
presente in Afghanistan durante la guerra, e questo ha indubbiamente
favorito la sua visibilità. Non credi che il grande consenso che è
cresciuto e sta crescendo intorno alla vostra sigla sia anche
determinato dalle posizioni di denuncia contro la guerra che avete preso
e che quindi lo si possa considerare un consenso «politico»?

E’ probabile, se si restituisce alla parola «politica» il suo
significato originario di ricerca di principi e regole del nostro stare
insieme collettivo. E non mi sorprende: la grande maggioranza degli
italiani è contraria alla guerra. Questo non vuol dire che Emergency
sia una organizzazione schierata con qualche partito o coalizione.
Abbiamo sempre denunciato la guerra come una barbarie, sia quando è
stata voluta da governi di centro-sinistra sia quando a proporla sono
stati governi di centro-destra.

Non ha forse un valore politico la campagna «Fuori l’Italia dalla
guerra» che avete lanciato con un appello via Internet sul quale avete
già raccolto 300mila firme? Se sì, quale?

In Italia, anche se molti sembrano averlo scordato, esiste una
Costituzione, è stata scritta con l’idea di garantire un mondo più
giusto alle generazioni future. L’articolo 11 inizia con «L’Italia
ripudia la guerra». È tra i «principi fondamentali». Che cosa vuol
dire? Semplicemente che la pace è un bene che ci appartiene in quanto
comunità, è un valore di tutti e di ciascuno di noi. E questo va
rispettato. Quando siamo andati a votare, nessuna coalizione o partito
hanno detto di essere pronti a toglierci il bene della pace: comunque
ciascuno di noi abbia votato, questo non era in gioco. E invece, in poco
più di un decennio, il nostro paese è stato portato in guerra per ben
tre volte, da governi di colore politico diverso. Noi vogliamo che sulla
questione fondamentale della guerra siano consultati i cittadini, perché
non siamo pronti a farci togliere da nessuno il bene della pace. Non si
tratta solo, anche se la cosa è estremamente importante, di non
renderci corresponsabili di nuovi lutti e di nuovi crimini. Bisogna
anche capire che o si riesce a tenere l’Italia fuori dalla guerra, o non
si riuscirà a tenere la guerra fuori dall’Italia. E i cittadini
italiani questo non lo vogliono, ne siamo assolutamente certi. Per
questo è nata la campagna «Fuori l’Italia dalla guerra», promossa,
oltre che da Emergency, da Libera, da Rete Lilliput e dalla Tavola della
Pace. Come vedi, un grande schieramento di realtà con culture diverse:
vi sono laici e cattolici, senza connotazioni "di partito".
L’appello su Internet é stato firmato da molti che non avevano mai
firmato alcun appello prima di questo. Perché? Per l’importanza della
posta in gioco. C’è chi ha detto che «la guerra é una cosa troppo
seria per lasciarla in mano ai militari». Crediamo che la pace sia una
cosa troppo importante per lasciarla in mano ai politici. Bisogna
sentire l’opinione dei cittadini, e rispettarla.

Nella conferenza stampa al Campidoglio che annunciava questa
campagna insieme a te ed ad altri esponenti del mondo umanitario, del
volontariato e della cultura, da padre Zanotelli a don Ciotti, a Terzani,
c’era anche Sergio Cofferati che scelse proprio quella sede per la sua
prima apparizione pubblica dopo avere lasciato la segreteria della Cgil.
Molti hanno voluto vedere, nella presenza di chi viene considerato come
un prossimo possibile leader della sinistra, una conferma del delinearsi
di una nuova organizzazione politica. Che rapporto c’è tra Cofferati ed
Emergency?

La carta stampata, di questi tempi, non mi sembra lo specchio della
verità. Hanno scritto che io avrei proposto a Cofferati la
vicepresidenza di Emergency – un modo di procedere tipico di una certa
politica che non ci appartiene per nulla . Poi hanno dato lo «scoop»
del rifiuto da parte di Cofferati, precisando però che siamo rimasti
amici. C’ è a chi piace lavorare di fantasia, a meno che non abbia
altre finalità. Pazienza. Emergency non é un partito, né una setta:
Sergio condivide questa battaglia per la pace e la porta avanti insieme
con noi e con tanti altri. Mi fa molto piacere, perché gli sono amico e
lo stimo molto, per la sua attenzione all’etica e ai diritti.

Molti giornalisti, dalla Mafai a Pirani, da Sofri a Sartori, fino
ad Ostellino si impegnano a fondo ad argomentare la tesi che il
pacifismo è rispettabile (a volte) sul piano morale, ma che non ha
nessun valore sul piano politico. Anzi, sostengono, può addirittura
essere complice del terrorismo. Non esitano ad accusarti di strabordare
dal tuo ruolo di chirurgo di una organizzazione umanitaria. Stai
strabordando?

C’è chi ritiene l’etica separabile dalla politica, e non mi sorprende
visto che é proprio quello che sta succedendo, e in misura sempre
crescente. Ci sono migliaia di bambini iracheni ammalati di tumori e
leucemie, molti di più di quanti sarebbe prevedibile in base a
considerazioni epidemiologiche, perché il loro territorio é stato
bombardato a lungo con armi inquinanti. E’ un fatto, una tragedia
facilmente verificabile, non una speculazione ideologica. Basterebbe,
anche in questo caso come per l’Afganistan, prendere un aereo e andare a
visitare qualche ospedale di Baghdad o di Bassora. Che cosa diciamo a
quei bambini, e ai loro genitori? Che non è per ragioni etiche che
neghiamo loro la possibilità di essere curati? Dovremmo spiegare loro –
secondo molti "opinionisti" e politici – che se i farmaci non
gli possono arrivare è per ragioni politiche, cioè per l’embargo
imposto da più di un decennio. Tutto a posto? E se fossero i figli
degli opinionisti a morire perché qualcuno non consente l’arrivo delle
medicine, che articoli di fuoco scriverebbero sui loro giornali? E se
qualcuno, sulla porta di casa di qualche politico, impedisse di far
entrare morfina per lenire il dolore delle loro madri morenti di cancro?
Non ho dubbi, accuserebbero immediatamente quel ‘qualcuno’ di essere un
criminale e un terrorista. I risultati della politica separata
dall’etica sono questi, sotto i nostri occhi, se vogliamo tenerli
aperti: un mare di ingiustizie e di atrocità che attraversano il
pianeta, al solo fine di far guadagnare miliardi (di dollari e di euro)
a qualche migliaio di persone. Il pacifismo complice del terrorismo?
Smettiamola con queste stupide provocazioni. Il terrorismo – l’uso
sistematico della violenza su popolazioni inermi – non é altro che la
forma moderna della guerra, delle guerre degli ultimi decenni, ed é
stato praticato su larga scala. Non solo a New York. E non solo da
individui o gruppi armati. E’ stato ed é praticato anche, anzi
principalmente, da stati. Chi ne é stato complice? i missionari
comboniani o le multinazionali del petrolio? le industrie belliche o i
frati francescani? Nei decenni scorsi, non sono stati i movimenti per la
pace a far andare al potere le decine di dittatori che hanno massacrato
popolazioni in Africa e in Asia e in America latina. E Hitler? E’
tornato di moda citarlo: chi l’ha aiutato a salire al potere? Pacifisti
non meglio identificati oppure gli Junker feudali, i magnati dei grandi
trust industriali tedeschi e la casta militare del Kaiser? Ci si
riferisce alla capitolazione anglo-francese a Monaco che acconsentì
alla invasione della Cecoslovacchia? Si vuol far passare don Ciotti per
Daladier, e padre Zanotelli per Chamberlain. Quanto siano strumentali
queste accuse, lo si capisce ponendoci una semplice domanda: quali sono
le analogie con la situazione attuale? Si critica chi vuole che l’Italia
non partecipi ad una aggressione contro l’Iraq, rievocando la guerra al
nazifascismo. E chi sarebbe, oggi, l’uomo forte che vuole conquistare il
mondo? Già, proviamo a chiederlo ai cittadini del mondo: "Chi
pensate si consideri al di sopra della legge? Chi secondo voi teorizza
il diritto a bombardare chiunque altro per proteggere i propri interessi
nazionali?" Un bel sondaggio nel pianeta, i risultati sarebbero
davvero interessanti…

Politici assertori della necessità di «guerre umanitarie» come
quella in Kosovo (D’Alema) o pronti a combattere quella in Iraq se l’Onu
da il proprio consenso (Fassino) ribadiscono l’importanza di distinguere
tra ragioni morali e politiche, optando – ovviamente «con sofferenza»
– per le seconde. Ti considerano un moralistica utopico ma poi ti
trattano da avversario politico, arrivando a coniare definizioni
dispregiative come «pacifismo alla Gino Strada» (ancora Fassino). Non
ti sembra una contraddizione? Come te la spieghi?

Non so se ci sia contraddizione, e mi interessa poco. "Si decise –
scrive D’Alema nel suo libro Kosovo – di continuare con l’azione aerea
integrata dall’intervento umanitario" Il problema è in buona parte
qui. C’è chi pensa che i bombardamenti possano andare a braccetto con
gli aiuti umanitari, che addirittura possano integrarsi. Per Emergency,
organizzazione laica, questa è una bestemmia. Non vogliamo aver nulla a
che fare con chi bombarda, né siamo disposti a lavare loro la coscienza
partecipando ai loro "interventi umanitari". Per quanto
riguarda l’Onu, vorrei solo dire che le Nazioni unite nascono con
l’obiettivo primario di mantenere la pace mondiale. Più di trenta
conflitti insanguinano oggi il pianeta. Macellai e dittatori, e
dittatori trasformatisi in presidenti, e presidenti macellai massacrano
con i loro eserciti milioni di esseri umani ogni anno. Almeno tre quarti
delle loro armi provengono dai cinque paesi membri permanenti del
consiglio di sicurezza dell’Onu, Stati Uniti, Cina, Russia, Francia e
Gran Bretagna. Sono davvero neutrali, super partes, credibili nel
promuovere la pace?

Il percorso della pace deve essere intrapreso anche con le gambe
della politica? Di quale politica?

La pace si può costruire, la si può praticare. Per esempio promuovendo
la giustizia. E’ giusto un mondo dove il 20 percento degli uomini
possiede e consuma l’83 percento delle risorse di tutti? Incominciamo a
leggere (per molti politici sarebbe la prima volta) la Dichiarazione
universale dei diritti umani del 1948. Diritti, principi, valori
sottoscritti e poi gettati nell’immondizia. Chiediamoci come praticarli,
come tradurli in "politica". Finché non sarà vero che
"Tutti gli uomini nascono liberi e eguali in dignità e
diritti..", finché individui e comunità non agiranno "gli
uni verso gli altri in spirito di fratellanza", come proclama il
primo articolo della Dichiarazione, continueremo a vivere in un mondo
pieno di guerre, e ci sarà spazio per chi, con l’arroganza tipica del
più ricco e del più forte, e servendosi della "libera"
informazione, continuerà a chiamare pace le bombe, a chiamare giustizia
Guantanamo, a chiamare "vittime del fuoco amico" o semplici
effetti collaterali i bambini afgani bombardati durante un matrimonio. A
proposito, secondo uno studio sulla libertà di stampa nei vari Paesi
condotto da Reporters Without Borders e ripreso dall’Economist, l’Italia
figura al quarantesimo posto, appena sopra il Mali. Sono utopie i
diritti dell’uomo esposti nella Dichiarazione universale? Assolutamente
no, se ci si impegna a trasformarli in progetti, e nel nostro Paese sono
in molti a volerlo fare.

Titan: titoli a tasso negativo

Una macchina in grado di osservare gli eventi del passato che appaiono in forma olografica in un piccolo spazio cubico.

Nel mio ultimo libro Per un'economia dal volto umano, ho avanzato una proposta per iniziare una battaglia efficace contro il potere del sistema finanziario.

La proposta approfitta di un buco nell'attuale legislazione che consente agli enti locali di emettere dei titoli di debito a determinate condizioni. Ho ipotizzato che sia possibile emettere dei titoli a tasso negativo che non creano debito e che anticipano la pratica della tassazione degli strumenti finanziari, senza stravolgere il meccanismo di creazione di ricchezza. Riporto qui un brano del libro che introduce il saggio in cui analizzo in dettaglio il funzionamento di questi titoli.
L'opposizione al potere ha, da tempo, costruito una propria presenza sul territorio tramite i centri sociali, luogo di aggregazione e di sperimentazione di forme di vita diverse da quelle imposte dal pensiero unico dominante. Ovviamente queste situazioni non costituiscono che delle nicchie di alternativa che non destano alcuna preoccupazione seria al potere.
Però, è indubbio che il localismo e la trasversalità delle relazioni e della produzione stiano crescendo in misura esponenziale. E che per consentire loro di crescere ulteriormente e di estendersi sul territorio, fisico e virtuale, è necessario immaginare delle forme di autofinanziamento che rifiutino il sistema di potere legato alla finanza senza richiedere ai suoi membri di fare sacrifici o sforzi di volontarismo per mantenere in piedi le strutture.
Insomma, occorre fare della finanza alternativa. La prima idea che viene in mente è quella di utilizzare gli stessi strumenti del potere finanziario ma in maniera da depotenziarne il potenziale distruttivo e di potere. La legge consente alle strutture locali di emettere titoli di debito a determinate condizioni. Queste condizioni consistono in pratica nella necessità che questi titoli trovino copertura nel bilancio dell'ente locale e che il loro tasso di interesse non sia superiore a quello fissato periodicamente dalla Banca d'Italia. I titoli di questo genere, ovviamente, producono ed alimentano l'economia del debito, e quindi sono perfettamente funzionali agli interessi del potere finanziario. Nessuno vieta, però, che l'ente locale possa emettere titoli che invece di dare un interesse attivo, siano gravati da un interesse passivo, che li porti all'estinzione in un determinato periodo di tempo. Faccio un esempio per chiarire di cosa stiamo parlando. Un Comune d'Italia, emette dieci miliardi di titoli gravati da un interesse passivo del 5% all'anno per finanziare delle attività imprenditoriali sul proprio territorio.
In venti anni i titoli si estinguono, poiché ogni anno perdono il 5% del proprio valore. Questa emissione è perfettamente legittima, poiché la legge indica il livello massimo del tasso di interesse applicabile, ma non quello minimo, e oltretutto, poiché i titoli sono destinati ad estinguersi, non c'è necessità di ulteriore copertura nel bilancio del Comune.
Il Comune in questione, però, potrebbe anche emettere annualmente delle marche da applicare sui titoli emessi, pari al 5% dell'importo facciale di essi, subordinando la loro circolazione all'applicazione annuale della marca. Alla fine del ventennio, la copertura dei titoli sarebbe comunque garantita dall'importo ricavato dalla vendita delle marche e quindi l'operazione in sé sarebbe perfettamente legittima.
Ovviamente questi titoli non sarebbero collocabili sul mercato per mezzo dei canali usuali. Nessuno darebbe i propri soldi per acquistare titoli che, invece di rendere un interesse, richiedono il pagamento di un interesse da parte di chi lo possiede.
La loro utilizzazione, invece, diventa interessante ed utilissima se il meccanismo di collocamento dei titoli segue una strada a ritroso rispetto a quella usuale. Insomma, il Comune consegna i titoli alle imprese che finanzia e che si impegnano a restituire l'importo ricevuto alla fine del periodo di validità dei titoli. L'imprenditore, dovrà spendere rapidamente quei titoli se non vuole che il capitale gli muoia in mano e ritrovarsi con il debito verso il Comune dopo i venti anni di durata dell'operazione. Porterà, quindi questi titoli alle imprese cui chiederà di fornirgli il materiale necessario per realizzare la sua iniziativa.
Queste imprese hanno l'interesse a prendere i titoli e vendere i propri prodotti. Possono contare sul fatto che in un anno riusciranno a loro volta a liberarsene, e questo comporterebbe al massimo uno sconto del 5% sul prezzo praticato per la vendita.
Insomma attraverso questo meccanismo i titoli entreranno sul mercato, svolgendo una funzione essenzialmente monetaria. Quelli che ricevono i titoli, che possono anche esser di taglio relativamente piccolo, diciamo il più piccolo da cento o duecento euro, avranno l'interesse a liberarsene il più in fretta possibile.

Una legge in economia dice che la moneta cattiva scaccia sempre quella buona. Se una moneta d'oro equivale a dieci di rame, si spenderanno quelle di rame e si terranno quelle d'oro, e così, parimenti, tra una banconota corrente da cento euro ed un titolo gravato da interesse passivo del medesimo importo, il possessore spenderà il più rapidamente possibile il titolo del Comune e terrà la banconota per sé. In altri termini, il Comune, in questo modo, ha creato una massa monetaria adeguata alle esigenze dell'economia, perché ha finanziato delle imprese che richiedono per la loro attività una massa di moneta pari almeno al capitale investito, e non ha gravato le imprese né il consumo di oneri finanziari. Di fatto, il pagamento dell'operazione viene caricato su coloro che operano sul mercato ma in maniera indolore, se pensiamo che un interesse del 5% all'anno comporta un aggravio giornaliero di poco più dello 0,01%, e mensile di circa lo 0,34%. Alla fine del periodo, il Comune si trova le somme che ha ricavato dalla vendita delle marche, che vanno a copertura del pagamento dei titoli, e quelle somme che gli saranno restituite dagli imprenditori finanziati. In altre parole, tranne il rischio di fallimento che potrebbe essere comunque coperto da una garanzia assicurativa e da garanzie adeguate delle imprese, il Comune ha raddoppiato il capitale impiegato inizialmente.
Queste ulteriori somme, devono essere destinate ad attività di solidarietà sociale, o alla distribuzione iniziale di reddito di cittadinanza in misura proporzionale alla popolazione del territorio.
L'emissione dei titoli potrebbe essere preceduta da una campagna di sensibilizzazione delle imprese e della cittadinanza per spiegare il funzionamento di essi, e raccogliere adesioni alla loro accettazione. Le imprese che accettassero i titoli vedrebbero incrementare il proprio fatturato dell'importo degli acquisti, e sappiamo bene quale necessità ci sia per molte aziende di produzione, di cercare nuovi sbocchi alla loro produzione. La stessa operazione, ma con titoli privati, potrebbe essere effettuata dai centri sociali, o altre strutture locali, sia sul territorio reale che su quello virtuale, per le attività che li riguardano. Insomma il centro sociale emette questi titoli, anche facendosi autorizzare dalla Banca d'Italia (c'è un precedente negli USA, dove la FED autorizzò un ente locale del Massachussets ad emettere titoli del genere, per sollevare una situazione economica locale particolarmente depressa), coinvolgendo nell'operazione imprese e commercianti vicini che accettino i titoli in pagamento.
In questo modo si sferra un attacco decisivo al potere finanziario. Il fine di questa operazione è di eliminare il debito come strumento di creazione di moneta, e restituire alla politica, e quindi alla collettività, il diritto di fare le emissioni monetarie necessarie al funzionamento dell'economia. Non esiste una legge che impedisca ai Comuni di emettere questi titoli, e l'unico impedimento per i titoli privati è che la loro circolazione lecita è gravata dall'imposta di bollo per le cambiali, anche se nella pratica corrente gli assegni postdatati girano tranquillamente ed in misura rilevantissima. Ma si sa che il potere, se venisse attaccato in maniera così diretta e pesante, reagirebbe cercando tutti i mezzi per impedire il proseguimento dell'iniziativa.
Se ci pensiamo bene, ogni titolo emesso in questo modo equivale a mille vetrine di banche sfasciate e senza il rischio di farsi prendere e condannare. La vendetta è un piatto che si mangia freddo.

Considerazioni generali

I titoli a tasso negativo sono strumenti finanziari che perdono interamente il loro valore con il decorso di un tempo predeterminato. Non sono legati alla quotazione di un sottostante, come i futures o i covered warrant, e la loro emissione non è subordinata all'acquisto di un analogo strumento di segno opposto. La loro circolazione, quindi, non necessita della presenza di un Market Maker. Ciò non toglie affatto che essi possano avere un mercato: la loro quotazione, come tutte le valute o gli strumenti finanziari dipende dalla domanda e dall'offerta di essi. La loro circolazione dovrebbe essere più lenta di quella dei CW e dei futures in generale, poiché il tempo ipotizzato per la loro scadenza è molto più lungo di quello degli strumenti derivati il cui decay time non supera in genere l'anno. Si è ipotizzato che i titoli a tasso negativo abbiano una durata ventennale. Che gli strumenti finanziari perdano di valore con il decorso del tempo non è certo una novità. Per effetto dell'inflazione tutti gli strumenti finanziari vedono erodere periodicamente il proprio valore, e poi i derivati hanno tutti un decay time di maggiore o minore durata. La peculiarità dei titoli a tasso negativo è che la loro emissione è legata alla nascita di un'attività di produzione o commerciale, anche se il loro valore non dipende dalle vicende dell'attività per la quale sono stati emessi, ma dall'andamento generale dell'economia dell'area nella quale essi circolano. La loro emissione viene effettuata sul presupposto che ci sia un eccesso di offerta rispetto alla domanda globale. D'altra parte, la loro stessa emissione favorisce la crescita dell'offerta di beni strumentali, poiché essi vengono creati esclusivamente a fronte della realizzazione di un progetto di produzione o commerciale. Successivamente, i titoli a tasso negativo, dovrebbero produrre una crescita equilibrata dell'offerta e della domanda di beni di consumo secondo il moltiplicatore. Proprio per questa loro natura i titoli a tasso negativo non determinano inflazione: di fatto essi si risolvono in una riduzione del prezzo dei beni trattati per loro tramite. I titoli a tasso negativo generano un interesse che viene incassato dall'ente che li emette. L'interesse viene pagato dai possessori dei titoli al momento della scadenza annuale sotto forma di una marca da applicare al titolo stesso e che è condizione per la validità e la circolazione del titolo. Il valore del titolo senza marche al momento della scadenza è pari a zero, mentre un'apposizione parziale di marche darà diritto ad un pagamento pari alla somma dell'importo portato dalle marche stesse.
L'importo delle marche è fisso, ed è pari all'interesse necessario per portare il valore del titolo a zero nel periodo prefissato di validità dello stesso. Ad esempio, se il decay time è fissato in venti anni, l'interesse necessario per portare il valore del titolo a zero sarà del 5%, e pertanto la marca corrisponderà al 5% del nominale del titolo. Per un titolo da 500€ la marca sarà di 25€ ogni anno. Se invece, il tempo di decadenza è fissato in dieci anni, per lo stesso titolo l'interesse sarà del 10% e quindi la marca annuale avrà l'importo di 50€.
Le somme incassate dall'ente a titolo di marche andranno a coprire il pagamento dei titoli presentati alla scadenza e coperti totalmente o parzialmente da marche, mentre l'interesse che l'ente incasserà è rappresentato dalle somme che gli saranno restituite per le attività promosse tramite l'emissione dei titoli a tasso negativo. Il finanziamento delle attività prevede la restituzione dell'intera sorte capitale alla scadenza dei titoli. In teoria, quindi, l'ente incasserà a titolo di interessi una somma pari a quella emessa per mezzo dei titoli.
E' presumibile, però, che una parte delle attività promosse per il tramite dell'emissione dei titoli non siano in grado di restituire le somme ricevute, sia a seguito di un fallimento dell'iniziativa, sia per effetto di crisi periodiche del sistema economico in cui circolano i titoli. Prudentemente, quindi, l'ente emittente considererà di ricevere alla fine del periodo una somma inferiore a quella portata dall'intero finanziamento. Nell'ipotesi di una consistente e continua emissione di titoli a tasso negativo che determini una loro significativa presenza sul mercato finanziario, è presumibile che il tasso di interesse effettivo di essi tenda ad assestarsi intorno al tasso di crescita dell'area dove essi circolano. Una diversa tipologia di titoli da offrire al mercato finanziario prevede che il titolo stesso sia legato all'andamento dell'azienda per il quale viene emesso. Questo comporta da un lato un minore tempo di durata del titolo stesso, e dall'altro lato che l'andamento dell'azienda sia decisivo per il valore del titolo, che oscillerà periodicamente tra il valore massimo portato dal facciale a valori che si collocheranno al di sotto di quell'importo. In altri termini questi titoli saranno assoggettati ad un rischio maggiore e quindi anche ad una maggiore redditività per gli operatori del settore. Il pagamento degli interessi all'ente dovrà però avvenire per mezzo di erogazioni periodiche e non mediante un unico versamento alla scadenza del titolo.

Sull'emissione dei titoli

I titoli possono essere emessi da un ente al solo scopo di promuovere un'attività di carattere imprenditoriale o commerciale. Il presupposto della loro emissione è che ci sia un cronico eccesso di offerta rispetto alla domanda globale. Per millenni l'umanità ha avuto il problema opposto di un eccesso di domanda rispetto all'offerta di beni, in dipendenza di carestie, guerre, e soprattutto di un sistema di produzione che generalmente era in grado a mala pena di soddisfare i bisogni primari della popolazione. Raramente, e sempre limitatamente a singole categorie di beni, si è avuto un eccesso di offerta rispetto alla domanda. Più che in dipendenza di eccessi di produzione (come ad esempio per l'oro dopo la scoperta dell'America) questo avveniva per improvvise cadute della domanda per le singole categorie di beni, ma mai per beni necessari alla sussistenza come il grano o il riso. Insomma, le crisi di sovrapproduzione erano per lo più ignote ai nostri antenati. Dall'industrializzazione in poi, ma soprattutto dal secondo dopoguerra, il problema ha iniziato a rovesciarsi. Risolto nella maggior parte del mondo la questione della sussistenza alimentare, ci si è trovati di fronte a continue crisi della domanda per la mancanza dei mezzi finanziari necessari per sostenerla. La crisi del '29 è stata essenzialmente una crisi di sovrapproduzione. Se ne uscì per mezzo dell'economia del debito, che generò il consumo di massa e diede grande impulso alla produzione. Le crisi periodiche furono affrontate stimolando la produzione per mezzo dell'indebitamento pubblico, mentre sul versante della domanda il credito al consumo svolgeva un ruolo essenziale di sostegno della produzione.
Il limite dell'economia del debito è la capacità di indebitamento degli operatori del sistema, le famiglie, gli stati e le imprese. La virtualizzazione del denaro, a partire dall'abrogazione degli accordi di Bretton Woods, e il suo completo e definitivo distacco da ogni merce, ha accelerato la creazione di debito come unica via per le emissioni monetarie. E poiché il debito tende a crescere in misura esponenziale, la capacità di indebitamento dei soggetti del mercato si è ridotta in proporzione, frenando la domanda, mentre dall'altro lato la produzione, stimolata dall'indebitamento dello stato e delle imprese, e favorita dalla diffusione delle nuove tecnologie, si è trovata a generare un'offerta cronicamente maggiore della domanda.
Lo sviluppo della produzione immateriale ha aggravato il problema, poiché l'immateriale riduce al minimo l'incidenza dei costi della produzione materiale sul ciclo di produzione, e pertanto non è soggetto ai limiti di sviluppo propri dell'economia fondata sui beni di consumo.
La ragione per cui l'emissione di titoli può essere effettuata solo a fronte di un'intrapresa commerciale o produttiva, risiede in due esigenze: la prima, di giustificare l'emissione di titoli con la maggiore quantità di beni e di attività che essi inducono nell'area economica locale, la seconda di consentire la circolazione dei titoli tra gli operatori finanziari.
I titoli a tasso negativo sono un debito dell'ente solo nella misura in cui sugli stessi sono apposte le marche, altrimenti restano un debito dell'emittente. Tale debito è garantito dall'imprenditore nei confronti dell'ente emittente, ma la garanzia viene liberata se alla scadenza del termine i titoli non vengono presentati all'incasso presso l'ente emittente.
In quel caso la liberazione delle garanzie opererà in favore dei possessori dei titoli. Insomma, l'emissione dei titoli si risolve in un debito tra privati tutelato dalle garanzie prestate dall'imprenditore all'ente, se sugli stessi non fossero apposte le marche periodiche emesse dall'ente. Per questa ragione, la negoziazione dei titoli avrà un maggiore o minore indice di rischio in funzione dell'andamento delle imprese cui sono legati, mentre l'emissione di titoli non direttamente collegata alle imprese finanziate è comunque garantita dall'ente poiché la loro copertura è assicurata dalla vendita delle marche.

Sul rischio dei titoli

Il rischio dell'emissione dei titoli grava principalmente sull'imprenditore che li riceve. Nell'ipotesi limite in cui i titoli non circolassero affatto, il loro pagamento è comunque garantito dall'imprenditore che li ha ricevuto e che si troverà a dover onorare con l'interesse concordato i titoli alla scadenza. In altri termini è come se l'imprenditore ricevesse un mutuo che non utilizza e che però è gravato da un interesse: alla fine del periodo, si troverà costretto a restituire la somma mutuata oltre agli interessi concordati. L'interesse dell'imprenditore a ricevere comunque un mutuo sotto questa forma è dato dalla ragionevole certezza che i titoli saranno spendibili presso altre imprese. La ragione per cui altre imprese possono ricevere in pagamento questi titoli è data dalla fiducia nel sistema e dalla relativa certezza di essere a loro volta in grado di spendere questi titoli presso altre imprese o presso operatori finanziari.
L'emissione dei titoli in via sperimentale, potrebbe essere preceduta da una campagna pubblicitaria per farli conoscere al pubblico e dalla raccolta di adesioni di un numero congruo di imprese nella zona interessata, allo scopo di instaurare un clima di fiducia nei confronti dei titoli sia tra le imprese che tra le famiglie. Maggiore è la durata dei titoli è più semplice diventa la loro circolazione, poiché dalla durata dipende il tasso necessario per l'ammortamento dei titoli stessi. In altri termini, un titolo di durata ventennale, gravato quindi da un interesse annuo del 5%, ha un costo giornaliero dello 0,013% rispetto al valore facciale. Un titolo da 500€ costa al giorno di interessi negativi 0,07€, ovvero circa 140 lire.
Per l'impresa che riceve i titoli si tratta di rischiare di perdere qualche tempo per negoziarli acquistando altri beni. In questa maniera l'interesse finisce per gravare su tutti coloro che hanno negoziato i titoli, poiché sarà ripartito tra di loro. Il valore effettivo del titolo tenderà ad avvicinarci al facciale decurtato dell'interesse, in prossimità della scadenza per l'apposizione della marca ed a riprendere valore pieno all'inizio dell'anno successivo.
Per l'impresa che li trattenesse per uno o due anni prima di spenderli, l'accettazione dei titoli si risolve in uno sconto sulla merce venduta pari rispettivamente al 5 o al 10%. E' possibile che una conseguenza delle transazioni di questi titoli, fino a che almeno non saranno comunemente accettati come mezzo di pagamento, possa essere un relativo irrigidimento dei prezzi.
A questo proposito faccio notare che la recentissima e debole ripresa dell'economia americana, si fonda essenzialmente sui forti sconti che le imprese produttrici hanno operato nel tentativo di stimolare la domanda, come è stato sottolineato da Greenspan in un suo intervento al FOMC. Queste politiche riducono però i margini di profitto ed indeboliscono gli investimenti e, sul lato della domanda, tendono a riportare in negativo quel tasso di risparmio delle famiglie che, solo nell'ultimo trimestre, è tornato leggermente in attivo dopo anni di contrazione.
La ragione per cui le imprese saranno portate ad accettare i titoli a tasso negativo come mezzo di pagamento, risiede nel cronico eccesso di offerta globale rispetto alla domanda globale. E se la stimolazione delle attività imprenditoriali avviene per mezzo di questi strumenti finanziari, è altamente improbabile che un'impresa decida di non prenderli e di non aderire per non correre il rischio derivante da un'interruzione della loro circolazione. Rischio relativo finché permane una situazione in cui l'offerta sarà superiore alla domanda. Il modello ipotizzato è quello di un intervento keynesiano che però non genera debito, e che prelevi solo una parte del surplus generato dal moltiplicatore per destinarlo ad attività che sono decise a livello politico. Attività che possono esser di solidarietà verso determinate categorie o più in generale verso la collettività. In altri termini, si tratta di restituire alla politica, e per essa ai cittadini, la possibilità di incidere sulle scelte economiche e sulla destinazione delle somme derivanti dalle imposte. Una volta innescato il meccanismo di accettazione dei titoli e la loro iniziale circolazione, essi tenderanno a circolare più rapidamente delle banconote per la semplice ragione che rispetto ad esse sono moneta "cattiva", poiché gravata da un interesse che le banconote non hanno. Insomma, la tesaurizzazione riguarderà le banconote e non i titoli a tasso negativo, e il verificarsi di questo noto fenomeno aumenterà la domanda di titoli a tasso negativo sul mercato finanziario. E' noto, infatti, che la moneta cattiva scaccia sempre quella buona. Di fronte all'alternativa di spendere una moneta d'oro ovvero dieci di rame per un equivalente valore, si sceglie sempre di spendere le monete di rame e tesaurizzare la moneta d'oro. Così, di fronte all'alternativa di spendere una banconota da 500€ o un titolo a tasso negativo, certamente si tesaurizzerà la banconota e si spenderà il titolo. La velocità di circolazione dei titoli dovrebbe crescere con l'aumento delle emissioni. L'aumento della velocità di circolazione non comporta però un aumento di inflazione, anche se i titoli esercitano una certa pressione al rialzo sui prezzi, per remunerare il rischio insito nella loro natura.
Sono due le ragioni per cui i titoli a tasso negativo non dovrebbero generare inflazione. La prima è che il rischio dell'emissione si attenua progressivamente per effetto della generale accettazione dei titoli, la seconda, che è quella essenziale, è che i titoli a tasso negativo sono destinati a morire con il tempo e ad essere ritirati dalla circolazione e pertanto non gonfiano la massa monetaria. In altri termini, si tratta di un'emissione monetaria che accompagna la crescita economica e che poi scompare senza lasciare il peso del debito, dopo che le attività sono state avviate e consolidate. Di fatto, il pagamento degli interessi dei titoli a tasso negativo finisce per ricadere sulla collettività che li usa. In questo senso si risolve in un'imposta sulla circolazione del denaro, poiché ad ogni transazione il prenditore si farà remunerare il rischio di non riuscire a spendere i titoli, mentre la remunerazione dei titoli stessi andrà a favore dell'ente che li ha emessi.

Sulla restituzione delle somme ricavate dalla circolazione dei titoli

Abbiamo visto che i titoli a tasso negativo generano un interesse che, nella ipotesi migliore, sarà pari al valore facciale dei titoli emessi. L'interesse in questione è apparentemente pagato attraverso l'emissione delle marche, ma in realtà è necessario considerare queste emesse a copertura del pagamento finale del titolo, e le somme restituite dall'imprenditore come se fossero il pagamento dell'interesse sui titoli. Questo sia per evitare di gravare il bilancio dell'ente del rischio della mancata restituzione, dati i tempi necessari al realizzo delle garanzie rilasciate dall'impresa a fronte dell'emissione, sia per il legame che intercorre tra il tasso di interesse e il tasso di crescita dell'area cui abbiamo accennato sopra.

L'imprenditore può essere obbligato a restituire la somma portata dai titoli o in unica soluzione alla fine del periodo di mutuo, o con una differente periodicità. Nell'ipotesi di emissione dei titoli legati nominativamente ad un'impresa, l'imprenditore potrebbe essere obbligato a restituire le somme annualmente, per fornire ai prenditori una maggiore garanzia sulla solvibilità dei titoli. In ipotesi d'insolvenza, infatti, i prenditori metterebbero a rischio solo gli interessi dell'ultimo anno che sarebbero poi loro remunerati all'esito dell'escussione delle garanzie prestate all'ente.

Facciamo un esempio. Un imprenditore riceve un milione di euro per l'esercizio della sua impresa. A fronte dell'emissione dei titoli egli deve prestare una garanzia a copertura della restituzione del milione di euro alla fine del periodo, che ipotizziamo essere di venti anni. Questo potrebbe comportare delle difficoltà per le nascenti imprese, poiché una garanzia di questa misura deve necessariamente consistere in immobilizzazioni di capitale, o garanzie reali di congruo importo (vale a dire da due a tre volte la somma mutuata in funzione degli interessi applicati e della loro natura). Queste difficoltà possono esser superate se la garanzie viene prestata da un terzo, per esempio una banca d'affari, ovvero se la garanzia venga emessa nella forma revolving. La garanzia revolving, comporta un rischio attenuato per l'ente che la emette, poiché essa si riferisce solo alla frazione di periodo considerato. Nell'ipotesi di un finanziamento da un milione di euro per venti anni, la garanzia revolving ammonterebbe a 50.000€ all'anno, appunto per venti anni. In questo caso, nell'ipotesi di mancato pagamento di una rata, l'ente può decidere o di intervenire con fondi propri a sostegno dell'impresa in difficoltà, o di escutere le garanzie e ritirare i titoli dalla circolazione.
In questo caso, pagherebbe direttamente ai portatori dei titoli la somma risultante dalle marche e all'esito dell'escussione, la quota residua relativa al periodo di circolazione.

L'utilizzo di una garanzia revolving, pratica molto usata soprattutto per a copertura di forniture periodiche, consente l'accesso al finanziamento di quelle imprese che non sono in grado di fornire adeguate garanzie per il finanziamento richiesto, e consente anche la partecipazione all'impresa di strutture finanziarie che seguano l'impresa nelle sue vicissitudini, assumendosi il modesto rischio della perdita degli interessi per un anno di esercizio a fronte della ben maggiore possibile remunerazione derivante dalla partecipazione all'impresa.

Il sistema bancario, insomma, sarebbe indotto a partecipare all'impresa svolgendo una duplice funzione di garanzia verso il pubblico della solidità dell'impresa e di controllo dall'interno delle scelte imprenditoriali. Questo intervento del sistema bancario nella vita delle imprese, non comporta, però, un'accelerazione del processo di finanziarizzazione dell'economia, anzi si avrebbe un effetto opposto, poiché indurrebbe il sistema finanziario ad investire proprio nelle attività di produzione per garantire una sufficiente remunerazione ai capitali loro affidati.

Nell'ipotesi di garanzia revolving, dopo la metà del periodo l'intero importo dei titoli sarebbe coperto, e nel rimanente periodo l'ente incasserebbe le somme a titolo di interesse. Questo fatto garantirebbe la copertura del pagamento dei titoli solo dopo che sia trascorsa la metà del tempo di durata dei titoli, e quindi rassicurerebbe i prenditori sul pieno valore dei titoli in circolazione anche se emessi nominativamente su un'impresa.

Altra forma di emissione di titoli a maggiore rischio, potrebbe prevedere un premio per il portatore al momento della scadenza sul valore nominale del titolo. Per tornare all'esempio del finanziamento da un milione di euro, un premio potrebbe consistere in una somma oscillate tra il 10 e il 40% dell'importo facciale, graduato secondo la maggiore o minore rischiosità dei titoli. L'importo del premio sarebbe remunerato con parte delle somme restituite dall'impresa alla fine del periodo. Il maggiore rischio sarebbe rappresentato da una minore copertura del titolo, durante il periodo di durata, in caso di insolvenza dell'impresa nominata nel titolo. La circolazione dei titoli "a premio" sarà ristretta agli operatori finanziari, considerato il maggiore rischio cui essi sono assoggettati che li rende diversi dagli altri titoli emessi dall'ente, il cui rischio è assimilabile a quello delle comuni banconote. Sul facciale deve essere chiaramente indicato sia l'importo del premio sia il rischio derivante dalla loro circolazione.

Sulla destinazione delle somme ricavate dalla circolazione dei titoli

Abbiamo visto che l'ente emittente ottiene comunque dall'emissione dei titoli, un ricavo di importo variabile. Questo ricavo si risolve in un'imposta che grava sulla circolazione del denaro.
La destinazione naturale del ricavo ottenuto è quindi quella di una riduzione delle imposte sulle attività di lavoro. Questo al fine di evitare un aumento della pressione fiscale complessiva sulla collettività.
Poiché, però, è presumibile che le entrate fiscali aumentino per effetto della ricchezza indotta dalle nuove imprese finanziate con i titoli, la riduzione della pressione fiscale può anche essere giustificata da queste maggiori entrate, e pertanto la destinazione delle somme ricavate dall'emissione dei titoli a tasso negativo può essere diversa. Anzitutto queste somme possono essere impiegate per attività di solidarietà sociale a sostegno delle persone disagiate e delle classi più deboli. In questo modo si finisce per sostenere la domanda, soprattutto di beni di prima necessità, e questo è perfettamente coerente con il fatto che l'emissione dei titoli a tasso negativo, almeno all'inizio, generano un incremento dell'offerta di beni. Allo stesso modo si può ipotizzare di ridistribuire tra i cittadini il ricavato dell'emissione a titolo di reddito di cittadinanza, che produce egualmente l'effetto di incrementare la domanda. Ma una diversa destinazione può essere quella di utilizzare le somme ricavate dalla circolazione dei titoli per la tutela dell'ambiente e del bene pubblico. In questo caso, sarà opportuno sottolineare nella campagna di presentazione dei titoli al pubblico che la loro accettazione comporta il partecipare fattivamente al miglioramento dell'ambiente e che il costo di questa partecipazione è davvero irrisorio. Tenere un titolo da 500€ per dieci giorni ha lo stesso costo di un caffè al bar, mentre per uno da 150€, il caffè si paga in un mese. Potrebbe essere lo slogan di una campagna pubblicitaria per la diffusione dei titoli tra il pubblico. Ho scritto sopra che l'ente potrebbe decidere anche di utilizzare parte delle somme, per sostenere le imprese di produzione che si trovino in temporanee difficoltà, e che non abbiano i fondi per fare fronte al pagamento di una rata dell'obbligazione assunta. Questo comporterebbe da parte dell'ente, la costituzione di un fondo specifico per questo fine, che gli consentirebbe di svolgere una funzione di ammortizzatore sociale in momenti di contrazione del ciclo economico. Lo scopo potrebbe essere quello di salvaguardare l'occupazione, ad esempio, o di sostenere un'attività di particolare interesse per il pubblico che si trovi in temporanee difficoltà per contingenze di mercato.

La normativa esistente

Non c'è nessuna norma che vieti a enti pubblici o privati di emettere titoli di credito a interesse negativo.Per gli Enti pubblici ci sono peraltro le norme che consentono l'emissione di titoli di credito subordinandola al rispetto di due condizioni sostanziali: l'esistenza di una copertura nel bilancio dell'ente, e il non superamento di un interesse massimo definito periodicamente dalla Banca d'Italia. Non c'è la norma che autorizzi l'emissione delle marche, ma non esiste, al contempo, nemmeno il divieto di subordinare la circolazione del titolo a determinate condizioni. In altri termini, ritengo che nell'attuale quadro normativo, un ente pubblico possa emettere queste marche senza incorrere in alcuna violazione di legge. Diverso è il discorso per i privati. I titoli a tasso negativo non possono essere emessi come cambiali né come altri titoli di credito che sono tipizzati dalla norma. E' possibile che però possano essere emessi da una società nella forma di un prestito obbligazionario gravato di un tasso di interesse negativo. Le cedole periodiche comporterebbero da parte del portatore l'obbligo di versare una somma invece che di incassarla. Emissioni di questo genere, ove possibile, sarebbero particolarmente adatte a società con un elevato numero di soci e di dipendenti. I titoli sarebbero spendibili essenzialmente presso i punti vendita dell'emittente e genererebbero una pressione sulla domanda nel gruppo in cui circolassero. La loro accettazione all'esterno, dipenderebbe dalla solidità e notorietà delle società emittenti. Questi titoli potrebbero essere remunerati da un forte premio per i portatori, al fine di favorirne la circolazione tra gli operatori finanziari e tra gli stessi iniziali prenditori.

Frequently Asked Questions

· Cosa sono i titoli a tasso negativo? 
Sono titoli finanziari gravati da interesse negativo per il decorso del tempo e che perdono interamente il proprio valore con la scadenza del termine di validità.

· Che interesse ha un operatore economico ad accettare questi titoli?
L'interesse degli operatori economici è dato dalla fiducia nella loro spendibilità, e quindi dalla possibilità di acquistare delle merci o effettuare dei pagamenti per loro tramite.

· Che interesse ha un operatore finanziario ad accettare questi titoli? 
Gli operatori finanziari si basano anch'essi sulla fiducia nei confronti dei titoli, e sulla propria capacità di riuscire a rimetterli in circolazione guadagnando un interesse.

· Perché si dovrebbe creare un clima di fiducia intorno a questi titoli e una loro generale accettazione? 
Il presupposto dell'emissione dei titoli è un persistente eccesso di offerta globale, che induce i produttori a effettuare anche forti sconti pur di smobilitare le scorte. L'accettazione dei titoli comporta, anche in ipotesi di una loro circolazione molto lenta, l'effettuazione da parte del prenditore dei titoli di uno sconto molto basso (5% all'anno). Per questa ragione i titoli circoleranno prevalentemente tra i produttori.

· Perché i titoli a tasso negativo dovrebbero circolare più velocemente delle banconote?
Perché si tratta in sostanza di mezzi di pagamento gravati da un costo. Di conseguenza, il prenditore cercherà di spenderli il più rapidamente possibile e non li tesaurizzerà per evitare il costo. E' impossibile tesaurizzare i titoli a tasso negativo data la loro natura, e questo comporta che si tratta di mezzi di pagamento che non generano debito.

· Perché i titoli a tasso negativo devono essere emessi solo per creare nuove imprese? 
Nel caso di loro emissione slegata dalla creazione di attività d'impresa, si risolverebbe in una emissione di moneta senza alcuna corrispondente attività nel territorio, e quindi essi finirebbero, almeno nella fase iniziale, per premere in aumento sui prezzi. In altri termini genererebbero inflazione. Un'altra ragione risiede nel fatto che l'emissione in favore di imprese in via di costituzione favorisce un'iniziale circolazione dei titoli presso i produttori, che sono portati ad accettare qualunque mezzo di pagamento pur di liberare i propri magazzini.

· Perché i titoli a tasso negativo non generano inflazione? 
Perché, appunto, sono legati alla nascita di un'attività, e quindi alla corrispondente circolazione di beni. I titoli non generano nemmeno debito, poiché muoiono alla scadenza e sono ritirati dalla circolazione dall'ente che li ha emessi, lasciando, però, la ricchezza che hanno creato.

· Perché si mettono le marche periodiche sui titoli? 
Per evitare il loro decadimento con il tempo, e quindi la necessità per i prenditori di fare complicati calcoli sul valore effettivo del titolo nel momento in cui lo accettano in pagamento. E' necessario e utile che il valore dei titoli oscilli periodicamente in misura non maggiore dell'interesse periodico ad essi applicato.

· Chi garantisce il pagamento dei titoli alla scadenza? 
La garanzia del pagamento dei titoli è data dall'ente che li ha emessi che, a sua volta, ha ricevuto garanzie dall'imprenditore in cui favore ha rilasciato i titoli e che ha incassato le marche che consentono al termine del periodo il pagamento degli stessi titoli.

· Chi paga l'interesse negativo sui titoli? 
L'interesse negativo sui titoli viene ridistribuito tra la platea che li accetta in pagamento. Inizialmente, quindi, tra i produttori e poi tra tutta la popolazione locale. Di fatto, i titoli a tasso negativo sono un'imposta che grava su una forma di emissione monetaria.

· Chi incassa l'interesse sui titoli a tasso negativo? 
L'interesse sui titoli viene incassato dall'ente che li ha emessi, e che è essenzialmente un ente pubblico locale. Questo comporta che essi restituiscono al potere politico un potere di spesa e di indirizzo dell'economia che la saturazione dell'economia del debito ha reso pressoché irrisorio.

· Che destinazione hanno le somme ricavate dall'ente? 
La destinazione naturale delle somme incassate a titolo di interesse sui titoli a tasso negativo è quella di ridurre le altre imposte, poiché si tratta di un'imposta che grava su tutta la popolazione e in particolare sulle aziende produttrici. Altra destinazione può essere quella di sostenere la domanda di beni di consumo mediante la distribuzione a titoli di reddito di cittadinanza, ovvero quella di opere di pubblica utilità e tutela dell'ambiente

· Come si può ragionevolmente garantire la circolazione dei titoli? 
Prima di effettuarne le emissioni, l'ente sensibilizzerà l'opinione pubblica per mezzo di un'opportuna campagna pubblicitaria che metta in chiaro le caratteristiche dei titoli stessi, e si premunirà, facendo aderire le imprese di produzione e commerciali del luogo, ad un cartello di produttori che accettano i titoli stessi in pagamento.

· Come deve essere il taglio dei titoli? 
Il taglio dei titoli deve essere il più possibile ridotto, al fine di consentirne la più ampia diffusione in tutti gli strati della popolazione. E' possibile ipotizzare un taglio minimo da 200€ ed uno massimo da 1000€.

· Che effetto ha l'immissione dei titoli nell'economia locale? 
Inizialmente i titoli dovrebbero determinare un aumento della domanda di beni strumentali, e poi generare una crescita equilibrata dell'offerta e della domanda di beni di consumo secondo il moltiplicatore. In generale, i titoli dovrebbero causare un aumento della ricchezza complessiva senza però generare debito.

· Che ruolo hanno gli istituti finanziari con l'emissione dei titoli a tasso negativo? 
Le banche e in generale gli istituti finanziari, possono partecipare all'impresa prestando le garanzie necessarie per l'emissione dei titoli, e possono negoziare i titoli stessi sfruttando lo spread tra il nominale e l'interesse negativo presunto nel periodo di negoziazione garantendosi un ricavo da questo. Le banche e le finanziarie possono, più facilmente dei privati, collocare i titoli presso propri clienti in difficoltà per stimolarne la capacità produttiva e recuperare i propri crediti. I titoli a tasso negativo possono anche essere emessi dalle banche per partecipare ad una nuova impresa e stimolare imprese esistenti.

Usa attaccano Europa con insetto killer?


Ma stranamente l’unica soluzione è quella di acquistare mais
geneticamente modificato e brevettato negli Stati Uniti, comparso sul
mercato immediatamente dopo l’esplosione del flagello. Lo scorso anno la
Diabrotica è apparsa nei campi del Nord Italia, nelle province di
Varese, Como, Sondrio, Lecco, Milano, Bergamo, Cremona. In Italia è
stato isolato per la prima volta nei pressi dell’aeroporto di Venezia.
L’anno scorso in Piemonte, poi in Friuli, e quest’anno anche in Francia.
In Europa, la storia dell’insetto è cominciata nel 1992. L’insetto è
stato visto per la prima volta a Belgrado, vicino ad un hangar per aerei
militari americani. Da allora l’insetto si è propagato con una velocità
impressionante: Ungheria, Croazia, Romania, Bosnia, Bulgaria,
Montenegro, Slovacchia, Ucraina, Austria, Svizzera. "Siamo ormai ad
uno stadio di infestazione tale per cui l’eradicamento non è più
possibile" ha dichiarato Sylvie Derridj, ricercatrice francese.
L’insetto è infatti in grado di deporre uova che restano
"addormentate" in attesa di risvegliarsi in un campo di mais.
Ma l’aspetto più inquietante della vicenda è che qualcuno ha
depositato il brevetto di un mais geneticamente modificato che resiste
all’insetto. Ovviamente sono due potentissime multinazionali americane.

Insospettisce che una di queste due multinazionali abbia condotto
esperimenti in territorio francese prima che l’insetto apparisse.
Secondo l’associazione Criigen, la rapidità con cui è stato messo in
vendita il mais modificato e brevettato è quantomeno sospetta. Gilles
Eric Seralini, professore di biologia all’università di Caen è rimasto
colpito dalla strana coincidenza e non esclude che siano stati
volutamente introdotti nel territorio europeo gli insetti devastatori.
"In Europa una multinazionale americana testava mais transgenici
resistenti a questi insetti, quando apparentemente non ce n’era alcun
bisogno". Ed ora un’ altra domanda sorge spontanea: "Come mai
il morbo della Mucca Pazza si è diffuso solo in Europa" ?

Il successo delle monete alternative in Argentina di Tito Pulsinelli

Nel gergo
dell’usura internazionale questo é un "default". Nella vita
quotidiana della gente comune, questa parola si traduce così:
disoccupazione galoppante, collasso del sistema produttivo e
commerciale, assoluta mancanza di soldi in circolazione.

Le cronache ci hanno portato le notizie delle proteste popolari massive
e ripetute contro il congelamento dei conti bancari, i blocchi stradali
effettuati dai piqueteros, l’autorganizzazione degli espulsi dalla
produzione che rieditano forme associative di mutuo appoggio per
garantirsi

diritti vitali.

I modi in cui le vittime della logica ferrea della macroeconomia
neoliberista si organizzano per far fronte alla situazione, includono
anche gli acquisti comunitari. Liste di famiglie centralizzano i loro
acquisti, e

con un camion vanno direttamente alla fabbrica, per ridurre i costi ed
ottenere prezzi da grossisti.

E poi vi sono settori sempre più numerosi, famiglie in cui tutti sono
stati licenziati, che già non hanno redditi monetari, e han dato vita
alla Rete Globale del Baratto. Si tratta di reti di scambio di merci e
di servizi che usano una moneta alternativa denominata
"credito". Sembra paradossale, però

la risposta alle drammatiche conseguenze prodotte dalla dittatura
fondomonetarista, é il ricorso all’antico sistema del baratto.

E lo faceva appellandosi alla mutua solidarietà per combattere
l’esclusione, alla capacità di mettere in comune beni e competenze, e
scambiarseli. Oggi la Rete é composta da 5800 gruppi, che sommano ben 2
milioni e mezzo di persone. Recentemente si é creata anche un’altra
rete, quella del Baratto Solidario che riunisce 800 mila persone
organizzate in 1500 gruppi. Se si tengono presenti le rispettive
famiglie, non é una esagerazione dire che una diecina di milioni di
persone risolvono, almeno parzialmente, i problemi della sopravvivenza
grazie all’economia alternativa e alla moneta sociale denominata
"credito".

Era una moneta che
doveva servire solo come mezzo di scambio e che non era vantaggioso
accumulare. Per conservare il suo valore nominale, era
necessario applicare un bollino mensile pari all’1% del suo valore. Si
constatò che circolava con una velocità 40 volte maggiore a quella dei
marchi ufficiali iperinflazionati.
Siamo in presenza di un fenomeno di non trascurabile importanza che
attrae l’attenzione dei falsari, delle istituzioni pubbliche e degli
accademici. Nella circolare del 28 agosto, la Rete Globale del Baratto
annuncia l’emissione di nuovi "credito" per neutralizzare la
crescente falsificazione. Le nuove banconote, prodotte direttamente con
la tecnologia comprata dalla Rete, avranno filigrana, numerazione
stampata con laser e codice a sbarre. Inoltre, quando si fotocopiano,
apparirà la dicitura "copia".

La falsificazione non ne ha frenato l’espansione, visto che le liste di
scambio si estendono ora anche ai medici, oculisti, architetti, orti
organici, disoccupati, scuole di musica, turismo, massaggi ecc. E
aumenta anche la periodicità delle Fiere in cui tutti i gruppi
appartenenti alla rete si riuniscono per proporre al pubblico, che
affluisce in gran numero,la lista dei servizi, delle professionalità e
delle merci disponibili allo scambio.

La rilevanza di questa nuova economia non sfugge nemmeno alle
istituzioni pubbliche, che vorrebbero metter mano in questa materia per
regolarizzarla e disciplinarla sotto un controllo centrale. Questi
tentativi sono finora falliti perché cozzano contro questioni come la
legittimità di sottoporre le
reti solidarie al regime fiscale e alle tassazioni. Il vasto spazio
sociale che vive dei "credito" si sottrae a queste attenzioni,
rifiuta l’abbraccio istituzionale, sostenendo che loro non creano
profitti accumulabili ma solo benefici sociali immediati. E difendono
gelosamente la loro autonomia contro la classe politica, che in
Argentina é screditata oltre ogni immaginazione.
"Che se ne vadano tutti!" é lo slogan che gridano a muso
duro.
A livello locale, invece, i municipi della provincia di Buenos Aires, di
Chabacano, Quilmes e Avellaneda accettano i "credito" per il
pagamento delle tasse. Dodici province, a loro volta, han già dovuto
far ricorso all’emissione di segni monetari locali per far fronte al
mantenimento dei residuali servizi sociali. Però la moneta di maggiore
accettazione e circolazione é il "credito", perché ha la
credibilità fornita da alcuni milioni di persone che ne fanno
regolarmente, o saltuariamente, uso.
Rispetto ai titoli emessi dalle province, sono più attrattivi perché
presentano il gran vantaggio che non implicano ulteriore emissione di
debito, che a sua volta genera ulteriore accumulazione di interessi.

Come é pensabile che l’Argentina, paese storicamente agro-esportatore,
oggi non riesca a garantire le calorie sufficienti a molti dei suoi
cittadini?
Com’é stato possibile che un paese che al tempo della dittatura
militare risolveva i problemi alimentari dell’Unione Sovietica
fornendogli tutto il grano di cui aveva bisogno, oggi é una economia
che non riesce a soddisfare i bisogni alimentari della sua gente? Gli
unici in grado di rispondere sono i savi del Fondo Monetario
Internazionale.

Fame vostra,
accumulazione mia, dice l’FMI. Nel frattempo, c’é chi sta dimostrando
che si può -e si deve- prescindere dai banchieri se si vogliono
risolvere problemi immediati di sopravvivenza e di socialità. Si sono
riappropriati dell’uso di un utensile trascurato e decisivo -affatto
neutrale- quale la moneta, piegandola alla misura delle comuni necessitá.
E’ un granello di sabbia nel meccanismo di un sistema basato sulla
riproduzione perenne del debito. Il premio Nobel Perez Esquivel
sintetizzò così: "Mi presti 1, quando ti ho rimborsato 2, ti devo
ancora 3."

UN FUTURO MERAVIGLIOSO di Paolo Cortesi


Non è un futuro piacevole, non
è un’epoca splendente di civiltà, né la dolce Era dell’Acquario
che tanti scorgono nei disegni astrali.


E’ un futuro tetro e grigio, grigio come il cemento armato dei bunkers
e delle prigioni, grigio come il tritolo delle bombe e i manici dei
manganelli, grigio come la mente dei burocrati del dominio legalizzato.


E’ un futuro fatto di sospetti e delazioni, di paura e di violenza. Un
mondo in cui ci si riconosce nella tribù, ci si unisce secondo il censo
(ricchi con i ricchi, e i poveri con i poveri), ci si raggruppa non per
creare qualcosa
, ma contro
qualcuno
. Un mondo che apparentemente è opulento, sazio,
onnipossente; ma in realtà è braccato dal suo stesso terrore di non
esserlo abbastanza o per sempre.


Un mondo che urla con tutta la forza delle sue voci elettroniche di
essere libero, democratico, giusto, ma che ha una morale non migliore di
quella medioevale.


Sì, ha ragione il mio amico Tom Bosco quando afferma che noi critici
della realtà ufficiale dei governi siamo definiti "maniaci del
complotto" o "paranoici della cospirazione". Eh sì, ha ragione, e
non è gradevole dover constatare che le verità
ufficiali
sono talvolta più assurde e inverosimili delle nostre
"illazioni". Ma anche questo è una caratteristica del mondo del
futuro che ci aspetta: la verità non esiste più, esiste soltanto la versione ufficiale dei fatti.


Ma vediamo dunque quel meraviglioso mondo che i nostri fratelli
maggiori statunitensi stanno forgiando per la gioia universale. Fatevi
coraggio e date un’occhiata alla società ideale made in Usa.


Programmata nel gennaio 2002, esiste la Operation TIPS, acronimo per
Terrorism Information and Prevention System (c’è un elegante gioco di
parole: tips vuol dire soffiate).
La TIPS è una mastodontica operazione riservata ai lavoratori (workers,
così non si dirà che la amministrazione Bush non fa qualcosa nel
sociale!!), i quali sono chiamati in massa a riferire su "attività
sospetta e pubblicamente osservabile che potrebbe essere collegata con
il terrorismo".


Tutti controllano tutti, ma nessuno sa chi è controllore e chi
controllato. Questa, in buona sostanza, la filosofia della TIPS (il cui
sito ufficiale è www.citizencorps.gov/tips.html)
. Nella storia contemporanea, esiste un solo precedente simile a questa
orwelliana società di guardiani, ed è la STASI della Germania
Orientale.


Si prevede che circa otto milioni di americani saranno coinvolti in
questa patriottica iniziativa.


Ma se qualcuno, qualche testa calda, avesse ancora la pretesa di
esprimere pubblicamente il proprio dissenso alla più perfetta
delle società? Il Direttorato per l’impiego di armi non letali (Joint
Non Lethal Weapons Directorate, del Pentagono, sigla: JNLWD) ha ben
previsto anche questo, e da anni sta elaborando con la collaborazione
dei soliti luminari delle armi che non ammazzano ma sedano,
tranquillizzano, intontiscono, rendono docili anche i più esagitati.


Sono armi e proiettili (di cui vi è la descrizione tecnica nel sito www.sunshine-project.org/publications/jnlwdpdf;
una organizzazione non governativa che tenta di tenere sotto controllo
lo sviluppo e l’uso delle armi biologiche non letali) che non sparano
piombo, ma nebulizzano sostanze chimiche incapacitanti, molte delle
quali top secret, che inducono convulsioni, vomito, irritazioni,
allergie.


Immaginate l’effetto che avranno su una folla, composta non tutta da
energumeni o da talebani, ma anche da pensionati, bambini, donne
gracili, uomini di mezza età
e di fisico non atletico, immaginate gli effetti che avranno sostanze
quali valium, roipnol, precedex e fentanyl diffusi indiscriminatamente.
(Ma probabilmente i governi del futuro esigeranno un certificato di
robusta costituzione fisica a tutti coloro che intendessero manifestare
in piazza…).


Ecco, questo è un pezzetto del mondo del futuro. E non illudetevi di
trovare un rifugio nella cultura, come fecero i filosofi e gli studiosi
dei primi secoli dopo Cristo. No: noi non avremo neppure diritto
all’estremo conforto del libro, perché la polizia controllerà e
giudicherà le nostre letture. Almeno è quanto già accade negli States,
dove l’FBI "ha iniziato a passare al setaccio regolarmente le
biblioteche (anche quelle di villaggio e di quartiere) per avere i nomi
di chi consultava o prendeva in prestito libri in qualche modo
indicativi di un collegamento con il terrorismo" (Umanità
Nova
, 29.9.2002, pag.5).


E non erano sospetti solo i libri che trattavano del mondo arabo, del
volo o della chimica degli esplosivi; ma anche quelli relativi alla
violazione e difesa dei diritti civili e quelli erotici (che, come tutti
sanno, tradiscono una personalità disturbata tipica dei terroristi…).


Come si vede, quando si comincia con controllare tutto e tutti, il
criterio di valutazione diventa delirante; proprio come è delirante il
concetto stesso che è alla base di questa folle operazione di
schedatura universale.


Ma non spaventatevi, non impallidite: questo è solo un minimo assaggio
del nostro futuro. Gli uomini che amano più di ogni altro la nostra
felicità e la nostra libertà di certo troveranno altre geniali
istituzioni per il nostro bene. La realtà, spesso, supera ogni
immaginazione.

Iraq, il disarmante dossier di Scott Ritter

Fervente
repubblicano, ha votato per Bush ma oggi pubblica un libro-intervista in
cui smonta la costruzione mitologica occidentale sulle armi di
distruzione di massa in possesso di Baghdad

Passo
dopo passo, annuncio dopo annuncio, il mondo sta entrando nell’avventura
della guerra all’Iraq che il presidente statunitense George W. Bush e
l’alleato-maggiordomo Tony Blair vogliono ad ogni costo. Stavolta non ci
sarà nemmeno la bugia della «guerra umanitaria», sarà una
guerra-guerra, tout court, anzi sarà preventiva. Anche se non
mancheranno le motivazioni che ci spiegheranno – già hanno cominciato a
farlo – che l’azione armata alla fine è servita proprio per «prevenire»
un disastro all’umanità di fronte ad armi di distruzione di massa.

Diranno tante cose. Ma il punto è che ogni guerra per essere tale ha
bisogno, da parte del potere, di trovare una sua giustificazione, per
essere narrata e trovare la sua legittimazione. Insomma, stavolta quale
sarà la «Rambouillet» irachena, il casus belli utile a scatenare
l’inferno?

Non l’hanno ancora trovata, ma in queste ore si sta
delineando. Ci dice infatti il Dipartimento di Stato Usa che Stati uniti
e Gran Bretagna hanno definito la risoluzione dell’Onu da imporre
all’Iraq, tale che dovrebbe convincere i recalcitranti che non vogliono
questa guerra – i più – e tale da zittire la disponibilità del regime
di Saddam Hussein che ha risposto, di fronte ai tanti dossier e
rivelazioni, che era disposta, senza condizioni, al ritorno degli
ispettori dell’Onu su tutto il territorio del paese. In buona sostanza
si prepara una Risoluzione «forte» al Consiglio di Sicurezza delle
Nazioni Unite come voleva Bush, scritta da Blair, che impone a Baghdad
la presenza degli ispettori non nei soli siti sospettati di ospitare
armi di distruzione di massa, ma ovunque, soprattutto nelle sedi
politiche del regime, il parlamento e i ministeri, il palazzo
presidenziale compreso. Aggiungeranno magari che, stavolta, gli
ispettori, dovranno essere «protetti» da una missione internazionale
armata. Condizioni, come si vede, fatte apposta per portare al
fallimento della mediazione del segretario dell’Onu, Kofi Annan, che ha
accettato la disponibilità di Baghdad – che chiede la presa in
considerazione del problema della fine delle devastanti sanzioni che
durano da dieci anni – e che ha attivato da subito gli ispettori guidati
dal capo missione Hans Blix che si dichiara pronto a partire. Questi i
fatti, fin qui.

Tenendo presente che l’intera costruzione si regge sulle
dichiarazioni di Bush e Blair che chiedono l’autorizzazione a fare la
guerra per «disarmare» l’Iraq che possiederebbe «armi bateriologiche
e chimiche, armi di distruzione di massa pronte ad essere usate in 45
minuti contro Israele e Cipro» e «l’arma atomica tra pochi mesi». E
si aggiunge in queste ore, richiamando la memoria ancora ferita dell’11
settembre, che «Saddam ha dato le armi chimiche ad Al Qaeda»,
smentendo le smentite su questo fatte solo poche ore prima. Baghdad
corre a rispondere aprendo alla stampa internazionale i «siti»
considerati letali e chiedendo l’arrivo degli ispettori al più presto,
ma non basta e non servirà a nulla. Blair ha presentato un «dossier».
Non convince nessuno, ma per la guerra può bastare, e per l’immaginario
televisivo basta e avanza per dire che ci sono le prove.

Ci
vorrebbe a questo punto qualcuno, davvero autorevole, capace di smontare
la costruzione mitologica occidentale sulle «armi di distruzione di
massa» in possesso di Baghdad. Questo qualcuno c’è. Si chiama Scott
Ritter, ufficiale statunitense eroe dei marines, che ha partecipato per
sette anni alla missione di disarmo in qualità di ispettore Onu e
perdipiù è un fervente repubblicano che ha votato per Bush alle ultime
presidenziali.. Scott Ritter ha pubblicato in questi giorni un
libro-intervista Guerra all’Iraq straordinario quanto decisivo, uscito
in contemporanea in Italia, dov’è stato pubblicato da Fazi Editore (10
Euro, pp. 115) e negli Stati uniti, curato dal noto commentatore e
saggista americano William Rivers Pitt. Un libro che, da questo punto di
vista, davvero è il «controdossier» che andrebbe letto nei parlamenti
occidentali. Che cosa dice di talmente eccezionale l’ex
funzionario-ispettore Onu dal 1991 al 1997 Semplicemente questo: «Se io
dovessi quantificare la minaccia rappresentata dall’Iraq in termini di
armi di distruzione di massa, essa equivale a zero». E la sostanza di
questa affermazione non l’ha solo scritta nelle risposte di questo
libro, o in decine di interviste e articoli che ha pubblicato in questo
ultimo periodo. No, ha fatto di più. In aperto conflitto con il «suo»
governo, è andato a Baghdad in queste settimane per accompagnare i
giornalisti della stampa internazionale a visitare i presunti «siti di
armi di distruzione di massa», che altro non sono che fabbriche civili
o macerie, residuo del buon lavoro di controllo e distruzione fatto
proprio dagli ispettori Onu. Una denuncia così fastidiosa da meritare
la risposta stizzita perfino del segretario di stato Usa Colin Powell.

Un
libro bomba, è il caso di dire. Fin dall’esergo iniziale che cita Karl
Kraus: «Come si governa il mondo per condurlo alla guerra? I
diplomatici dicono bugie ai giornalisti e poi, una volta che le vedono
pubblicate, ci credono». E l’America, scrive nell’introduzione William
Rivers Pitt, dopo l’11 settembre appare propensa a credere e ad
apprezzare ogni contrapposizione tra bene e male, tuttaltro che
tranquilla all’idea che qualcuno abbia armi di distruzione di massa e
che queste possano arrivare ai terroristi di Al Qaeda di bin Laden.
Inoltre Saddam Hussein è stato così demonizzato, ancora di più dopo
la prima guerra del Golfo, con il paragone tra lui e Hitler, che si
ritiene ci siano motivi più che sufficienti per una sua deposizione.
Tuttavia ancora non è chiaro perché sia necessaria questa guerra. E
non è chiaro chi sia Saddam Hussein, mentre tutti o quasi sanno ormai
che Osama bin Laden era nel libro paga della Cia quando organizzava la
resistenza islamica all’occupazione militare sovietica dell’Afghanistan
e che i talebani erano alleati, anche d’affari, del Pakistan,
dell’Arabia saudita e degli Stati uniti fino a un mese prima dell’11
settembre e con loro trattavano il nuovo oleodotto del consorzio
angloamericano Unocal, ora realizzato a «fine» guerra da Hamid Karzai,
neopresidente afghano, ex consulente dell’Unocal e assai probabilmente
agente della Cia.

Il
fatto è, spiega bene il libro, che anche Saddam Hussein è una creatura
americana: «E’ un mostro, sì, ma il `nostro’ mostro, è una creazione
americana come la Coca Cola e l’Oldsmobil». E’ stato il governo
americano del presidente Ronald Reagan ad appoggiare e ad armare il suo
regime, ferocemente impegnato contro il fondamentalismo islamico interno
e iraniano, fin dall’inizio degli anni Ottanta – nell’82 l’Iraq venne
cancellato dalla lista dei paesi terroristi – per contrastare
l’influenza sovietica nella regione, e ad armarlo ancora di più durante
la guerra con l’Iran, guerra in cui ha usato sul campo di battaglia armi
chimiche fornite proprio dallo stato maggiore americano, guerra
sostenuta attivamente dall’intelligence Usa che pianificò battaglie,
attacchi aerei e danni dei bombardamenti. Una guerra costata due milioni
di morti. Come dettagliatamente resocontato nell’agosto del 2002 dal New
York Times che ha pubblicato dettagliate e controfirmate dichiarazioni
di alti ufficiali Usa coinvolti nella politica di aiuti militari
all’Iraq durante l’Amministrazione Usa: l’America sapeva che Saddam
Hussein usava armi chimiche contro l’Iran, ma continuava a fornirgli
armi e assistenza. L’America chiudeva tutti e due gli occhi sugli
effetti devastanti di quel riarmo, chimico, batteriologico, nucleare
visto che l’avvio di nucleare iracheno era stato bombardato nel 1981
dall’altro «mostro» americano nell’area, vale a dire Israele con il
suo potenziale bellico e atomico (200 testate, ma clandestine). Una
conoscenza delle armi di Saddam Hussein che sarebbe tornata utile nei
bombardamenti chirurgici della prima guerra del Golfo: uno scherzo per i
bombardieri di precisione americani, visto che i siti erano nei cassetti
dello stato maggiore Usa che li aveva costruiti. Non uno scherzo per i
100.000 militari occidentali contaminati dalla Sindrome del Golfo,
quella che ora tutti dimenticano.

E
inolte, vorremmo ricordare noi, quale America gridava allo sterminio
quando, nel 1984, Saddam Hussein massacrava i comunisti iracheni? E poi
«sempre gli Stati uniti non hanno deposto il regime di Baghdad durante
la guerra del Golfo, e di fatto hanno ostacolato i tentativi di
rovesciare Saddam Hussein compiuti dai ribelli iracheni sollecitati
all’azione dalla nostra retorica» e, aggiungiamo, dalle promesse della
Cia.

Il
libro-intervista racconta decine e decine di ispezioni, di indagini
campione di sarin, di scoperte poi dimostratesi di scarso rilievo, delle
menzogne degli iracheni smascherate, del lavoro delle ispezioni a
sorpresa della biologa Diane Seaman e l’affare del codice segreto che
parlava di «Attività biologiche speciali», documento che poi si rivelò
come il testo dei servizi segreti iracheni per la sicurezza personale
del dittatore iracheno, e il mondo fu perfino sull’orlo di una nuova
guerra che poi fu evitata e su cui, mentendo, soffiava – denuncia Scott
Ritter – l’ex capo ispettore Richard Butler pur informato sulla realtà
e inconsistenza dell’affare; e ancora di tensioni per le ispezioni nelle
sedi istituzionali, di approfondimenti in laboratorio, dell’impianto di
fermentazione chimica di Al Hakum fatto esplodere dagli ispettori, del
monitoraggio capillare dal 1994 al 1998 della totalità degli impianti
chimici iracheni. Ispezione dopo ispezione per arrivare alla conclusione
che i bombardamenti e il lavoro di distruzione ha praticamente portato a
zero il grado di pericolosità dell’Iraq quanto ad armi di distruzione
di massa. «Ritengo a questo punto fondamentale un problema di cifre –
risponde Scott Ritter nel libro -. L’Iraq ha distrutto il 90-95% delle
sue armi di distruzione di massa. Dobbiamo ricordare che il restante
5-10% non costituisce necessariamente una minaccia né un programma di
armamento, se non siamo in grado di dire quella percentuale minima che
fine ha fatto, non significa che l’Iraq ne sia ancora in possesso»,
dopo il massiccio embargo e il passaggio degli ispettori.

E
i legami con Al Qaeda? E la bomba atomica di Saddam pronta tra pochi
mesi?

Scott
Ritter non ha dubbi e definisce la «connessione» con Al Qaeda «una
faccenda palesemente assurda». «Saddam Hussein – ricorda – è un
dittatore laico, ha passato gli ultimi trenta anni a dichiarare guerra
al fondamentalismo islamico, facendolo a pezzi. A parte la guerra
all’Iran degli ayatollah, in Iraq sono in vigore leggi che sentenziano
la pena di morte per il proselitismo in nome del wahabismo, la religione
di Osama bin Laden. Osama odia in modo particolare Saddam, lo chiama
l’apostata, un’accusa che implica la pena di morte». L’unica arma, se
così si può dire, che lega Osama bin Laden e l’Iraq è il fatto che il
leader di Al Qaeda così come reclama la libertà in Palestina condanna
il mondo occidentale per le sanzioni all’Iraq. Perché? «Perché le
sanzioni americane – risponde Scott Ritter – non colpiscono certo Saddam,
colpiscono il popolo iracheno», al quale bin Laden si richiama
profeticamente usando le sanzioni come grido di guerra. Quanto al
nucleare, il libro-intervista rivela che il fondamento di questa accusa
risiede in alcuni fuoriusciti e disertori, Khidre Hamza, funzionario di
medio livello del programma nucleare iracheno, oggi immeritatamente
protagonista di molti programmi-scoop della tv americana, e soprattutto
aiutante di Hussein Kamal genero di Saddam e responsabile della
commissione militare industriale irachena. E’ stato Hamza a raccontare e
a costruire con la Cia i dati sul presunto programma nucleare iracheno
attuale, ma lo stesso genero di Saddam, Hussein Kamal, quando disertò
nel 1995, si rifiutò di sottoscrivere e prendere per buoni quei dati
definendoli «un falso grossolano».

Resta
un solo interrogativo vero, che William Rivers Pitt prende alla fine di
petto con questa domanda: «Lei è un veterano dei marine, un ufficiale
e un funzionario di intelligence. Ha passato sette anni in Iraq a
rintracciare queste armi per garantire la salvezza e la sicurezza non
solo di questo paese, ma anche del Medio Oriente e del mondo. Eppure
alcuni suoi concittadini la chiamano traditore perché parla così
apertamente di tali argomenti. Come risponde?». «La gente può dire
quello che vuole – risponde secco ma sereno Scott Ritter – ma chi parla
in questo modo non fa che dimostrare la propria ignoranza. Esiste una
cosuccia che si chiama Costituzione degli Stati uniti d’America. Quando
ho indossato l’uniforme dei marines e mi fu affidato l’incarico di
ufficiale ho giurato di essere fedele e di difendere la Costituzione
contro tutti i nemici, esterni e interni. Questo significa che sono
disposto a morire per quel pezzo di carta e per quello che rappresenta.
Quel documento parla di noi come popolo, e di un governo del popolo,
fatto dal popolo, per il popolo, Parla di libertà di parola e di libertà
civili individuali….Il massimo servizio che posso rendere al mio paese
– conclude Scott Ritter – è di facilitare la discussione e il dialogo
sul comportamento da tenere verso l’Iraq…Se quelli che esercitano
pressioni a favore della guerra non sono in grado di provare le proprie
ragioni, l’opinione pubblica americana dovrà esserne consapevole». «Voglio
che l’America non commetta l’errore di questa guerra», ha ripetuto sui
giornali americani in questi giorni. Forse, alla maniera di Scott Ritter,
vale la pena sentirsi un po’ «tutti americani».

I libri di scuola, vuota cataloghi senza cultura di Domenico De Simone

Già perché tutti sanno che la scuola
non va, che insegna poco o niente, che così com’è non solo non serve
ma è persino controproducente. Però sui giornali, in
televisione, in parlamento e nei partiti, a
proposito della scuola si parla d’altro.

La signora Moratti vuole trasformare definitivamente la scuola in un
test di ammissione alle imprese, possibilmente di proprietà del
Presidente del Consiglio che prima o poi
riuscirà ad impadronirsi dell’intero sistema produttivo
e quindi ha bisogno per le sue (attuali e future) aziende di
gente che sappia farle funzionare.

La sinistra difende l’indifendibile, cioè un sistema sclerotico,
statalista,centralista, sfiancato dalla logica dell’appiattimento
scambiata per democrazia, della stupidità
presa per uguaglianza, un burosauro che non ha più
nulla da dire e che non insegna più nulla a nessuno.

Dei veri problemi della scuola non parla nessuno. E allora
proviamoci,cominciando da quello che sembra un problema banale e che
invece nasconde il vero problema di questa
scuola: I libri di testo.

L’anno scorso c’è stata una bella polemica sui libri di storia. Anche
quest’anno qualche bello spirito se n’è uscito stigmatizzando il
contenuto politico di certi testi
scolastici. Levata di scudi da parte della sinistra,difesa della libertà
di insegnamento, sbandieramenti vari da una parte e
dall’altra.

Nessuno ha parlato del vero problema dei libri di testo.
Provate a sfogliarne uno. Per carità non andate a comprarlo con
quello che costano sarebbe un salasso.
Entrate in una libreria specializzata e prendetene
uno a caso, facendo finta che state cercando davvero qualcosa.

Tanto sono tutti più o meno uguali. Sembrano cataloghi di un
mobilificio o di un supermercato. Carta
patinata, tante fotografie, poco testo, qualche sfondone,
niente idee. Costano tanto, però. Mica per le idee che non ci
sono, ma per la carta, per le foto, e soprattutto per le case
editrici. E pure per quel misto di
corruzione e di supina acquiescenza che induce le scuole
pubbliche a cambiare i libri di testo tutti gli anni costringendo le
famiglie a svenarsi, spendendo un sacco di soldi inutilmente.

Quello dei libri di testo è un bell’affare. Milioni di studenti
comprano ogni anno milioni di libri. Pesano
pure, ma quello è perché i nostri eroi vogliono
che i ragazzi facciano tanta ginnastica.

Le case editrici specializzate, ogni anno devono fare fatturato
ed incrementare quello dell’anno precedente. Così il ricambio di libri
di testo è sempre più veloce, la
produzione ha le sue esigenze il bilancio pure e la
concorrenza è tanta. E facendo ogni anno un’edizione diversa si
spiazza anche il mercato dell’usato perché
rende buoni per il macero i libri dell’anno
prima. Torme di piazzisti, vagolano per le scuole italiane
concludendo accordi commerciali con presidi, professori, regioni,
comuni,ispettorati vari, per garantirsi che il ricambio favorisca la
propria azienda. Ogni anno si devono vendere più libri, devono costare
di più, devono essere create nuove
specializzazioni per fare altri libri. Insomma tanto
fatturato perché deve crescere. E la
cultura? Che c’entra la cultura?

Mai visto al supermercato un prodotto
così. Nei cataloghi non c’è cultura e la logica non è quella della
trasmissione della cultura ma quella del profitto. E
l’alternativa è la conservazione del
burosauro che non insegna niente e non dà niente.
La cultura è la premessa della libertà. Senza la conoscenza,
senza la capacità critica, senza la
possibilità ci scambiare con gli altri che ti da solo
la cultura non c’è libertà.

Questa scuola deve produrre schiavi per la produzione secondo la destra
al governo e burocrati per la conservazione
per la sinistra all’opposizione.

Entrambe sono figlie della logica del profitto, di un sistema in
cui i valori stanno nelle cose, nelle
merci, nella produzione e non nelle persone.



La coscienza della libertà si costruisce nella cultura
della libertà. Questo ce l’ha insegnato la
storia, ed è per questa ragione che stanno cercando di
distruggerla, perfettamente d’accordo, destra e sinistra di
governo nel piano di eliminare la cultura
dalla scuola. Costruire generazioni di schiavi,
nel corpo e nell’anima è questo il loro obiettivo, perché solo così
possono perpetuare il loro potere.

Sta a noi, sta all’opposizione vera a questo sistema, ritrovare e
costruire la cultura nella scuola e nella
società. La cultura dell’umanità, della speranza,
della vita. La cultura dell’uguaglianza, della libertà e dei
diritti, il diritto di vivere, il diritto di pensare, il diritto
di criticare.

Rifacciamola questa scuola.

Cosa gli americani hanno imparato, e non imparato, dall’11 settembre di Noam Chomsky

L’11 Settembre ha scosso molti americani, rendendoli consapevoli che
farebbero meglio a essere più attenti a quello che fa nel mondo il
Governo degli Stati Uniti e a come viene considerato. Molte questioni
che prima non erano all’ordine del giorno sono state aperte. Il che è
un fatto positivo.

Si tratta anche del più semplice buon senso, se speriamo di ridurre le
probabilità di future atrocità. Potrebbe essere di conforto agli
Americani avere la pretesa che i loro nemici "odiano le nostre libertà",
come afferma il Presidente Bush, ma non sarebbe saggio ignorare il mondo
reale, che trasmette lezioni diverse.

Un’indagine nel mondo arabo dopo l’11 settembre rivela che le stesse
ragioni vengono sostenute oggi, aggravate da risentimenti su specifiche
politiche.

Singolarmente, ciò è vero anche se riferito ai settori privilegiati
della regione orientati a favore dell’Occidente.

Per menzionare soltanto un esempio recente, Ahmed Rashid, lo specialista
della regione internazionalmente riconosciuto, nel numero del 1
agosto della Far Eastern Economic Review
scrive che in Pakistan "vi è una rabbia crescente
a che il sostegno degli Stati Uniti consista nel permettere il
regime militare (di Musharraf), che ritarda la promessa di
democrazia".

Oggi gli Americani si attirano poche simpatie scegliendo di credere che
"loro ci odiano" e che "odiano le nostre libertà". Al
contrario, questi sono popoli ai quali
piacciono gli Americani, e ammirano molte cose degli Stati
Uniti, incluse le loro libertà. Ciò che loro odiano sono le
politiche ufficiali che negano le libertà
alle quali anche loro aspirano.

Per simili ragioni, le declamazioni di Osama bin Laden dopo l’11
Settembre -per esempio a riguardo del sostegno degli Stati Uniti a
favore di regimi corrotti e brutali, o a
proposito della loro invasione dell’Arabia Saudita,
hanno una certa risonanza, perfino fra coloro che lo disprezzano
e lo odiano. Dal risentimento, dalla rabbia
e dalla frustrazione, le bande terroristiche
sperano di ricavare sostegno e adesioni.

Dovremmo anche essere consapevoli che molti nel mondo ritengono
Washington un regime terrorista. In anni recenti, gli Stati Uniti hanno
attuato o sostenuto operazioni militari in Colombia, Nicaragua, Panama,
Sudan e Turchia, per menzionarne una piccola parte, che incrocia le
definizioni ufficiali americane di terrorismo – che è, quando gli
Americani applicano il termine ai nemici.

Simili percezioni non sono cambiate in considerazione del fatto che
l’11 Settembre, per la prima volta, un paese occidentale è stato
sottoposto a un orrendo attacco terroristico sul proprio suolo d’un
genere del tutto familiare anche alle vittime del potere occidentale.
L’attacco è andato ben oltre ciò che talvolta è chiamato il terrore
al minuto dell’Ira o delle Brigate Rosse.

Il terrorismo dell’11 Settembre ha determinato una severa condanna in
tutto il mondo e un moto spontaneo di simpatia verso le vittime
innocenti. Ma con precisazioni.

Un sondaggio Gallup nel tardo settembre trovò una scarsa adesione per
"un attacco militare" degli Stati Uniti
in Afghanistan. In America Latina, la regione
con la maggiore esperienza d’interventi da parte americana,
l’adesione oscillò dal 2% in Messico al 16% a Panama. L’attuale
"campagna d’odio" nel mondo arabo è, naturalmente, anche
alimentata dalle politiche degli Stati
Uniti verso il conflitto israelo-palestinese e l’Iraq. Gli Stati
Uniti hanno fornito il sostegno decisivo per la dura politica di
occupazione militare da parte d’Israele, che dura da 35 anni.

Una maniera per gli Stati Uniti di ridurre la tensione tra Israeliani e
Palestinesi potrebbe essere smettere di non aggregarsi al
consenso internazionale che dura da tempo e
che chiede il riconoscimento del diritto per
tutti gli stati nella regione di vivere in pace e in sicurezza, incluso
lo stato della Palestina nei territori attualmente occupati
(forse con modifiche di confine secondarie
e reciproche). In Iraq, dieci anni di dure sanzioni economiche dovute
alla pressione degli Stati Uniti hanno rafforzato Saddam
e nel contempo causato la morte di migliaia d’iracheni – forse più
persone "di quelle massacrate dalle cosiddette armi di
distruzione di massa durante la storia",
hanno scritto nel 1999 gli analisti militari John e Karl
Mueller in Foreign Affairs.

Quanto a un attacco degli Stati Uniti contro l’Iraq, nessuno, compreso
il Segretario alla Difesa Donald Rumsfeld,
può realisticamente supporne i realistici
costi e le conseguenze. Gli estremisti radicali islamici
sicuramente sperano che un attacco all’Iraq uccida molte
persone e distrugga una larga parte del
paese, procurando adesioni per atti terroristici.

Presumibilmente essi salutano inoltre la Dottrina Bush che proclama il
diritto di attaccare tutte le potenziali minacce, che
virtualmente sono illimitate. Il Presidente
ha annunciato che: "Non si può dire quante guerre
saranno necessarie per assicurare la libertà nel mondo".
Questo è quanto.

Le minacce sono ovunque, anche a casa nostra. La ricetta per la guerra
senza fine presenta agli Americani un pericolo di gran lunga maggiore di
quello costituito dai nemici che si
avvertono, per ragioni che le organizzazioni terroristiche
capiscono molto bene.

Vent’anni fa, il precedente capo dei servizi di sicurezza israeliani,Yehoshaphat
Harkabi, che era anche un eminente arabista, arrivò a un punto
che ancora va considerato giusto. "Offrire una soluzione
onorevole ai Palestinesi, rispettando il
loro diritto all’auto determinazione: questa è la
soluzione al problema del terrorismo", disse. "Quando la palude
scompare, non ci sono più zanzare".

A quel tempo, Israele godeva d’una virtuale immunità dalle ritorsioni
all’ interno dei territori occupati, che
si è protratta fino a tempi molto recenti.
Ma l’ammonimento di Harkabi era appropriato, e la lezione applicata
molto genericamente.

Se l’America insiste a creare molte paludi, ci saranno molte zanzare,
con terrificanti capacità di distruzione.

Se l’America dedica le sue risorse a prosciugare le paludi, mirando ai
fondamenti delle campagne d’odio, potrà non solo ridurre le minacce
che fronteggia, ma anche beneficiare degli ideali che professa e che non
sono irraggiungibili se gli Americani scelgono di prenderli sul serio.

————————

L’accademico americano Noam Chomsky è l’autore del recentissimo
best seller 11 Settembre.

Usa: in un documento il progetto per sottomettere l’umanita’


Il settimanale scozzese, Sunday Herald, ha pubblicato il 15 settembre
scorso il sunto di un documento redatto due anni fa per conto di alcuni
dei principali esponenti dell’attuale governo statunitense, che descrive
in
dettaglio un progetto per la sottomissione militare del pianeta al
dominio statunitense. Un progetto che – tra molte altre cose – descrive
con apparente favore la possibilità di creare armi biologiche capaci di
sterminare "specifici genotipi".

Il documento, intitolato Rebuilding America’s Defences: Strategies,
Forces And Resources for a New Century, fu scritto nel settembre del
2000 – quando Bush non era ancora presidente – dal Project for the New
American Century (PNAC), uno dei numerosi think-tank della destra
statunitense. Il testo fu redatto per un gruppo specifico di persone,
che oggi ricoprono incarichi non indifferenti: Dick Cheney, attuale
vicepresidente degli Stati Uniti; Donald Rumsfeld, attuale segretario
alla difesa; Paul Wolfowitz, attuale vicesegretario alla difesa; Jeb
Bush, fratello del presidente; e Lewis Libby, capo dello staff di Cheney.

Di seguito, troverete la traduzione integrale dell’articolo del Sunday
Herald. Legandosi all’attualità, il giornalista scozzese ha insistito
su un dettaglio, il progetto per rovesciare il governo iracheno. Ma il
documento va visto in un contesto molto più ampio.

Già alla fine degli anni Cinquanta, un vecchio conservatore, il
presidente Eisenhower, metteva in guardia contro la struttura mostruosa
che cominciava a dominare il suo paese: una coalizione sempre più
stretta tra immense
imprese legate alle commesse militari, uno Stato che aveva come funzione
principale la conduzione della guerra e una sterminata catena di
laboratori dove scienziati, sociologi, tecnici di ogni sorta lavoravano
anno dopo anno
per affinare gli strumenti del dominio, a prescindere completamente
dalla pur vivace società civile del paese. Il testo che leggerete è un
esempio, nemmeno tanto insolito, di ciò che si produce in questi
laboratori.

Questa simbiosi, in nome della "guerra duratura", tra alcune
gigantesche corporations, lo Stato e la ricerca sembra una riedizione di
un aspetto fondamentale del nazionalsocialismo dell’epoca dei Krupp e di
Peenemünde.
Il parallelo è ovviamente tecnico e non demonizzante: è inutile
elencare le profonde differenze tra il sistema statunitense e quello
della Germania degli anni Trenta. Ma è inevitabile che una struttura di
questo tipo porti
non solo a uno stato di Enduring War, ma anche – come è successo con il
Patriot Act – all’abolizione di alcuni elementi fondamentali di
democrazia.

La sede del "progetto per un nuovo secolo americano" (un nome,
un programma) coincide con quella di un giornale di proprietà del
miliardario dei media, Murdoch, cosa che può indurre a utili
riflessioni sulla libertà di stampa. Il direttore del PNAC, William
Kristol, è il figlio di Irving Kristol, il principale ideologo della
nuova destra americana, che è riuscito a prendere in mano le redini di
alcune ricchissime fondazioni americane, tra cui spicca la Olin
Foundation, creata dalla principale impresa di armi da fuoco degli Stati
Uniti. Queste fondazioni hanno versato milioni di dollari per
trasformare anche la produzione di idee in un annesso dell’industria
bellica.

Grazie a Irving Kristol, ad esempio, Samuel Huntington ha potuto
incassare finora ben cinque milioni di dollari da varie fondazioni come
premio per aver creato la famosa nozione di "scontro di civiltà".
Che prima ancora di
essere un libro è uno slogan, ormai noto anche ai meno colti.

Miguel Martínez
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Neil Mackay:

"Bush aveva pianificato il ‘cambio di regime’ in Iraq prima ancora
di diventare presidente"
Sunday Herald – Scozia – 15 settembre 2002

Un progetto segreto per il dominio globale statunitense rivela che il
Presidente Bush e il suo governo avevano pianificato un attacco
premeditato contro l’Iraq per imporvi un "cambio di regime"
addirittura prima del suo
ingresso alla presidenza nel gennaio del 2001.

Il progetto – scoperto dal Sunday Herald – per la creazione di una
"Pax Americana globale" è stato redatto per Dick Cheney
(attualmente vicepresidente), Donald Rumsfeld (segretario alla difesa),
Paul Wolfowitz (il vice di Rumsfeld), il fratello minore di George W.
Bush, Jeb e per Lewis Libby (il capo dello staff di Cheney). Il
documento, dal titolo "Rebuilding America’s Defences: Strategies,
Forces And Resources For A New Century"
("ricostruire le difese dell’America: strategie, forze e risorse
per un nuovo secolo"), è stato redatto nel settembre del 2000 dal
think-tank di destra [neo-conservative], il Project for the New American
Century (PNAC)
["progetto per un nuovo secolo americano"].

Il piano mostra che il governo Bush intendeva assumere il controllo
militare del Golfo a prescindere se Saddam Hussein fosse o no al potere.
Il testo dice ‘gli Stati Uniti hanno cercato da decenni di svolgere un
ruolo più permanente nella sicurezza regionale del Golfo. Mentre il
conflitto irrisolto con l’Iraq fornisce una giustificazione immediata,
l’esigenza di avere una sostanziosa presenza delle forze americane nel
Golfo va oltre la questione del regime di Saddam Hussein.’

Il documento del PNAC presenta ‘un progetto per conservare la preminenza
globale degli Stati Uniti, impedendo il sorgere di ogni grande potenza
rivale, e modellando l’ordine della sicurezza internazionale in modo da
allinearlo ai principi e agli interessi americani’.

Questa ‘grande strategia americana’ deve essere indirizzata ‘il più
lontano possibile verso il futuro’, dice il rapporto. Che invita poi gli
Stati Uniti a ‘combattere e vincere in maniera decisiva in teatri di
guerra molteplici e contemporanei’, come una ‘missione cruciale’ [core
mission].

Il rapporto descrive le forze armate statunitensi all’estero come la
‘cavalleria lungo la nuova frontiera americana’. Il progetto del PNAC
dichiara il proprio sostegno a un documento scritto in precedenza da
Wolfowitz e Libby, in cui si affermava che gli Stati Uniti dovrebbero
‘dissuadere le nazioni industriali avanzate dallo sfidare la nostra
egemonia (leadership) o anche dall’aspirare a svolgere un ruolo
regionale o globale maggiore’.

Il rapporto del PNAC inoltre:

– descrive gli alleati chiave, tra
cui il Regno Unito, come ‘il mezzo più efficace per esercitare
un’egemonia globale americana’;

– afferma che le missioni militari
per garantire la pace ‘richiedono un’egemonia politica americana e non
quella delle Nazioni Unite’;

– rivela l’esistenza di
preoccupazioni nell’amministrazione americana a proposito della
possibilità che l’Europa possa diventare un rivale degli USA;

– dice che ‘anche se Saddam dovesse
uscire di scena’, le basi nell’Arabia Saudita e nel Kuwait dovranno
restare in maniera permanente – nonostante l’opposizione locale tra i
regimi dei paesi del Golfo alla presenza di soldati americani – perché
‘anche l’Iran potrà dimostrarsi una minaccia pari all’Iraq agli
interessi statunitensi’;

– mette la Cina sotto i riflettori
per un ‘cambio di regime’, dicendo che ‘è arrivata l’ora di aumentare
la presenza delle forze armate americane nell’Asia sudorientale’. Ciò
potrebbe portare a una situazione in cui ‘le
forze americane e alleate forniscano la spinta al processo di
democratizzazione in Cina’;

– invita a creare le ‘US Space
Forces’ ("forze spaziali statunitensi") per dominare lo
spazio, e ad assumere il controllo totale del ciberspazio in modo da
impedire che i ‘nemici’ usino internet contro gli Stati Uniti;

– anche se gli Stati Uniti
minacciano la guerra contro l’Iraq per aver sviluppato armi di
distruzione di massa, gli USA potrebbero prendere in considerazione, nei
prossimi decenni, lo sviluppo di armi biologiche – che pure sono state
messe al bando. Il testo dice: ‘nuovi metodi di attacco – elettronici,
‘non letali’, biologici – diventeranno sempre più possibili.
.. il combattimento si svolgerà in nuove dimensioni, nello spazio, nel
ciberspazio, forse nel mondo dei microbi… forme avanzate di guerra
biologica in grado di prendere di mira genotipi specifici potranno
trasformare la guerra biologica dal mondo del terrorismo in un’arma
politicamente utile’;

– il testo prende di mira la Corea
del Nord, la Libia, la Siria e l’Iran come regimi pericolosi, e sostiene
che la loro esistenza giustifica la creazione di un ‘sistema mondiale di
comando e di controllo’.

Tam Dalyell, deputato laburista [nel parlamento di Londra] e una delle
principali voci di ribellione contro la guerra all’Iraq, ha dichiarato:
‘si tratta di immondizia proveniente da think tank di destra pieni di
falchi-coniglio – gente che non ha mai visto gli orrori della guerra, ma
è innamorata dell’idea della guerra. Gente come Cheney, che è riuscita
a sfuggire al servizio militare ai tempi della guerra del Vietnam.

‘Si tratta di un progetto per il dominio mondiale statunitense – un
nuovo ordine mondiale creato da loro. Questi sono i processi mentali di
americani fantasticanti, che desiderano controllare il mondo. Sono
sconvolto dal
fatto che un primo ministro laburista inglese vada a letto con una banda
di gente di una tale bassezza morale.’

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Questo articolo può essere
riprodotto liberamente, sia in formato elettronico che su carta, a
condizione che non si cambi nulla, che si specifichi la fonte – il sito
web Kelebek http://www.kelebekler.com – e che si pubblichi anche questa
precisazione.

UN ANNO DOPO di Paolo Cortesi


Quella data è da molti
commentatori intesa come uno spartiacque, un segno epocale che determina
un prima e un dopo nella
storia del mondo.


Ciò è drammaticamente vero per le migliaia di famiglie che hanno avuto
i loro cari uccisi in quella mostruosa e sconcertante azione di guerra
anomala. Ma per il mondo, per la storia del mondo, l’11 settembre non
è paragonabile ad un 14 luglio 1789 o ad un 1 settembre 1939…


Voglio dire che la tragedia delle Torri Gemelle è più comprensibile
(anche se resta insopportabile la sua carica di atrocità) all’interno
e non come evento eccezionale
della storia occulta del mondo occidentale.


La versione popolare dell’11 settembre è molto semplice, addirittura
bambinesca: una banda di cattivi ha proditoriamente attaccato una
nazione che, burbera ma benefica, faceva da sentinella a tutto il mondo.

Chi segue la controinformazione (e soprattutto certi siti Internet) sa
bene che le cose non stanno affatto così; che ci sono molti punti poco
chiari nella versione "ufficiale"; che ci sono tante domande a cui i
"potenti buoni" (sic!) non hanno mai saputo o voluto rispondere; che
il mostro sanguinario d’adesso era, pochi mesi prima, un baldo alleato
della CIA in Afghanistan contro i russi.


L’asse del male è poco più che una trovata buona per la
sceneggiatura di un filmetto d’avventura, e che gli intrecci fra
"buoni" e "cattivi" sono così stretti, fitti e imprevedibili da
far smarrire anche i più abili osservatori imparziali.


La tragedia dell’11 settembre ha reso alle masse tutto più
rudimentale, quindi più semplice, quindi più manipolabile: di qua i
buoni, di là i cattivi. Ogni dubbio è antipatriottico; ogni incertezza
è un tradimento. Si è creato un clima così nevrotico che parenti
stessi delle vittime delle Twin Towers hanno disapprovato Bush che,
dicono, ha utilizzato il disastro di New York per imporre un sistema di
controllo e di sottomissione prima impensabile e intollerabile dalla
antica tradizione democratica illuministica americana.


Questo primo anniversario di lutto è diventato (è triste ammetterlo)
un’altra grancassa per la vulgata che i mass media belano a comando: i pompieri glorificati,
le bandierone a stelle e strisce che sventolano solennemente, i patrioti
autonominatisi "buoni americani" che reprimono con fiera dignità la
lacrima e protendono il forte mascellone.


Dall’altra parte, le orde maligne: i fanatici della distruzione, i
votati all’apocalisse, i talebani (ma ve li ricordate più? ormai sono
spariti dalla mitologia massmediatica…). Questa è una politica da cow
boys, o per usare un termine più appropriato, una politica
manicheistica, che considera una parte santa e l’altra miserabile; il
brutale semplicismo di questa idea è così evidente da rivelare tutta
la sua inutilità.


Ma basta trascurare un attimo quello che i governi vogliono che noi
pensiamo, basta rivolgersi ad altre fonti di informazioni (ho trovato
eccellente, ad esempio, www.propagandamatrix.com,
mentre resta insostituibile il sito www.whatreallyhappened.com), basta
tentare una riflessione che non sia quella suggerita dai mass media
addomesticati ed il primo anniversario della tragedia appare qualcosa di
più complesso che la commemorazione di una aggressione inattesa.


Dobbiamo constatare, con sgomento, che la condizione di guerra è
funzionale alle potenze occidentali, poiché si è dimostrata un alibi
eccellente. I colossi del capitalismo feroce (ricordate il caso Enron?)
si stanno rivelando delle associazioni a delinquere. La follia criminale
dei capitalisti multinazionali sta ammazzando il pianeta. Ma tutto
questo non conta, perché (secondo la collaudata filosofia degli
americani duri e puri) prima c’è un nemico da eliminare; al resto si
penserà dopo, forse…

Dopo l’undici settembre, il governo Usa e i suoi più genuflessi
alleati considerano la guerra come il loro diritto più sacrosanto, e la
evocano e la minacciano e la assaporano con la serena tranquillità
della vittima inerme.


"Dobbiamo difenderci dal terrorismo!" dichiarano i guerrafondai
esteri e nostrani "Dobbiamo vivere in un mondo senza la paura di
attacchi atomici o batteriologici!"; eppure chi sentenzia ora con
tanta saggezza è esattamente chi ha accumulato negli arsenali migliaia
di testate atomiche e tonnellate di aggressivi chimici e batteriologici
che potrebbero sterminare l’umanità un paio di volte. Alla cieca
violenza degli integralisti, che pare balzata nel presente dal più cupo
medioevo barbarico, è opposta la violenza tecnologica, sofisticata,
brillante di led e di acciaio
della fantasmagorica cultura tecnocratica.


In questo primo anniversario, è usuale parlare di un mondo
cambiato
. No: il mondo non è cambiato; perché ancora una volta è
la violenza a vincere su tutti; non è cambiato, perché – come accade
da sempre – chi governa considera la gente come pedine da muovere in
una scacchiera; non è cambiato, perché per l’ennesima volta chi
comanda parla di un bene collettivo che è invece il suo solo progetto
di dominio. E non è cambiato il linguaggio sfuggente, ambiguo,
arrogante dei potenti, le cui
menzogne
devono essere la
verità delle masse docili
.


Sono cambiate le forme del controllo, che è divenuto hollywoodiano,
spettacolare, mastodontico.


E’ cambiato il già perverso rapporto individui/governi, che pare
destinato a diventare in tempi rapidi ad una specie di folle gioco
televisivo. Come nelle novelle della più scadente fantascienza, le
forze del bene lottano e vincono le forze del male; così ci dicono.


Ma il vero male è il dominio dell’uomo sull’uomo, e di questo
peccato mortale sono macchiati tanto gli americani di lusso quanto gli
ispidi integralisti islamici.