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Un colore bello da morire

un colore bello da morire
dama vittoriana con abito verde

L’ossessione per un colore bello da morire, nel senso letterale, colpì l’Europa fra il XVIII ed il XIX secolo. Il pigmento in questione è il verde Parigi o verde arsenico. Il secondo nome è significativo, perché è un vero e proprio veleno.

un colore bello da morire
dama vittoriana con abito verde

 

Il verde Parigi (noto con molti altri nomi, tra cui verde smeraldo e verde arsenico) è un pigmento particolarmente brillante e duraturo che fu sintetizzato per la prima volta nel 1775, a partire da una combinazione di solfato di rame, carbonato di potassio e ossido di arsenico. In pratica era un vero e proprio veleno.
All’epoca era certamente noto che l’arsenico fosse una sostanza mortale ma si era convinti della sua pericolosità solo a seguito di ingestione in alte dosi.
Era usato anche per preservare da distruttive infestazioni i libri antichi e pregiati.

L’ossessione per il verde arsenico travolse l’Europa.

Il pigmento verde smeraldo ebbe un successo straordinario e una vera e propria onda ossessiva di moda verde travolse l’Europa. Quel colore bello da morire era irresistibile.
Si usava per abiti, tendaggi, carta da parati, tappeti, candele, rivestimenti degli armadi, nella stampa, nella pittura e perfino come colorante di alimenti e contenitori per alimenti.
Le dame, in particolare, sfoggiavano con orgoglio abiti e calze di seta del nuovo e sgargiante colore.

 

Colore bello da morire
Abito d’epoca nell’ambito colore verde
Allarmisti inascoltati

Già dal 1839, in ambiente medico e chimico, si ipotizzò che il pigmento fosse nocivo per la salute e se ne sconsigliava l’uso. Ma nessuna azione fu intrapresa per limitarne o fermarne l’utilizzo. E perfino il risalto mediatico non fermò la richiesta dell’adorato colore.
Nel 1862, un medico molto famoso che esercitava la sua professione a Londra, Thomas Orton, ipotizzò che l’arsenico nella carta da parati fosse responsabile del decesso di una sua giovanissima paziente e le sue affermazioni suscitarono un gran polverone mediatico, ma non fermarono la produzione e l’uso del pigmento.
Anche quando nel 1879 si scoprì che i francobolli postali inglesi venivano colorati con tinte a base di arsenico e se ne trovava perfino nella birra, ci fu molto clamore ma nessuna azione limitativa.
Si parlò di allarmismo ingiustificato e di caccia alle streghe.
Eppure gli allarmisti avevano ragione.

Un impatto sulla salute che non è possibile quantificare

Nessuno è in grado di stimare quante persone si siano ammalate e/o siano morte a causa della moda del verde smeraldo, nei 100 anni in cui ha dominato l’Europa.
Anche perché l’esposizione era potenziata (per effetto cumulativo) dall’uso comune dell’arsenico come farmaco e come cosmetico.
Nulla fu mai compiuto a livello legislativo e il verde mortale continuò ad essere usato fino a quando fu lentamente soppiantato dai coloranti sintetici a partire dalla fine del secolo.
Insomma gli affari sono affari… da sempre. Finché la spinta verso il colore all’arsenico non si è esaurita da sola, nessuno è intervenuto seriamente a tutela della salute pubblica. Per 100 anni. In tutta Europa.

Nel frattempo fu usato con successo anche per uccidere i topi nelle fogne di Parigi e come pesticida nelle coltivazioni di tutto il mondo. Durante la seconda guerra mondiale, in Italia, per contrastare la riproduzione delle zanzare portatrici di malaria, fu miscelato alla polvere di strada e disperso sulle campagne, oltre che cosparso con gli aeroplani. Questo significa che i nostri nonni e i nostri genitori se lo sono mangiato e sniffato. Abbondantemente.

Vittime famose del colore verde

Vittima illustre del verde smeraldo fu probabilmente Napoleone, a causa della carta da parati verde… una tra le più recenti è del dopoguerra, e si tratta dell’ambasciatrice americana a Roma, Claire Booth Luce, a cui fu riscontrata un’intossicazione da arsenico. Il veleno, presente nel verde degli antichi soffitti dipinti, si sgretolava e cadeva in piccole e letali particelle, venendo quindi sia respirato che ingerito inconsapevolmente.

un colore bello da morire
Una probabile vittima illustre del verde arsenico: Napoleone.
Napoléon Bonaparte, opera di Paul Delaroche

 

un colore bello da morire
L’ambasciatrice americana a Roma, Claire Booth Luce

 

Attenzione alle cose antiche di un colore bello da morire…

Libri e oggetti di antiquariato di colore verde andrebbero maneggiati con cura e attenzione… è opportuno anche essere molto cauti in caso di pitture o carte da parati dello stesso colore in case molto antiche.

colore verde arsenico
Libri d’epoca della biblioteca di Winterthur con copertine colorate con il verde arsenico

Nexus New Times #171

 

Arriva il n.171 di Nexus New Times, sempre più pungente, avvincente e disincantato. Una lettura da non perdere.

Questo numero richiama la vostra attenzione e riflessione critica su una serie di argomenti, fra la scottante attualità e la storia, sfidandovi, come sempre, a mettere tutto in discussione: ogni cosa che avete letto e sentito, per verificare se da tale cambio di prospettiva, il significato resta tale o assume nuove modulazioni e possibilità. Disimparare le certezze e nutrire il dubbio per aprirci tutti ad una visione della realtà libera e indipendente, è da sempre l’obiettivo di Nexus New Times e tale resterà in futuro.

I nocchieri del dubbio del n. 171 ci traghettano nello spietato mondo dell’economia, dietro le quinte delle manovre delle gradi potenze, nella segreta guerra ambientale, indietro nel tempo a scoprire antichi e recenti enigmi, inseguendo i tentacoli del deep state, nello spazio a porci domande sulle eclissi improvvise (che non sono possibili), nel mondo della musica, a scoprire come sia stata usata come strumento di controllo e manipolazione e nell’arte, a scovare connessioni fra Guglielmo Marconi e i futuristi. Due le interessantissime interviste proposte: Matthew Ehret ed Erich von Däniken.
Buona lettura!

“La trasformazione delle prospettive è il processo attraverso cui si diventa critici sulle modalità e sulle ragioni per le quali i nostri assunti sono arrivati a condizionare il nostro modo di percepire il mondo”.    Jack Mezirow

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Una spirale di plasma dal sole

una spirale di plasma dal sole

Una spirale di plasma emessa dal sole è stata osservata direttamente per la prima volta, con una risoluzione spaziale e temporale mai raggiunta prima.

 

Una spirale di plasma
Immagine composita che combina una mappa EUI a 174 Å acquisita alle 6:10 UT e una mappa Metis acquisita alle 10:17 UT. La freccia indica la protuberanza coronale polare in eruzione.

È recentemente uscito su The Astrophysical Journal, lo studio dello spettacolare fenomeno documentato Il 12 ottobre 2022 dal coronografo italiano Metis a bordo della missione Solar Orbiter dell’Agenzia Spaziale Europea (ESA).

Proprio durante un passaggio ravvicinato al sole, è stata ripresa con un livello di dettaglio mai raggiunto prima, l’evoluzione, nella corona solare, di una lunga struttura radiale che si anima di un moto elicoidale persistente per diverse ore e viene espulsa dalla corona solare, rivelandosi compatibile con le torsioni magnetiche che i modelli teorici associano all’origine del vento solare.

Grazie alla combinazione di immagini in luce visibile e tecniche di elaborazione avanzate, Metis – progettato da Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF), Università di Firenze, Università di Padova, CNR-Ifn, e realizzato dall’Agenzia Spaziale Italiana (ASI) con la collaborazione dell’industria italiana – ha mostrato come il Sole possa trasferire energia e materia verso lo spazio in forma di onde e plasma intrecciati tra loro, rivelando un meccanismo fondamentale nella dinamica dell’eliosfera.

Una spirale di plasma
Le frecce indicano la protuberanza coronale polare in eruzione, con la sua configurazione a spirale chiaramente visibile durante la fase di ascesa.

Alla guida dello studio c’è Paolo Romano, primo ricercatore dell’INAF di Catania. Romano, che ha coordinato il lavoro di un ampio team internazionale, afferma: “È la prima volta che osserviamo direttamente un fenomeno così esteso e duraturo, compatibile con la riconnessione magnetica in una struttura chiamata pseudostreamer. Questa osservazione offre una finestra inedita sulla fisica che sta alla base della formazione del vento solare. Questo risultato non solo conferma teorie elaborate da anni, ma fornisce finalmente un riscontro visivo diretto”.

Ma cos’è uno pseudostreamer? Si tratta di una configurazione del campo magnetico solare in cui due regioni chiuse di polarità opposta sono immerse in un ambiente di campo magnetico aperto. Nella corona, gli pseudostreamer sono le “canne del vento” del Sole: regioni da cui, in seguito a un’eruzione, possono aprirsi nuovi canali per il flusso del plasma verso lo spazio interplanetario.

Nel caso dell’evento ripreso da Metis, tutto ha avuto inizio con l’eruzione di una protuberanza polare – un gigantesco arco di plasma “appeso” ai campi magnetici nella regione nord del Sole – che ha innescato una piccola espulsione di massa coronale (CME). Ma il vero spettacolo è arrivato dopo, nella lunga fase di rilassamento che ha seguito l’eruzione. È lì che Metis ha osservato il susseguirsi di strutture filamentose, luminose e scure, che si attorcigliano lungo la linea radiale della corona, a distanze comprese tra 1,5 e 3 raggi solari.

Il team ha interpretato questi segnali come la firma visibile di un processo previsto da tempo: la riconnessione magnetica, che trasferisce il plasma e la torsione magnetica dalle regioni chiuse del campo solare verso quelle aperte, innescando onde di tipo torsionale – le onde di Alfvén – e lanciandole nello spazio.

Un tassello fondamentale è arrivato dal confronto con sofisticate simulazioni numeriche condotte da Peter Wyper, della Durham University, in collaborazione con Spiro Antiochos del NASA Goddard Space Flight Center. Le immagini sintetiche prodotte da queste simulazioni mostrano un’evoluzione sorprendentemente simile a quella ripresa da Metis: strutture elicoidali che si propagano lungo il campo aperto, con caratteristiche geometriche e dinamiche in forte accordo con i dati osservati.

“Le prestazioni uniche di Metis in termini di risoluzione spaziale e temporale aprono una nuova finestra sulla comprensione dell’origine del vento solare”, commenta Marco Romoli, dell’Università di Firenze e responsabile scientifico dello strumento Metis. “Per la prima volta vediamo l’intera evoluzione di un processo di rilascio di energia magnetica, dalle sue radici nel Sole fino all’apertura nello spazio interplanetario”.

“Le onde di Alfvén torsionali e in generale i meccanismi fisici che innescano fluttuazioni magnetiche di questo tipo – dichiara Marco Stangalini responsabile del programma Solar Orbiter per l’Agenzia Spaziale Italiana – sono da tempo ritenuti tra i principali meccanismi alla base dell’accelerazione del vento solare. Metis, grazie alla elevata cadenza temporale delle sue immagini, ci offre la possibilità di osservare direttamente questi processi fisici, consentendo anche un miglioramento della modellistica fisica ad essi associata”.

Le osservazioni di Metis non solo confermano i modelli teorici più avanzati, ma suggeriscono che lo stesso meccanismo – la riconnessione magnetica a piccola scala – possa avvenire continuamente sulla superficie del Sole, generando quei “microgetti” che alimentano il vento solare Alfvénico rivelato anche dalla sonda Parker Solar Probe.

In altre parole, quella spirale luminosa che Metis ha visto danzare nella corona potrebbe essere solo la versione gigante di un processo che avviene ovunque, continuamente, e che rende possibile l’esistenza stessa del vento solare.

Fonte: Agenzia Spaziale Italiana

 

 

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Fotografata l’antimateria con la fotocamera dello smartphone

Fotografare l’antimateria con la fotocamera dello smartphone sembra qualcosa di impossibile, ma se fai parte dell’AEgIS e hai a disposizione il laboratorio antimateria del CERN… diventa possibile. Ecco come è stata fotografata l’antimateria con una risoluzione senza precedenti.

Avreste mai immaginato che il sensore della fotocamera del vostro smartphone potrebbe aiutare a svelare i segreti dell’antimateria?

La collaborazione AEgIS, guidata dal team del professor Christoph Hugenschmidt presso la sorgente di neutroni FRM II della Technical University of Munich (TUM), ha sviluppato un rivelatore utilizzando sensori di fotocamere per cellulari modificati per visualizzare in tempo reale i punti in cui l’antimateria si annichila con la materia. Questo nuovo dispositivo, descritto in un articolo appena pubblicato su Science Advances, può individuare le annichilazioni di antiprotoni con una risoluzione di circa 0,6 micrometri, un miglioramento di 35 volte rispetto ai precedenti metodi in tempo reale.

Fotografata l'antimateria. AEgIS trasforma i sensori degli smartphone in una macchina fotografica per antimateria con una risoluzione senza precedenti.
Il nuovo rivelatore AEgIS (a sinistra) e una selezione delle annichilazioni di antiprotoni che ha catturato (a destra). Le annichilazioni appaiono come eventi a forma di stella con più tracce che emanano da un vertice primario. Le frecce verdi, ciano e arancioni indicano esempi di frammenti nucleari. (Immagine: AEgIS/CERN)

AEgIS e altri esperimenti presso la Antimatter Factory del CERN, come ALPHA e GBAR, hanno l’obiettivo di misurare la caduta libera dell’anti-idrogeno nel campo gravitazionale terrestre con elevata precisione, ognuno utilizzando una tecnica diversa.

L’approccio di AEgIS prevede la produzione di un fascio orizzontale di anti-idrogeno e la misurazione del suo spostamento verticale utilizzando un dispositivo chiamato deflettrometro a moiré che rivela piccole deviazioni nel movimento e un rivelatore che registra i punti di annichilazione dell’anti-idrogeno.

“Affinché AEgIS funzioni, abbiamo bisogno di un rivelatore con una risoluzione spaziale incredibilmente elevata, e i sensori delle fotocamere dei cellulari hanno pixel più piccoli di 1 micrometro”, afferma Francesco Guatieri, il principale ricercatore dell’articolo. “Abbiamo integrato 60 sensori di fotocamera nel nostro rivelatore, permettendogli di raggiungere una risoluzione di 3840 megapixel: il conteggio di pixel più alto di qualsiasi rivelatore di imaging fino ad oggi.”

In precedenza, le lastre fotografiche erano l’unica opzione, ma mancavano di capacità in tempo reale”, ha aggiunto Guatieri. “La nostra soluzione, dimostrata per gli antiprotoni e direttamente applicabile all’anti-idrogeno, combina una risoluzione di livello di lastra fotografica, diagnostica in tempo reale, autocalibrazione e una buona superficie di raccolta delle particelle, il tutto in un unico dispositivo.”

Come è stata fotografata l’antimateria

I ricercatori hanno utilizzato sensori di immagini ottiche commerciali che in precedenza avevano dimostrato di essere in grado di visualizzare positroni a bassa energia in tempo reale con una risoluzione senza precedenti. “Abbiamo dovuto rimuovere i primi strati dei sensori, che sono progettati per gestire l’elettronica integrata avanzata dei telefoni cellulari”, afferma Guatieri. “Ciò ha richiesto una progettazione elettronica di alto livello e microingegneria.”

L’intuizione umana ha superato i metodi automatizzati

Un fattore chiave nel raggiungimento della risoluzione record è stato un elemento inaspettato: il crowdsourcing. “Abbiamo scoperto che l’intuizione umana attualmente supera i metodi automatizzati”, afferma Guatieri. Il team AEgIS ha chiesto ai suoi colleghi di determinare manualmente la posizione dei punti di annichilazione degli antiprotoni in ciascuna delle oltre 2500 immagini del rivelatore, una procedura che si è rivelata molto più accurata e precisa di qualsiasi algoritmo. L’unico aspetto negativo: ci sono volute fino a 10 ore per ogni collega per analizzare ogni evento di annichilazione.

Il sensore innovativo con cui è stata fotografata l’antimateria ha battuto il record di risoluzione

“La straordinaria risoluzione ottenuta ci permette di distinguere tra diversi frammenti di annichilazione”, afferma il portavoce di AEgIS Ruggero Caravita. Misurando la larghezza delle tracce di diversi prodotti di annichilazione, i ricercatori possono esaminare se le tracce sono prodotte da protoni o pioni.

“Il nuovo rivelatore apre la strada a nuove ricerche sull’annichilazione di antiparticelle a bassa energia ed è una tecnologia rivoluzionaria per l’osservazione dei piccoli spostamenti dell’anti-idrogeno causati dalla gravità”, afferma Caravita.

Fonte: CERN

https://www.science.org/doi/10.1126/sciadv.ads1176

 

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Tecnologie quantistiche: arriva InAsOI

Tecnologie quantistiche
InAs-on-Insulator (InAsOI)

Una nuova piattaforma per circuiti superconduttivi è stata sviluppata dalla icerca Cnr Nano per le tecnologie quantistiche.

Nell’ambito delle tecnologie quantistiche, un team di ricercatori dell’Istituto nanoscienze del Cnr (Cnr Nano) ha sviluppato un approccio innovativo all’elettronica superconduttiva, ideando una piattaforma chiamata InAs-on-Insulator (InAsOI). Questa soluzione migliora le prestazioni dei circuiti quantistici superconduttivi, favorendo miniaturizzazione e funzionalità avanzate, con nuove prospettive per le tecnologie quantistiche del futuro. La ricerca, pubblicata su Advanced Functional Materials, è stata coordinata da Francesco Giazotto di Cnr Nano, con il contributo di Alessandro Paghi, Giorgio De Simoni, Omer Arif e Lucia Sorba, di Cnr Nano, e di Giacomo Trupiano della Scuola Normale Superiore.

Tecnologie quantistiche
InAs-on-Insulator (InAsOI)

Lo studio si è concentrato su circuiti superconduttivi ibridi, basati su materiali semiconduttori come l’arseniuro di indio (InAs) e superconduttori come l’alluminio, fondamentali per lo sviluppo dell’elettronica quantistica veloce e a basso consumo energetico. Solitamente questi circuiti sono realizzati su substrati tridimensionali, pozzi quantici bidimensionali o nanofili unidimensionali, soluzioni che presentano limiti specifici. Il nuovo substrato InAs-on-insulator offre vantaggi unici rispetto a queste alternative.

La piattaforma InAs-on-insulator (InAsOI ) è costituita da uno strato sottile di arseniuro di indio (InAs) cresciuto mediante una tecnica di crescita epitassiale su uno strato metamorfico InAlAs, che funge da isolante elettrico a basse temperature. “Le proprietà isolanti di questo strato, quando si opera a temperature criogeniche ovvero bassissime, riducono efficacemente le interferenze elettriche indesiderate tra dispositivi adiacenti, una caratteristica cruciale per la miniaturizzazione e l’integrazione di circuiti complessi”, spiega Alessandro Paghi. “Ulteriore vantaggio della piattaforma InAsOI è la possibilità di modificare localmente la densità elettronica dello strato di InAs dopo la crescita del materiale. Questo consente un controllo più preciso di proprietà elettroniche importanti e la possibilità di realizzare dispositivi quantistici con proprietà diverse sullo stesso substrato”.

I circuiti superconduttivi ibridi testati dai ricercatori sulla nuova piattaforma InAsOI hanno mostrato ottime prestazioni, tra cui la capacità di sostenere correnti non dissipative elevate. “Rispetto alle piattaforme superconduttive esistenti e consolidate, la nuova InAsOI offre prestazioni competitive o superiori”, commenta Francesco Giazotto, che a Cnr Nano guida il Laboratorio di elettronica quantistica superconduttiva (SQEL). “Permette infatti di realizzare dispositivi esposti in superficie, semplificando la lavorazione, riduce le interferenze tra circuiti vicini e supporta supercorrenti elevate, favorendo la miniaturizzazione senza compromessi sulle prestazionii”. “InAsOI apre inoltre la strada allo studio di fenomeni quantistici innovativi, come la supercorrente non reciproca e le transizioni di fase topologiche, e supporta diverse architetture elettroniche quantistiche, tra cui qubit superconduttivi, transistori superconduttivi, diodi ed interferometri”, conclude il ricercatore.

La piattaforma InAsOI è stata sviluppata presso il laboratorio Nest della Scuola Normale Superiore di Pisa, grazie alla collaborazione tra due team di Cmr Nano: il gruppo MBE, guidato da Lucia Sorba, e il laboratorio SQEL, diretto da Francesco Giazotto. I substrati InAsOI sono stati cresciuti mediante la tecnica della Molecular Beam Epitaxy, mentre le giunzioni Josephson sono state fabbricate e caratterizzate a temperature prossime allo zero assoluto nel laboratorio SQEL. Lo studio è stato supportato dai progetti europei SPECTRUM e SUPERGATE.

InAs on Insulator: A New Platform for Cryogenic Hybrid Superconducting Electronics, Paghi, A., Trupiano, G., De Simoni, G., Arif, O., Sorba, L. and Giazotto, F. (2025), Adv. Funct. Mater. Volume 35, Issue 7/2025. https://doi.org/10.1002/adfm.202570040

 

Fonte: CNR

Fotografata la “ragnatela cosmica” della materia oscura

Immagine della porzione di cielo nella direzione del MUDF (MUSE Ultra Deep Field, la regione di cielo oggetto delle osservazioni MUSE). Sullo sfondo, a colori, le galassie osservabili davanti e dietro al filamento cosmico, visibile in viola. Le due galassie agli estremi della struttura, avvolte da nubi di gas, ospitano al centro buchi neri supermassicci, visibili in azzurro. [Credito: Joseph DePasquale/Space Telescope Science Institute]

Fotografata la “ragnatela cosmica” della materia oscura che forma l’Universo.

La “ragnatela cosmica” della materia oscura
Gemello del filamento cosmico osservato nel MUDF come visto da una simulazione al super computer che descrive la distribuzione del gas su grandi scale nell’Universo. Visibile in viola è il gas che scorre all’interno della ragnatela cosmica, alimentando la formazione di galassie nei punti dove più filamenti convergono.
[Credito: Davide Tornotti/Università di Milano-Bicocca]
Le prime immagini ad alta definizione della “ragnatela cosmica” che struttura l’Universo sono state ottenute grazie a uno studio guidato da ricercatori dell’Università di Milano-Bicocca in collaborazione con l’Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF). Grazie a MUSE (Multi-Unit Spectroscopic Explorer), innovativo spettrografo installato presso il Very Large Telescope dell’European Southern Observatory, in Cile, il team ha catturato una struttura cosmica risalente a un Universo molto giovane. La scoperta è stata appena pubblicata su Nature Astronomy nell’articolo “High-definition imaging of a filamentary connection between a close quasar pair at z=3” e apre una nuova prospettiva per comprendere l’essenza della materia oscura.

Immagine della porzione di cielo nella direzione del MUDF (MUSE Ultra Deep Field, la regione di cielo oggetto delle osservazioni MUSE). Sullo sfondo, a colori, le galassie osservabili davanti e dietro al filamento cosmico, visibile in viola. Le due galassie agli estremi della struttura, avvolte da nubi di gas, ospitano al centro buchi neri supermassicci, visibili in azzurro.
[Credito: Joseph DePasquale/Space Telescope Science Institute]
Sfruttando le capacità offerte dal sofisticato strumento, il gruppo di ricerca coordinato da Michele Fumagalli e Matteo Fossati, professori nell’unità di Astrofisica dell’Università di Milano-Bicocca, ha condotto una delle più ambiziose campagne di osservazione con MUSE mai completata in una singola regione di cielo, acquisendo dati per centinaia di ore.

Un solido pilastro della cosmologia moderna è l’esistenza della materia oscura che, costituendo circa il 90% di tutta la materia presente nell’Universo, determina la formazione e l’evoluzione di tutte le strutture che osserviamo su grandi scale nel Cosmo. «Sotto l’effetto della forza di gravità, la materia oscura disegna un’intricata trama cosmica composta da filamenti, alle cui intersezioni si formano le galassie più brillanti», ha spiegato Michele Fumagalli. «Questa ragnatela cosmica è l’impalcatura su cui si creano tutte le strutture visibili nell’Universo: all’interno dei filamenti il gas scorre per raggiungere e alimentare la formazione di stelle nelle galassie».

«Per molti anni, le osservazioni di questa ragnatela cosmica sono state impossibili: il gas presente in questi filamenti è infatti così diffuso da emettere solo un tenue bagliore, indistinguibile dagli strumenti allora disponibili», commenta Matteo Fossati. MUSE, grazie alla sua elevata sensibilità alla luce, ha consentito agli scienziati di ottenere immagini dettagliate di questa ragnatela cosmica. Lo studio guidato da Davide Tornotti, dottorando dell’Università di Milano-Bicocca, e collaboratori ha utilizzato questi dati ultrasensibili per produrre l’immagine più nitida mai ottenuta di un filamento cosmico che si estende su una distanza di 3 milioni di anni luce attraverso due galassie che ospitano ciascuna un buco nero supermassiccio.

«Catturando la debole luce proveniente da questo filamento, che ha viaggiato per poco meno di 12 miliardi di anni prima di giungere a Terra, siamo riusciti a caratterizzarne con precisione la forma e abbiamo tracciato, per la prima volta con misure dirette, il confine tra il gas che risiede nelle galassie e il materiale contenuto nella ragnatela cosmica», spiega Davide Tornotti. «Attraverso alcune simulazioni dell’Universo con i supercomputer, abbiamo inoltre confrontato le previsioni del modello cosmologico attuale con i nuovi dati, trovando un sostanziale accordo tra la teoria corrente e le osservazioni».

«Quando quasi 10 anni fa Michele Fumagalli mi ha proposto di partecipare a queste osservazioni ultra-profonde con lo strumento MUSE ho accettato con grande entusiasmo perché le potenzialità dello studio erano veramente moltissime», commenta Valentina D’Odorico, ricercatrice INAF e co-autrice del lavoro. «Abbiamo già pubblicato vari lavori basati su questi dati, ma il risultato ottenuto nell’articolo guidato da Tornotti può essere considerato il coronamento del progetto. Infatti, non solo vengono identificate le sovradensità occupate dai nuclei galattici attivi presenti nel campo e il filamento che li unisce, ma tali strutture confrontate in modo quantitativo con le predizioni di simulazioni numeriche sono in accordo con un modello di formazione delle strutture cosmiche che adotta materia oscura fredda».

La ricerca è stata supportata da Fondazione Cariplo e dal Ministero dell’Università e Ricerca attraverso il Progetto Dipartimenti di Eccellenza 2023-2027 (BiCoQ, Bicocca Centre for Quantitative Cosmology).

 

Göbekli Tepe racconta le catastrofi astronomiche

Göbekli Tepe racconta le catastrofi astronomiche
I simboli nel pilastro 43 ("Pietra dell'Avvoltoio") indicano una data specifica: il solstizio d’estate del 10950 a.C.

Göbekli Tepe era un osservatorio astronomico per monitorare fenomeni celesti potenzialmente catastrofici.

Göbekli Tepe
Panoramica di Göbekli Tepe, centro di culto antichissimo, non ancora del tutto scavato, con datazioni dal 9700 a.C. al 10.000 a.C.

Göbekli Tepe racconta le catastrofi astronomiche, anzi, probabilmente fu proprio costruito come “memento” per un evento specifico, un impatto con uno sciame meteorico che freddò il pianeta per più di mille anni e che potrebbe ripetersi.

Il più antico santuario megalitio finora scoperto (e ancora non del tutto) era un vero e proprio osservatorio astronomico utilizzato per monitorare a lungo termine fenomeni celesti, con una particolare attenzione agli eventi potenzialmente catastrofici. È la conclusione a cui sono giunti Martin B. Sweatman e Dimitrios Tsikritsis, dell’Università di Edimburgo, con un loro studio pubblicato su Mediterranean Archaeology and Archaeometry (https://www.maajournal.com/index.php/maa/article/view/686/613). Analizzando le rappresentazioni simboliche che compaiono sul pilastro 43 (Pietra dell’avvoltoio) e sui pilastri 2, 38 e 18 di Göbekli Tepe, e interpretandole in chiave astronomica, gli scozzesi hanno trovato non solo una precisa corrispondenza con come le stelle apparivano nel cielo nel 9.530 a.C. ma anche la registrazione di un evento astronomico catastrofico avvenuto nel 10.950 a.C. (± 250 anni). Una data che corrisponde all’evento del Dryas recente.
Il Dryas recente fu un periodo geologicamente breve di clima molto freddo (durato approssimativamente 1.300 ± 70 anni) avvenuto tra 12.800 e 11.500 anni fa. Una delle teorie per spiegarne la causa è l’impatto cosmico del Dryas recente (anche detta ipotesi della cometa di Clovis), che prevede ci sia stata una grande esplosione nell’atmosfera terrestre, o un impatto di uno o più oggetti provenienti dallo spazio esterno, come uno sciame di condriti carbonacee o di comete.

Il simbolismo di Göbekli Tepe conferma la teoria dell’evento del Dryas recente.

L’analisi si concentra sul Pilastro 43 (“Pietra dell’Avvoltoio”), i cui simboli vengono interpretati come una datazione astronomica specifica corrispondente al solstizio d’estate del 10.950 a.C. ± 250 anni, coincidente sia con le datazioni del sito ottenute con il radiocarbonio, sia con la data stimata per l’evento Dryas recente.

Göbekli Tepe racconta le catastrofi astronomiche
I simboli nel pilastro 43 (“Pietra dell’Avvoltoio”) indicano una data specifica: il solstizio d’estate del 10950 a.C.

Il Pilastro 43 contiene simboli da interpretare come costellazioni e asterismi: il Sole, Libra, Lupus, Ofiuco e Sagittario. Altri simboli, come le “borse”, sono interpretati come indicatori dei solstizi ed equinozi. I simboli a “H” come indicatori di Vega e/o Deneb, antiche stelle polari. L’omino senza testa come riferimento alle vittime di una catastrofe.

I Pilastri 2 e 38, mostrano sequenze di tre animali. Considerando la precessione degli equinozi, queste sequenze sono rappresentazioni delle traiettorie degli sciami meteorici delle Tauridi, che furono visibili nella zona della costellazione dei Pesci nel 9530 a.C.

Göbekli Tepe racconta le catastrofi astronomiche
Il pilastro 2 rappresenta una sequenza di costellazioni da cui intorno al 10.000 a.C. si vide lo sciame delle Tauridi

La fibbia sul Pilastro 18 simboleggia l’onda d’urto di un bolide. Tutti questi elementi suggeriscono un focus sulle comete e i loro sciami meteorici, in particolare provenienti dalle Tauridi.

Göbekli Tepe racconta le catastrofi astronomiche
Il pilastro 38 mostra tre animali che rappresentano la traiettoria dello sciame delle Tauridi nel 9530 a.C.

La fibbia sul Pilastro 18 simboleggia l’onda d’urto di un bolide.

Göbekli Tepe racconta le catastrofi astronomiche
La fibbia sul Pilastro 18 simboleggia l’onda d’urto di un bolide. 
Göbekli Tepe racconta le catastrofi astronomiche
Dettaglio del pilastro 18

Tutti questi elementi suggeriscono un focus sulle comete e i loro sciami meteorici, in particolare provenienti dalle Tauridi.

Questa interpretazione, supportata da un’analisi statistica che riduce la probabilità di coincidenza a meno di uno su cinque milioni, indica che Göbekli Tepe era un osservatorio per monitorare eventi celesti a lungo termine, con particolare attenzione a quelli potenzialmente catastrofici e “ricorrenti”. Sweatman e Tsikritsis suggeriscono che l’intento che portò alla costruzione del santuario megalitico di Göbekli Tepe fu quello di erigere una memoriale dell’impatto astronomico che diede il via al Dryas recente.

Göbekli Tepe racconta le catastrofi astronomiche
Pilastro 33. Serpenti fuoriescono dalle gambe e dai corpu di uccelli e volpi. Un chiaro simbolo di meteore provenienti d costellazioni

 

Un’interpretazione in linea con la teoria del “catastrofismo coerente” degli astronomi Victor Clube e William Napier, secondo la quale ciclicamente delle comete entrano nel sistema solare e mettono in circolazione sciami di detriti. In tale prospettiva, i due sciami meteorici dei Tauridi e oggetti asteroidali e cometari con orbite simili – tra i quali, per esempio, figurano la cometa di Encke e gli asteroidi Oljato, Heracles, Jason e Poseidon – sarebbero proprio i residui di un simile episodio verificatosi tra i 20 e 30 mila anni fa.

Per approfondire:

https://martinsweatman.blogspot.com/2020/10/gobekli-tepes-pillars.html

La storia dei primi europei si riscrive in Spagna

la storia dei primi europei
Fossile (ATE7-1) della parte mediana del viso di un ominide, attribuito a Homo aff. erectus, rinvenuto al livello TE7 della Sima del Elefante (Sierra de Atapuerca, Burgos). Credit: Maria D. Guillén / IPHES-CERCA. Maria D. Guillén / IPHES-CERCA.

La storia dei primi europei viene riscritta nella Sima del Elefante. Si tratta di una voragine scavata da un antico fiume nella Cueva Mayor della Sierra de Atapuerca in Spagna. Un complesso classificato come Patrimonio dell’umanità in cui sono in corso scavi di importanza straordinaria. In particolare la Sima del Elefante (voragine dell’elefante) ha una conformazione e una storia geologica che ha “intrappolato” resti di animali, uomini primitivi e vegetazione, costituendo così una fonte preziosa di informazioni sul passato dell’umanità.

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Conformazione della Sima del Elefante
L’ominide più antico finora trovato in Europa non appartiene ad alcuna specie nota.

In questa straordinaria cavità sono stati scoperti i più antichi fossili umani dell’Europa, datati a circa un milione di anni fa e attribuiti alla specie ominide Homo antecessor. Recentemente su “Nature” è stato pubblicato lo studio di un frammento facciale, rinvenuto nello stesso sito, che non appartiene ad alcuna specie nota di antenati dell’uomo e gli è stato attribuito il nome provvisorio di “Homo affinis erectus”, cioè simile all’erectus. Il frammento, catalogato come ATE7-1, chiamato affettuosamente “Pink”, è datato fra 1,1 e 1,4 milioni di anni fa, si attesta come l’ominide più antico finora trovato in Europa occidentale.

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Fossile (ATE7-1) della parte mediana del viso di un ominide, attribuito a Homo aff. erectus, rinvenuto al livello TE7 della Sima del Elefante (Sierra de Atapuerca, Burgos). Credit: Maria D. Guillén / IPHES-CERCA. Maria D. Guillén / IPHES-CERCA.

Lo studio di questa scoperta è è stato diretto dalla dott.ssa Rosa Huguet, ricercatrice dell’IPHES-CERCA, professoressa associata dell’Università Rovira i Virgili (URV) e coordinatrice, insieme al dott. Xosé Pedro Rodríguez-Álvarez, ricercatore dell’URV, dei lavori di scavo e ricerca nel sito di Sima del Elefante. Lo studio è frutto della collaborazione tra un ampio gruppo di ricercatori e tecnici dell’IPHES-CERCA e dell’URV, così come di altre istituzioni nazionali e internazionali, tra cui spicca il Centro Nazionale di Ricerca sull’Evoluzione Umana (CENIEH).

Homo affinis erectus

Durante la campagna di scavo del 2022, l’Equipo de Investigación de Atapuerca (EIA) ha recuperato diversi frammenti della parte sinistra del viso di un individuo adulto nel livello TE7 di Sima del Elefante. Questi frammenti hanno richiesto un laborioso lavoro di ricostruzione tramite tecniche tradizionali di conservazione e restauro, così come strumenti avanzati di imaging e analisi 3D. Dopo due anni di ricerca e l’analisi dettagliata di ATE7-1 (“Pink”) ha permesso di concludere che non corrisponde alla specie “Homo antecessor”, ma a una più primitiva, più simile all’homo erectus. Tuttavia, i frammenti non sono sufficienti per una classificazione tassonomica definitiva, per cui, provvisoriamente, è diventato “Homo affinis erectus”.

Come spiega la dott.ssa María Martinón-Torres, direttrice del CENIEH e una delle principali ricercatrici del progetto di ricerca di Atapuerca: “L’Homo antecessor” condivide con il “sapiens” un viso dall’aspetto più moderno e la proiezione delle ossa del naso, mentre la configurazione del viso di Pink è più primitiva, con tratti che ricordano l’Homo erectus, specialmente nella sua struttura nasale, piatta e poco sviluppata”.

Il fossile ATE7-1, datato tra 1,1 e 1,4 milioni di anni fa, è significativamente più antico dei resti di Homo antecessor, che suggerisce che il popolo di Pink sia giunto in Europa in un’ondata migratoria precedente.

Ambiente e stile di vita

Il livello TE7 di Sima del Elefante, dove è stato trovato ATE7-1, contiene numerose prove della presenza e delle attività degli ominini durante il Pleistocene inferiore. Tra queste, sono stati recuperati strumenti di pietra e resti faunistici con segni di taglio, indicando l’uso di tecnologia litica per la lavorazione degli animali.

Secondo il dott. Xosé Pedro Rodríguez-Álvarez, specialista in industria litica: “Gli strumenti di quarzo e selce trovati, sebbene semplici, indicano una strategia di sussistenza efficace e dimostrano la capacità di sfruttare le risorse ambientali”.

I segni di taglio identificati sui resti animali mostrano chiare prove dell’uso di questi strumenti per scuoiare le carcasse animali. “Queste pratiche indicano che i primi europei conoscevano bene le risorse animali disponibili e sapevano sfruttarle in modo sistematico”, aggiunge la dott.ssa Rosa Huguet, specialista in tafonomia.

L’insieme dei dati paleoecologici ottenuti dal livello TE7 mostra che il paesaggio del Pleistocene inferiore nella Sierra de Atapuerca combinava aree boschive, prati umidi e fonti d’acqua stagionali, fornendo un ambiente ricco di risorse per questi primi abitanti umani.

Un traguardo chiave per il progetto Atapuerca

La scoperta di ATE7-1 rappresenta un nuovo passo avanti per il Progetto Atapuerca e lo studio delle prime presenze umane in Europa. Secondo la dott.ssa Marina Mosquera, direttrice dell’IPHES-CERCA e una delle principali ricercatrici del Progetto Atapuerca: “Questo sito è fondamentale per comprendere le nostre origini, e la nuova scoperta rafforza il ruolo di Atapuerca come riferimento mondiale nello studio dell’evoluzione umana”.
Il fossile non solo amplia la conoscenza sui primi abitanti dell’Europa, ma pone anche nuove domande sull’origine e la diversità degli ominini che hanno abitato il continente. Secondo il dott. Eudald Carbonell, co-direttore del Progetto Atapuerca, “Il fatto che troviamo prove di diverse popolazioni di ominidi nell’Europa occidentale durante il Pleistocene inferiore suggerisce che questo territorio è stato un punto chiave nella storia evolutiva del genere Homo”.

Riferimento bibliografico

Huguet, R. et al. The earliest human face of Western Europe. Nature. DOI: 10.1038/s41586-025-08681-0

Fonte: https://www.iphes.cat/

Scoperte nel lago Enigma

Lago Enigma
La superficie ghiacciata del lago Enigma con le Northern Foothills sullo sfondo (fonte: Programma Nazionale di Ricerche in Antartide - PNRA, grant n. PNRA16_00121 'Enigma ')
Lago Enigma
La superficie ghiacciata del lago Enigma con le Northern Foothills sullo sfondo (fonte: Programma Nazionale di Ricerche in Antartide – PNRA, grant n. PNRA16_00121 ‘Enigma ‘)

 

Il lago Enigma, in Antartide, rappresenta una capsula del tempo che custodisce i segreti della vita antica, un’impronta fossile della comunità vivente che popolava la regione prima che il lago fosse sigillato dal ghiaccio. Lo rivela uno studio pubblicato sulla rivista “open access” Communications Earth & Environment, che fa parte del gruppo Nature.

Lo studio, finanziato dal Programma Nazionale di Ricerca in Antartide (PNRA), è stato realizzato dall’Istituto di scienze polari del Cnr (Cnr-Isp) in collaborazione con l’Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia (INGV), l’Istituto di ricerca sulle acque (Cnr-Irsa), la Southern Illinois University (USA) e la Queen’s University Belfast (Irlanda).

Un segreto sorprendente sotto 11 metri di ghiaccio

Il lago Enigma, fino a poco tempo fa ritenuto completamente ghiacciato, ha rivelato un sorprendente segreto: al di sotto di 11 metri di ghiaccio perenne si estende un’ampia massa d’acqua liquida (di almeno 12 metri di profondità), nettamente stratificata e povera di nutrienti. Le perforazioni, effettuate dai ricercatori in più punti del lago durante la XXXV spedizione italiana in Antartide (novembre 2019 – gennaio 2020), e condotte adottando un protocollo rigoroso per il campionamento in ambienti subglaciali antartici, hanno permesso di campionare il ghiaccio superficiale, i diversi strati della colonna d’acqua e i ben sviluppati “microbial mat” del fondo.

Le analisi geochimiche hanno evidenziato che il bacino lacustre è isolato dall’atmosfera e presenta una marcata stratificazione termica e chimica. Le analisi microbiologiche hanno evidenziato che il Lago Enigma ospita un ecosistema microbico estremamente diversificato e abbondante, unico nel suo genere tra i laghi subglaciali antartici. In particolare, la comunità microbica del lago è arricchita da batteri ultramicroscopici del superphylum Patescibacteria, noti anche come Candidate Phyla Radiation (CPR); organismi semplici dal genoma ridotto, mai ritrovati in laghi perennemente ghiacciati prima di questo studio. Questa scoperta evidenzia la complessità e la diversità delle reti alimentari nei laghi antartici perennemente ghiacciati, con stili di vita simbiotici e predatori.

“Alimentato dallo scioglimento del vicino ghiacciaio Amorphous, il Lago Enigma potrebbe ospitare una comunità microbica composta da una miscela di organismi antichi, originari del lago stesso, e di nuovi arrivati dal ghiacciaio”, sostengono gli autori dell’articolo. “. Tuttavia questa ipotesi, pur affascinante, richiede ulteriori studi per essere confermata”.

Fonte: CNR

Telepilo: Atlantide siciliana

Usai Atlantide siciliana
Altre immagini tratte dall'articolo di Usai del 2021
Trovata l’Atlantide siciliana, per la seconda volta

La suggestiva notizia della scoperta di una mastodontica città sommersa ad una quarantina di chilometri a sudest di Portopalo, in Sicilia, a 250 metri di profondità, sta facendo il giro del mondo. Cosa c’è di vero e cosa è ingigantito nella storia dell’Atlantide siciliana?

Il polverone è iniziato con un articolo sul portale di Graham Hancock, celebre giornalista e scrittore di best seller mondiali sull’archeologia misteriosa. Come vedremo la scoperta non è del tutto nuova perché anticipata da un italiano nel 2021. La differenza è la cassa di amplificazione fornita da Hancock, che è mancata al “nostrano” Luigi Usai. Chaisson ha saputo inoltre solleticare le suggestioni in modo molto astuto.

L’autore dell’articolo più recente è l’ingegner André Chaisson, specializzato in mappe topografiche e appassionato di misteri. Chaisson racconta in prima persona di come, nel novembre del 2024, mentre generava mappe topografiche in QGIS dei fondali del mediterraneo, si è imbattuto in “qualcosa di veramente straordinario” a quaranta chilometri a sud-sud-est di Portopalo, ai margini del ciglio sottomarino Malta-Sicilia. Un sito sommerso che l’autore identifica con la Telepilo (o Lamia o Lestrigonia) dei Lestrigoni, i giganti cannibali di cui parla Omero, che attaccarono la flotta di Odisseo.

Chaisson identifica la città sommersa come Telepilo, (o Lamia o Lestrigonia) dei Lestrigoni, citata da Omero.

La struttura rilevata da Chaisson ha una lunghezza di 17,64 chilometri e una larghezza di 4,41 chilometri, dimensioni corrispondono precisamente alle misure antiche: 100 stadi per 25 stadi. “Non sono numeri casuali e la disposizione della città rivela una griglia attentamente strutturata, che riflette una comprensione sofisticata della pianificazione e della progettazione urbana. Questa precisione smentisce qualsiasi ipotesi che il sito sia un’anomalia casuale; le sue caratteristiche inconfondibilmente artificiali indicano una meticolosa maestria artigianale e un’ingegneria avanzata. Con una scala e una complessità che rivaleggia con la grandiosità spesso associata ad Atlantide, Telepilo emerge come uno degli esempi più straordinari di costruzione antica mai scoperti, sollevando profonde domande sulle capacità dei suoi architetti e sul significato culturale della sua forma”.

Atlantide siciliana Telepilo
L’anomalia individuata da Chaisson. Telepilo è l’Atlantide siciliana?

Chaisson analizza e descrive la struttura urbana: a circondare l’intera città c’è un immenso canale, largo oltre mezzo chilometro e lungo 51,5 chilometri. Elevandosi di circa 50 metri sopra l’acqua sottostante. La posizione rialzata e l’imponente via d’acqua, rendevano la città una fortezza quasi inespugnabile.

Telepilo Atlantide siciliana
Mappa batimetrica a rilievo ombreggiato. Le dimensioni indicate sono in metri e in unità di misura greche antiche (1 stadio = 176,4 m).

La porta principale è uno stretto passaggio incastonato tra ripide scogliere, che conduce a un porto interno. Una fila continua di scogliere definisce il bordo settentrionale, mentre un promontorio si protende verso sud, formando una baia protetta.

Un dragaggio digitale per vedere Telepilo senza i sedimenti accumulatisi nei millenni

L’area ha un notevole accumulo di sedimenti, ma l’ingegnere, spiegando i dettagli della sua metodologia, racconta che si è avvalso di quello che chiama “dragaggio digitale”, che rimuove dall’elaborazione batimetrica gli strati di sedimenti morbidi, per evidenziare le strutture più dense sottostanti. È partito dai dati di batimetria marina ad alta risoluzione di EMODnet, ha importato le misurazioni di profondità grezze in Unreal Engine, un potente strumento per la visualizzazione 3D e la manipolazione del terreno, quindi ha rimosso fino a 50 metri di sedimentazione morbida e non consolidata. “Questo scavo digitale migliora la visibilità di formazioni più dure, potenzialmente significative, sottostanti, offrendo una visione più chiara dei contorni naturali o artificiali del fondale marino. Il risultato è un modello 3D raffinato e interattivo”. Ed ecco che sono emerse una serie di grandi formazioni. “Una struttura difficile da ignorare sembra essere un tempio centrale, posizionato direttamente di fronte all’ingresso della porta principale. Potrebbe arrivare un momento in cui verrà rivelata la sua rivalità in scala con la Grande Piramide. Innalzandosi per oltre 150 m sopra l’antica linea di galleggiamento, doveva essere uno spettacolo da ammirare. Un’altra struttura, anch’essa alta quasi 150 metri sopra l’antica riva del mare, posizionata sulla punta del promontorio, potrebbe essere interpretata come un massiccio faro.“

Telepilo, Atlentide siciliana
Vista isometrica 3D del sito utilizzando una mappa a rilievo ombreggiato con scala di colori a profondità media (https://emodnet.ec.europa.eu/)
Odisseo a Telepilo

Vediamo come Omero descrive Telepilo, la città dei Lestrigoni, nel libro X dell’Odissea. «Quando arrivammo nel porto famoso, intorno a cui si alza la roccia scoscesa ininterrottamente ai due lati; coste sporgenti si allungano opposte tra di loro all’imbocco, così che l’entrata è angusta; i compagni arrestarono tutti le navi veloci a virare. Erano dunque ormeggiate all’interno del porto incavato, vicine: dentro non si alza mai l’onda, né molto né poco, e intorno era chiara bonaccia. Io solo trattenni all’esterno la nera nave, lì sulla punta, legando alla roccia una gomena». Quindi Odisseo non conosce il luogo ma ne ha sentito parlare, perché è «famoso». Lascia che gli altri vadano in porto ma lui trattiene la sua nave al riparo su uno sperone roccioso. Poi sceglie un punto di osservazione. «Salii su una altura scoscesa e stetti in vedetta: non si vedevano lì lavori di buoi o di uomini, ma vedevamo soltanto del fumo levarsi da terra. Allora io mandai dei compagni a indagare chi fossero gli uomini che in quella terra mangiavano pane (…) Sbarcati, essi percorsero la strada piana per dove i carri portavano dalle alte montagne la legna in città. Fuori città s’imbatterono in una fanciulla che andava alla fonte, la nobile figlia del Lestrigone Antifate. Ella era scesa alla fonte Artachia dalla bella corrente: da lì portavano l’acqua in città.»

Gli esploratori e l’araldo, guidati dalla ragazza (normale, non gigante) entrano nella casa dei suoi genitori, una dimora «dall’alto soffitto». Una volta dentro, trovano la madre della ragazza e moglie del re Antifante, che è «alta come cima di monte», la quale chiama il marito, che ordina l’uccisione degli stranieri. Ne prende uno e se lo mangia subito. Due scappano fino alle navi ancorate «nel porto profondo», ma i Lestrigoni, tutti giganti, li attaccano. Sulle navi cadono rocce e macigni enormi, che le distruggono e gli uomini vengono infilzati come spiedi e mangiati vivi. Odisseo, allora, taglia l’ormeggio e ordina all’equipaggio di fuggire, abbandonando gli altri al loro destino.
Come fa Odisseo a sapere cosa è successo a terra, dentro la casa del re, se nessuno sopravvive per raccontarglielo?
Se è ancorato a una certa distanza, può aver visto le pietre che dall’alto cadono sulle navi nel porto e le distruggono. Massi che potevano essere lanciati da un probabile meccanismo difensivo (catapulte, ad esempio), può anche aver visto qualche enorme statua con sembianze umane e creato il resto della storia mescolando paura, brutalità e un po’ di dramma, con la motivazione aggiuntiva di non fare brutta figura (è scappato lasciando la flotta al suo destino). Ma sono le descrizioni ambientali ad essere interessanti, secondo l’ingegner André Chaisson. Una grande città, edifici imponenti, un’altura dominante, una fonte dalla «bella corrente» e sistemi difensivi.

Quanto corrisponde il sito sommerso di Telepilo a sud-sud-est di Portopalo con le descrizioni di Odisseo?

“Corrispondono le imponenti scogliere che ancora definiscono il profilo sommerso del sito – afferma Chaisson – le loro forme impenetrabili che resistono nonostante i 50 metri di sedimenti accumulatisi sopra di esse nel corso di millenni di innalzamento del livello del mare. Questo accumulo, una lenta sepoltura piuttosto che un collasso improvviso, nasconde la grandiosità della città, ma ne lascia intatto lo scheletro. La porta principale, uno stretto passaggio fiancheggiato da scogliere, rimane distinguibile, conducendo al porto interno proprio come Omero ha descritto. Nelle vicinanze, il promontorio che sporge verso sud nella baia rispecchia il punto di osservazione di Odisseo”. Quindi la città sommersa nelle acque del mare siciliano potrebbe proprio essere il luogo reale che ha ispirato la descrizione omerica.

atlantide siciliana Telepilo
Telepilo nel 9600 a.C. circa.

 

“Quello che Omero tramandò come fugacemente visto da Odisseo – precisa Chaisson – è solo una parte della storia di Telepilo.” Ci lascia un’impressione viscerale e selvaggia: una città di caos e barbarie, di terrore e non di stupore. Probabilmente le fonti a cui aveva accesso Omero non erano dettagliate come quelle di Platone nel descrivere Atlantide.
“Il sito sommerso colma le lacune – afferma Chaisson – con le sue pietre silenziose. Ci invita a vedere oltre la nebbia del mito, per immaginare una Telepilo non di giganti e rovine, ma di ingegno e ambizione, perduta nel tempo ma in attesa di essere reclamata”.

Come fa una città a sprofondare nel mare?

Chaisson non ha dubbi: non è la città ad essere sprofondata ma è il mare ad essersi innalzato.
“Durante l’ultima era glaciale, il Mediterraneo fu isolato dall’Atlantico a causa dell’abbassamento del livello di tutti i mari”. Lo stretto di Gibilterra divenne un ponte di Terra, trasformando il Mare Mediterraneo in un lago salato. “Questo isolamento determinò un maggiore ritiro delle acque, fin quasi ad un prosciugamento totale. Nelle vaste distese di pianure fertili così emerse, le civiltà radicarono e prosperarono. Con lo scioglimento dei ghiacciai, il mare riconquistò lentamente queste terre, non attraverso una catastrofe improvvisa, ma in una trasformazione costante che durò millenni”. Secondo l’ipotesi del diluvio zancleano, a un certo punto l’acqua dell’Atlantico superò il ponte di terra di Gibilterra e riempì di nuovo il bacino mediterraneo, andando a colmare il notevole dislivello in pochi anni. Un vero e proprio diluvio, col mare che saliva anche di 10 metri in un giorno.
Ci fu una glaciazione anche in epoca più recente, tra 110.000 e 11.700 anni fa e probabilmente è quella in cui si colloca Telepilo, perché il livello dei mari calò in modo significativo e il collegamento con l’Atlantico, fu significativamente ridotto, determinando meno afflusso di acqua atlantica e una nuova grande evaporazione, abbassò il Mediterraneo di più rispetto agli altri mari. Si dibatte sulla portata di questa restrizione e se sia mai giunta ad un nuovo isolamento totale. “Le mappe batimetriche suggeriscono che un antico ponte di terra che collegava la Spagna meridionale (vicino a Bolonia) al Marocco settentrionale (vicino a Tangeri) – riferisce Chaisson – alla curva di livello di -275 m, si nota una linea costiera continua, suggerendo una connessione che potrebbe essere salita a -60 m, isolando il Mediterraneo per un periodo massimo di 80.000 anni.”

Telepilo Atlantide siciliana
Il Mediterraneo durante l’Ultimo Massimo Glaciale.

Chaisson ipotizza che Telepilo sia fiorita nel periodo dell’ultima glaciazione per poi essere abbandonata intorno all’8600 a.C., quando il livello del mare, che risaliva lentamente, iniziò a sommergerla.

“I parallelismi tra Telepilo e Atlantide sono speculativi – prosegue Chaisson – entrambi sono descritti come porti fiorenti lungo rotte commerciali vitali, circondati da terre ricche. Telepilo, con la sua scala monumentale e il suo design intricato, offre uno sguardo allettante sul potenziale delle antiche società, spingendoci a ripensare a ciò che era possibile nel lontano passato.”

Telepilo non è un fenomeno isolato

L’esistenza di Telepilo indica un mondo mediterraneo antico più ampio e nascosto. Se l’ipotesi del ponte di terra di Bolonia-Tangeri è vera, il bacino del Mediterraneo durante l’Ultimo Massimo Glaciale non era il mare che conosciamo oggi. Le sue pianure si estendevano molto oltre i confini attuali, potenzialmente brulicanti di antiche società umane. Telepilo, con il suo vasto porto e le sue difese ingegnerizzate, probabilmente non era una meraviglia solitaria, ma un nodo chiave in una rete ora sommersa di insediamenti.

“Nel sud-est della Turchia, Göbekli Tepe, datato intorno al 9600 a.C. – spiega Chaisson – è la prova che l’architettura monumentale prosperò in un’epoca un tempo considerata troppo primitiva per tali imprese. I suoi pilastri e recinti intagliati rispecchiano la maestosità del canale e delle scogliere di Telepilo. Altrove, siti sommersi come il monumento di Yonaguni in Giappone o la grotta Cosquer in Francia, inondati con l’innalzamento dei mari, suggeriscono un tema ricorrente: culture costiere che fiorirono durante l’era glaciale, solo per essere cancellate dalle stesse maree inarrestabili che reclamarono Telepilo.”

Chaisson trova riscontri nei dati batimetrici dei mari siciliani: “La curva di livello di -250 m lungo il ciglio sottomarino Malta-Sicilia rivela una piattaforma sconfinata, centinaia di chilometri di terra un tempo abitabile che avrebbe potuto sostenere una rete di comunità – e rilancia – La disposizione precisa e le caratteristiche monumentali di Telepilo suggeriscono che fu costruita per durare. Con il declino dell’era glaciale e il cedimento del ponte di terra, l’innalzamento delle acque non inghiottì solo una città, ma annegò un intero paesaggio culturale. Telepilo sopravvive come una rara reliquia rilevabile, le sue rovine sommerse sono una finestra su quest’epoca perduta. Suggerisce un Mediterraneo non di avamposti sparsi, ma di società intrecciate, un arazzo di sforzi umani ora nascosto sotto le onde, in attesa di essere riscoperto attraverso l’esplorazione moderna.

Ipotesi di cronologia

“Telepilo, costruita a -250 m, avrebbe potuto prosperare solo durante un’era prolungata di stabilità della linea costiera. Mentre la Terra si riscaldava dopo l’era glaciale, i mari globali salirono da -125 m. Quando l’Atlantico ruppe il ponte di terra a -60 m (la sua tempistica precisa è incerta) quella stabilità crollò e il mare inghiottì i mondi costieri. Ciò suggerisce che Telepilo fu disabitata intorno all’8600 a.C..

Fig. 6 – Mappa batimetrica che mostra il bacino del Mediterraneo a 250 metri al di sotto degli attuali livelli del mare, illustrando le ipotizzate masse terrestri esposte durante il periodo glaciale del Wisconsiniano. Crediti: Dati dal database batimetrico EMODnet (www.emodnet-bathymetry.eu)

Se Telepilo precede di millenni l’età del bronzo, l’Odissea e l’Iliade potrebbero riflettere un mondo molto più antico, uno in cui le coste del Mediterraneo si estendevano in modo molto diverso. Ciò implica che Odisseo, e i miti a lui legati, potrebbero essere un’eco di un’epoca lontana perduta a causa dell’innalzamento del mare. Su questa idea parte la sfida di Chaisson: “Rivedendo l’Odissea di Omero attraverso questa lente e incrociando i dati geospaziali moderni (come EMODnet e GEBCO), possiamo rivalutare innumerevoli racconti mitologici, mappando le loro antiche narrazioni su paesaggi tangibili e scoprendo nuove intuizioni su come queste storie riflettano l’evoluzione del rapporto dell’umanità con il mondo fisico”.

La nostra conoscenza, anche quando la riteniamo dogmatica, si basa in realtà su ipotesi fragili, con poche prove e narrazioni incontestate. “Se Telepilo richiede una riscrittura della storia – dichiara Chaisson – dobbiamo farlo”.

Telepilo necessita sicuramente di esplorazione e indagini accurate, che Chaisson assicura essere già in programma, con ROV e sommergibili. “Telepilo è la porta d’accesso, il primo passo per riscrivere il nostro passato e reclamare verità a lungo sommerse. Possiamo aggrapparci a un mondo in cui i miti rimangono miti, o abbracciare un’alba in cui il mondo antico viene riscoperto. In archeologia, una verità persiste: più scavi in profondità, più antica diventa la storia”.

Il precedente di Luigi Usai

In realtà la scoperta di Chaisson non è esattamente “nuova” perché ricalca con quattro anni di differita quella dell’italiano Luigi Usai, che nel dicembre del 2021 individuò la stessa struttura, pubblicandone immagini ancora più dettagliate.

Immagine dell’articolo del 2021 di Luigi Usai
Usai Atlantide siciliana
Altre immagini tratte dall’articolo di Usai del 2021
atlantide siciliana Usai
Altre immagini tratte dall’articolo di Usai del 2021
Scriveva Usai:

“Non è ancora chiaro di che popoli si tratti: le mura sono posizionate tra i -60 ed i -220 metri sott’acqua. (…) Immediatamente vengono però alla mente alcune ipotesi per ora ancora fantasiose: i Lestrigoni, i Ciclopi oppure le Amazzoni, sono solo alcuni dei popoli che affiorano alla mente, che misteriosamente sembrano scomparsi nel nulla. Una città sconosciuta e mai sentita prima affondata al largo delle coste siciliane e mai più trovata fino ad oggi. Probabilmente sarà necessario modificare i libri di Storia, per aggiungere questa curiosa parte mancante. Questo tipo di scoperta aiuterà forse i geologi a comprendere meglio anche fenomeni come la Crisi della Salinità del Mediterraneo e la chiusura dello Stretto di Gibilterra; avrà forse dei legami con il mito di Atlantide raccontato da Platone nel 3° libro del Timeo e nel Crizia, due suoi noti scritti. E forse gli archeologi avranno materiale da studiare per i prossimi 200 anni.”

Altre immagini tratte dall’articolo di Usai del 2021

 

fonti: https://grahamhancock.com/chaissona1/

Mysterious submerged artifacts on the Hyblean carbonate platform, west of Sicily-Malta Escarpment found by Luigi Usai

Fonti primarie e articoli di ricerca
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Lamb, H. H. (1995). Climate, History and the Modern World. Routledge.
Micallef, A., Camerlenghi, A., Georgiopoulou, A., Garcia-Castellanos, D., & Gutscher, M.-A. (2018). The Malta-Sicily Escarpment: Mass Movement Dynamics in a Sediment-Undersupplied Margin. Tectonophysics, 744, 315-332. doi:10.1016/j.tecto.2018.07.017
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Historical & Archaeological References
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Thucydides. History of the Peloponnesian War. Trans. Rex Warner. Penguin Classics, 1954.
Geological & Environmental Studies
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Flemming, N. C. (1978). Holocene Eustatic Changes and Coastal Archaeology in the Mediterranean Region. Nature, 271, 315–317.
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